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Lettere classiche

Felicitas: è felicità se porta frutto

Michela Mariotti approfondisce il concetto di felicitas nel mondo antico partendo dall’opposizione tra le visioni dello stoicismo e dell’epicureismo.

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L’umanità schiava dei beni materiali

«Tutti vogliono vivere felici, ma quando poi si tratta di riconoscere cos’è che rende felice la vita, ecco che ti vanno a tentoni» (Seneca, De vita beata 1,1; trad. D. Agonigi, Milano BUR 1996; da cui deriva anche la traduzione degli altri passi citati): così diceva Seneca al fratello Gallione aprendo il dialogo che indaga l’essenza della felicità. La ricerca del sommo bene, τέλος [tèlos], cioè “fine” a cui deve tendere la vita per avere pienezza di senso e quindi per essere felice, è il problema fondamentale che si pongono le filosofie ellenistiche. La folla segue i primitivi impulsi che rendono l’essere umano simile agli animali: si lascia accecare dallo splendore dell’oro, desidera successo e beni materiali, vive nell’ansia del futuro, teme il dolore, la malattia, la morte. C’è tutta un’umanità infelice, schiava delle passioni: un’umanità di stulti (gr. φαυλοί [faulòi]) sul cui sfondo si staglia la figura del sapiens, il saggio, che vive libero dalla schiavitù delle cose, poiché ripone in sé stesso tutti i suoi beni.

Il saggio epicureo: la felicità si identifica nel piacere

Nella prima parte del De vita beata Seneca polemizza con l’epicureismo, che identifica il sommo bene con il piacere, non il piacere “dinamico”, fonte di ulteriore desiderio e turbamento, ma il piacere “catastematico”, che resta stabile e invariato. Basta poco a raggiungerlo, basta soddisfare i bisogni primari, necessari al naturale corso della vita: «non avere fame, né sete, né freddo. Chi soddisfi questi bisogni… può gareggiare in felicità anche con Zeus», sosteneva Epicuro (Gnomologio vaticano 33). Tutto il resto è superfluo (perfino il sesso è un bisogno naturale, ma non necessario), se non innaturale o dannoso (così la ricchezza, la carriera, il successo). Anche l’epicureismo quindi cerca di liberare l’uomo dalla schiavitù dei beni materiali, di ridurre al massimo la dipendenza da ciò che sta al di fuori di lui e della sua capacità di controllo. Il saggio epicureo realizza così l’ideale dell’ἀταραξία [=ataraxìa], che significa “assenza di turbamento”.

Seneca contro l’epicureismo: la felicità è vivere secondo natura, cioè secondo ragione

Ma Seneca rifiuta l’idea che il piacere possa coincidere con la virtù: «se piacere e virtù non fossero separati non esisterebbero cose piacevoli ma disonorevoli, né cose onorevolissime ma difficili e che si raggiungono solo a prezzo di sofferenze» (De vita beata 7,1). Per Seneca il piacere deve essere non dux sed comes, «compagno e non guida» di una buona e retta volontà, e la felicità può trovarsi soltanto, come insegna lo stoicismo, nella vita secondo natura: «È la natura infatti che dobbiano prendere come guida: a lei si rivolge la ragione, a lei chiede consiglio. Allora vivere felici e secondo natura è lo stesso» (De vita beata 8,1). A partire dalle informazioni fornite dai sensi, elaborate e controllate dalla ragione, l’essere umano comprende di essere parte del Lògos universale, il principio razionale e divino che ordina il mondo. Per uno stoico dunque vivere secondo natura significa vivere secondo ragione. Infatti, «il sommo bene consiste proprio nella convinzione e nel comportamento (in ipso iudicio et habitu) di una mente perfetta che, quando ha compiuto il suo corso e fissati i suoi limiti, ha pienamente realizzato il sommo bene (consummatum est summum bonum) e non desidera niente di più» (De vita beata 9,3).

