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Cara Luisa, benvenuto!

Luisa Carrada parla del "maschile sovraesteso" e dei metodi per aggirarlo, come per esempio l'utilizzo di "chi legge" al posto di "lettore" o di "tutte le persone che" al posto di "tutti quelli che". L'idea è che un linguaggio maggiormente inclusivo, che sia anche chiaro e leggibile, possa a breve essere considerato la normalità.
Oggi mi chiedo come abbia fatto a non accorgermi per tanti anni che per il mercato ero un puntino indistinto in un mare di maschi. L’illuminazione è piombata su di me sotto la forma della newsletter della mia banca: «Gentile Cliente, vuoi essere sempre sicuro che i tuoi dati siano protetti?». Sicuro? Mi è scattato subito il pensiero: «Ma io sono una signora!», anzi una signora indignata. Quella signora indignata per lavoro faceva la business writer e come tale scriveva testi web, lettere e newsletter destinati a clienti dei suoi clienti. Le è preso un colpo e si è guardata allo specchio. Lì per lì si è un po’ rincuorata: «Dai Luisa, tu cose così tremende non le scrivi». Ma ormai cominciava a vedere maschili sovraestesi dappertutto e a provare sempre più fastidio. E siccome prima che una professionista si considerava una normalissima cliente e cittadina, pensò che quel fastidio lo provavano sicuramente milioni di altre signore e ragazze. Così è cominciata la “grande bonifica”: il maschile sovraesteso andava prima di tutto aggirato. Mi sono accorta che non era poi così difficile, bastava pensarci per accorgersene: la soluzione seguiva e pian piano mi sono ritrovata con un paniere di soluzioni. Lettore diventava chi legge. Tutti quelli che… diventava tutte le persone che… Il chilometrico le studentesse e gli studenti si poteva risolvere con chi sceglie la nostra università. Il participio passato si poteva trasformare in tanti modi: sei riuscito? in ce l’hai fatta? e come ti sei sentito in cosa hai provato? Ben presto la bonifica ha assunto i tratti della sfida: sono riuscita ad aggirare completamente il maschile nei miei ultimi tre libri e mi diverto a suggerire strategie a chi mi sottopone i suoi testi. Dopo questa iniziale furia integralista, di fronte a tante diverse situazioni ho smussato un po’ le mie posizioni. Resto intransigente quando ci si rivolge a qualcuno in maniera diretta, per esempio su un sito web, una newsletter, un’app; in titoli e sottotitoli e in tutti i microtesti che spiccano molto rendendo il maschile proprio indigesto; in testi orientati al marketing e alla vendita, dove le persone sono più sensibili e i dettagli contano, anche quelli di cui non sono consapevoli. A volte nomino le femmine e i maschi, le lettrici e i lettori, le cittadine e i cittadini, ma solo se il testo rimane leggero e naturale. Temo infatti l’effetto «abbiamo una policy sull’inclusività del linguaggio e la seguiamo anche se il risultato è goffo». Oltre che goffo può risultare persino pesantissimo e sono i casi ─ molto rari, ma ci sono ─ in cui decido che perseguire la neutralità di genere a tutti i costi compromette l’obiettivo del mio lavoro: la naturalezza del testo, la chiarezza del messaggio. Come quando, in un lungo e denso contratto assicurativo, io e la compagnia abbiamo convenuto che no, non potevamo scrivere l’Assicurato o l’Assicurata ogni due righe né allungare troppo con la persona assicurata. Avremmo infastidito tutti, maschi e femmine, complicando il contratto che volevamo semplificare. Abbiamo quindi tenuto il solo maschile, seppure un po’ a malincuore. Il nostro mestiere sta nel tenere insieme molte cose: inclusività, chiarezza, leggibilità, accuratezza e non sempre è possibile averle tutte al 100%. Ma per fortuna le sensibilità evolvono ─ la nostra come quella delle persone e della società nel suo insieme: quella che oggi percepiamo come pesantezza potrebbe non essere più percepita come tale già tra pochissimo tempo e così suggerirci nuove soluzioni. Crediti immagini: Apertura: Fernando Cobelo Box: rielaborazione su immagine Pixabay

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