“Sono lì nei loro alti palchetti, remoti e prossimi a un tempo, visibili e segreti come gli astri”.
Così il Custode dei libri di Borges parla dei libri, tesori accessibili e insieme segreti, misteriosi soprattutto per lui che non li sa leggere, ma ne immagina e ne sogna il contenuto come un decifratore di sapienza.
Nella sua etimologia, la parola “libro” non contiene un riferimento ai saperi di cui è memoria, ma semplicemente al materiale di cui è fatto. Il libro è liber, parte interna della corteccia dell’albero, più morbida e malleabile dell’esterna cortex.
Il libro è la pelle viva dell’albero, su cui la scrittura incide segni come una scorticatura. E gli antichi distinguono non solo la pelle dell’albero nella sua parte più ruvida e in quella più tenera, ma utilizzano termini diversi anche per le diverse forme di libro. Possiamo così distinguere il rotulus, il volumen e, in un secondo momento, il codex in base alla forma e al materiale utilizzato. I rotoli in papiro, in pergamena o carta furono la forma più diffusa di libro durante tutta l’età ellenistico-romana: il rotulus veniva srotolato dall’alto in basso, e il volumen ne rappresentava una variante orizzontale, poiché si srotolava con la mano destra mentre la sinistra reggeva l’umbilicus, cioè il perno di legno o avorio attorno al quale si avvolgeva il libro. Secondo Erodoto (Storie 5.58) furono i Fenici a introdurre per primi in Grecia il libro, in greco byblion, termine derivato, ancora una volta, dal materiale inizialmente utilizzato, cioè il papiro (byblion).
La nascita del libro testimonia il desiderio di conservare nel tempo una memoria pressoché imperitura, sia essa espressione di leggi, catalogo di beni o proprietà, raccolta di preghiere o di testi poetici e sapienziali. Seneca invita l’amico Lucilio a leggere pochi libri ma buoni (Ep. I 2), a rallentare la corsa forsennata non solo dentro la vita, ma anche dentro le letture, perché “chi è dappertutto non è da nessuna parte”. Il tema della scelta delle proprie letture e della necessità di riconoscere con consapevolezza la propria ispirazione deve essere stata una costante nel pensiero antico, se già Eraclito condannava la polymathia come sapienza puramente catalogica, come raccolta indiscriminata di nozioni che rendono l’animo più saccente, ma non certo più saggio. La lettura di buoni libri è, per gli antichi, una guida morale insostituibile e vale come la conversazione con un maestro eletto o con amici cari. Viceversa, ci ricorda ancora Seneca, i libri potrebbero intossicarci come un cibo indigesto: meglio selezionarne uno, tra i tanti che ci passano sotto gli occhi, e masticarlo con calma, in silenziosa meditazione, per assimilarlo pienamente.
Dobbiamo aspettare il IV e V secolo della nostra era per vedere comparire il primo vero libro, quello che i latini chiamano codex (letteralmente “blocco di legno”, “tronco di albero”). Il rotolo non scompare, ma viene impiegato prevalentemente in ambito archivistico, mentre il codex diventa prima depositario di testi sacri, soprattutto cristiani, poi di testi più specificamente letterari. Marziale ci offre per primo una testimonianza relativa all’esistenza di codices circolanti e utilizzati già al suo tempo:
Tu che desideri avere con te i miei libretti (libellos) ovunque tu vada e chiedi di averli come compagni del lungo viaggio, compra quelli che la pergamena racchiude in piccoli fogli: da’ pure i grossi libri agli scaffali, io sto in una mano. Perché tu sappia dove comprarmi, e per non farti vagare per tutta la città, ti guiderò e te lo farò sapere: chiedi di Secondo, il liberto del dotto Lucenzio, dietro il tempio della Pace, dietro il Foro di Minerva.
(Epigrammi I, 2)
Marziale fa certo riferimento a un codex, cioè a un’edizione delle sue opere raccolta su “piccoli fogli” (brevibus tabellis) di pergamena, il cui pregio principale era la comodità di trasporto durante un lungo viaggio. Il codex è infatti, rispetto ai precedenti rotoli, più maneggevole e facile da consultarsi; è inoltre in grado di contenere opere anche molto voluminose perché scritte recto e verso (Marziale cita, tra le altre, le ponderose Metamorfosi di Ovidio), e infine è più resistente grazie alla sua rilegatura e alla compattezza del legno che lo conteneva. E gli antichi ci parlano anche di venditori di libri, di scaffali in cui venivano raccolti, di testi che diventano best sellers, di biblioteche in cui, come ad Alessandria, l’enorme quantità di rotoli raccolti richiedeva un sistema di catalogazione accuratissimo, non troppo dissimile da quelli adottati nella moderna biblioteconomia.
Tuttavia, la novità forse più rivoluzionaria legata alla diffusione del codex fu l’invenzione della pagina: la pagina diventa unità di misura che scandisce, nella sua delimitazione, lo spazio e il tempo della lettura. Come scrive Giorgio Agamben (Il fuoco e il racconto, p. 105), allo spazio continuo del volumen si sostituisce ora “una serie discontinua di unità chiaramente delimitate – le pagine – in cui la colonna tenebrosa o purpurea della scrittura è incorniciata da ogni parte da un margine bianco”. Nasce la discontinuità all’interno del flusso ininterrotto della scrittura: quella frattura bianca è il bordo di silenzio tra le parole, la cesura muta che, soprattutto per l’uomo moderno, diventa condizione necessaria per ascoltare e nutrire il pensiero.
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