Felicità e virtù

Posta l’equazione ‘vivere secondo natura = vivere secondo ragione’, al capitolo 16 Seneca conclude: ergo in virtute posita est vera felicitas, «la vera felicità risiede nella virtù». Il saggio non avrà altro criterio di giudizio che la virtù, che si identifica con il bene: di qui la fermezza di giudizio, che lo rende «ben saldo di fronte al male e al seguito del bene (ut sis immobilis et contra malum et ex bono) in modo da imitare Dio». All’esercizio della virtù conseguiranno «privilegi grandi e degni degli dèi»: libertà, indipendenza, intangibilità («non sarai costretto a nulla, non avrai bisogno di nulla, sarai libero sicuro e inviolabile»); al saggio che opera il bene e si prepara a tutto ciò che la sorte gli può riservare, non capiterà niente di avverso, imprevisto o contrario alla volontà (nihil adversum accidet, nihil contra opinionem ac voluntatem), perché nelle alterne vicende della sorte egli riconoscerà un disegno provvidenziale, si adatterà al proprio destino in quanto conforme all’ordine naturale del cosmo. La virtù, perfetta e divina, è più che sufficiente ad assicurare la felicità umana: «Cosa può mancare infatti a chi è al di là di ogni desiderio (extra desiderium omnium positum)? Di cosa può aver bisogno dall’esterno (extrinsecus) chi ha raccolto tutto in sé stesso (qui omnia sua in se collegit)?». La virtù, sommo bene, pone il saggio al di sopra di ogni desiderio e lo libera da ogni bisogno: realizza cioè gli ideali dell’ἀπάθεια [=apàtheia], «assenza di passioni», e dall’αὐτάρκεια [=autarkeia], «autosufficienza», che sono la cifra del saggio stoico.

La felicità esistenziale è dentro l’essere umano

Pur nella differenza delle risposte, epicureismo e stoicismo perseguono il comune obiettivo di rendere l’essere umano indipendente dai beni materiali, soggetti all’arbitrio della fortuna. La felicità epicurea è il piacere ottenuto attraverso un’estrema riduzione dei bisogni. La felicità stoica consiste nell’esercizio razionale della virtù, frutto di una ricerca interiore, di un ritirarsi dell’anima in sé stessa. Per la sapienza antica, la felicità può trovarsi soltanto dentro l’uomo, non fuori di lui. Paradossalmente, però, il termine felicitas, da cui deriva il nostro «felicità», sembra raccontarci un’altra storia.

Il nome “felicità”, fuori dall’essere umano

Derivato dall’aggettivo felix, che significa «fertile, fecondo» (felices sono gli alberi che portano frutto; al contrario, infelices, sterili, quelli improduttivi: cf. Paul.Fest. 81,26), nel suo uso comune felicitas non indica affatto una condizione di felicità interiore: dal campo semantico della fertilità si sviluppano infatti i due significati principali di «prosperità, ricchezza, opulenza» (per esempio in Liv. 23,2,1: Capuam… luxuriantem longa felicitate, «Capua, dedita ai piaceri per una prosperità di lunga data») e «fortuna, successo», per indicare l’esito fortunato di un’impresa (per esempio in Cic. Sull.83, in cui felicitas è in coppia con casus e in antitesi con virtus: casu magis et felicitate, quam virtute et consilio gesta, «imprese compiute più per caso e per fortuna, che con virtù e saggezza»). Quest’uso del sostantivo felicitas ci parla di bona externa, aliena e fortuita, di beni esterni, di fortuna, indipendenti dal controllo umano: un uso, insomma, che si riferisce a tutto ciò che la felicità per l’antica sapienza non è.

Felicitas come “felicità interiore”

Il significato filosofico di felicitas come “felicità interiore” si sviluppa accanto, quasi in opposizione, all’uso comune del sostantivo, ed è attestato già in Cicerone, in un passo in cui è possibile coglierne lo slittamento semantico verso la dimensione della ricerca interiore, perché felicitas e virtus sono usati prima nel senso comune e poi in quello specializzato, relativo all’etica stoica: An senatus, cum trimphum Africano decerneret, “quod eius virtute” aut “felicitate” posset dicere, si neque virtus in ullo nisi in sapiente nec felicitas vere dici potest?, «Forse il senato, decretando il trionfo all’Africano, potrebbe dire “per la sua virtus (=valore)” o “per la sua felicitas (=successo)”, se nessuno, tranne il saggio, si può dire veramente in possesso della virtus (=virtù) o della felicitas (=felicità)?» (De finibus 4,22).

La felicità come conseguenza della virtù

In Seneca, poi, felicitas è diffusamente impiegato in concorrenza con le espressioni vita beata, beate vivere, per indicare la felicità interiore del sapiens. Essa, come abbiamo visto, risiede nella virtù, ma non è il fine per cui si cerca la virtù: «Anche se la virtù procurerà piacere non è per questo che la si cerca. Infatti non procura piacere, ma anche piacere, e non si affatica per questo, ma la sua fatica, per quanto miri ad altro, ha come conseguenza anche questo» (De vita beata 9,1). Qual è allora il premio della virtù? Ipsa pretium sui, la virtù è premio a sé stessa, il suo valore è assoluto e si identifica nel bene dell’uomo: «Io cerco il bene dell’uomo, non del ventre, che del resto è più capiente negli animali», conclude polemicamente il filosofo (De vita beata 9,4).

La felicitas di chi è felix, come l’albero che porta frutto

Ecco allora che il termine felicitas per indicare la vita beata del sapiens sembra recuperare in pieno il valore etimologico di “fecondità, fertilità” per sottolineare la vis generativa della virtù. Secondo l’etica stoica non esiste felicità per il sapiente al di fuori della dimensione sociale dell’esistenza. Tra gli obiettivi che Seneca si pone nel De vita beata, confessando di essere ancora alla ricerca della sapientia, senza averla raggiunta (egli è un proficiens, uno che ha fatto progressi ma è ancora in cammino), si legge: «vivrò nella convinzione di essere nato per gli altri (aliis esse natum)», grato alla natura perché «ha fatto di me un dono per tutti gli uomini, e di tutti gli uomini un dono per me solo (unum me donavit omnibus, uni mihi omnes)» (20,3). Va nella stessa direzione, nella parte apologetica del dialogo, in cui Seneca si difende dall’accusa di incoerenza tra la dottrina professata e la propria condotta di vita (aliter loqueris… aliter vivis, gli si obietta in De vita beata 18,1), la giustificazione del possesso di ricchezze da parte del saggio: la questione non è il non possedere ricchezze ma il non esserne posseduti. Le ricchezze non sono un male in sé, ma devono essere impiegate per l’esercizio della virtù, e quindi per il bene della collettività, attraverso la pratica del beneficium, rifondata da Seneca a partire da un principio di uguaglianza tra gli uomini: «la natura mi impone di giovare agli uomini (hominibus prodesse natura me iubet). Che importa se sono schiavi o liberi, liberi di nascita o liberti, liberi secondo la legge o in base a un vincolo d’amicizia? Dovunque c’è un uomo c’è la possibilità di fare del bene» (De vita beata 24,3).

Homines in commune nati sumus

La formulazione più chiara di questa concezione solidale della società umana si legge nelle Epistulae ad Lucilium 95,52-53: «Tutto ciò che vedi, che include in sé ogni cosa umana e divina, è un tutt’uno: siamo membra di un immenso organismo. La natura ci ha creato fratelli (natura nos cognatos edidit), generandoci dagli stessi principi e per gli stessi fini (cum ex isdem et in eadem gigneret). Essa ci ha ispirato amore reciproco (amorem… mutuum) e ci ha reso socievoli (sociabiles fecit). Essa ha stabilito equità e giustizia, per sua disposizione fare il male è cosa peggiore che subirlo, e per suo comando, dunque, dobbiamo essere sempre pronti a prestare aiuto a chi ne ha bisogno… Siamo uomini, nati per vivere insieme (homines in commune nati sumus); la nostra società è simile ad una volta costruita di mattoni: cadrebbe se i mattoni non si sostenessero a vicenda, ed è proprio questo che la tiene insieme» (trad. M. Bellincioni).

Felici in noi stessi, felici per gli altri

L’essere umano è relazione. La felicità interiore realizzata dal saggio stoico non può prescindere dalla dimensione donativa, generativa iscritta nel valore etimologico del termine felicitas. È frutto di sapientia, di ricerca dell’anima che si ritira in sé stessa, staccandosi dai beni materiali, ma si identifica nella virtus, nell’esercizio del bene al servizio della comunità, ciò che realizza pienamente il senso della vita umana.

Puoi seguire una lezione di Ivano Dionigi sulla ricerca della felicità in Seneca e in Agostino, cliccando qui: https://www.youtube.com/watch?v=VcKfYVlryzs

Immagine di apertura: Allegoria della virtù e del vizio, Paolo Veronese, 1581, Museo del Prado (Crediti immagine: Wikimedia Commons)

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