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Lettere classiche

La fortuna e il destino dell'uomo

Fortuna è in latino una vox media, indica tanto la buona quanto la cattiva sorte. Antica divinità italica, identificata dai Romani con la greca Tyche, è la fedele esecutrice del volere di Giove, detentore del destino degli uomini. Operatrice di incessanti capovolgimenti della sorte, rappresenta l'assenza di una logica apparente nella volontà divina. Con la Fortuna, paragonata da Seneca a una «padrona capricciosa e volubile», si misura il saggio, nella ricerca della propria indipendenza e felicità
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La Fortuna e Servio Tullio

La Fortuna è una dea, e a introdurre il suo culto a Roma pare sia stato Servio Tullio, il sesto re, che portava nel prenome (spiegato per paraetimologia dal verbo servio) la traccia della sua origine servile. La schiava Ocrisia lo avrebbe generato da una fiamma e una fiamma arse sulla testa al bambino addormentato, segno del favore divino: riconosciuto il prodigio, la regina Tanaquilla educò il piccolo nato dalla schiava come un figlio e favorì la sua ascesa al trono dopo la morte del marito, Tarquinio Prisco (Livio 1, 39, 1 ss.). Uno schiavo assurto alla dignità di re: il massimo della sorte propizia. In effetti, tra la dea e il mortale si narra di un legame durato tutta la vita. Ogni notte la Fortuna scendeva sulla terra e, passando da una finestra, si intratteneva a colloquio con il re per consigliarlo o, come maliziosamente raccontano i Fasti di Ovidio (6, 573-578), per amarlo: arsit enim magna correpta cupidine regis / caecaque in hoc uno non fuit illa viro, «bruciava infatti di ardente passione per il re e cieca non era verso quel mortale soltanto». Perché, si sa, la fortuna è cieca e distribuisce i suoi favori a caso. Bendata o meno, l'iconografia tradizionale ce la presenta munita di cornucopia, in quanto dispensatrice di beni, e di timone, poiché dirige la rotta della vita umana, come in questa pittura pompeiana: Iside-Fortuna e Arpocrate  

Da Fortuna primigenia a Fortuna-Tyche

Antica divinità italica, a Praeneste la Fortuna era adorata come divinità primigenia e, secondo Cicerone (De divinatione 2, 85), rappresentata nell'atto di allattare Giove e Giunone neonati: un'intima connessione con il Padre degli dei, detentore degli umani destini, che ben si accorda con l'identificazione della divinità italica nella greca Tyche, il Caso, la Sorte. La Fortuna dei Romani, infatti, non è affatto, come farebbe pensare la felice vicenda di Servio, una dea della fortuna, della buona sorte. Piuttosto, si configura come una specie di agente esecutrice del volere di Giove, che spesso risulta impenetrabile alla ragione umana: bene e male, gioie e dolori si alternano nella vita dei mortali senza nessuna logica apparente, in modo imprevedibile e irrazionale. La Fortuna incarna dunque l'aspetto irrazionale del Caso, l'(apparente) assenza di logica nei destini sanciti da Giove.  

La Fortuna rapax, esecutrice della volontà di Giove

Una raffigurazione della Fortuna, che emerge chiaramente nell'ode 1, 34 di Orazio. Un fulmine a ciel sereno induce il poeta a ricredersi circa la validità della dottrina epicurea sugli dei, indifferenti, nella perfetta atarassia della loro beatitudine celeste, alle vicende degli uomini. Se il fulmine di norma si determina quando il cielo è denso di nubi (come spiega Lucrezio, De rerum natura 4, 400 ss.), il fenomeno atmosferico straordinario, rimasto privo di causa, dimostra al contrario l'intervento di Giove, autore del fulmine così come di ogni altro repentino mutamento della condizione umana: «il dio ha il potere di mutare gli abissi in vette, e rende umile l'uomo glorioso, portando alla luce ciò che è nell'oscurità: la Fortuna rapace con acuto stridore di ali porta via la tiara dalla testa di uno e si compiace di porla sulla testa di un altro (hinc apicem rapax / Fortuna cum stridore acuto / sustulit, hic posuisse gaudet, 1, 34, 13-16). Il destino dell'uomo è nelle mani di Giove e la Fortuna si fa esecutrice materiale della sua volontà, operando i repentini mutamenti della sorte: due elementi, rapax e stridore acuto, esprimono efficacemente la rapidità imprevedibile della sua azione, mentre gaudet vi getta l'ombra del sadismo beffardo.  

La necessità della Fortuna

Così anche nell'ode alla Fortuna di Anzio (1, 35), Orazio sottolinea il ruolo della dea nel determinare i mutamenti della sorte nelle due opposte direzioni, di ascesa dal basso all'alto, e di caduta dall'alto al basso: «O dea, … che ti manifesti sia nel sollevare dal gradino più basso un mortale (mortale corpus, espressione indicante propriamente uno schiavo) sia nel trasformare in funerali i superbi trionfi» (vv. 1-4); versi che con tutta probabilità adombrano i contrapposti destini di Servio Tullio e di Lucio Emilio Paolo, il vincitore di Pidna, il cui trionfo fu funestato dalla morte degli ultimi due suoi figli; esempi, quelli di Servio e di Emilio Paolo, entrambi paradigmatici dei mutamenti della sorte, e ben noti al pubblico romano: Livio 45, 40, 6). In quest'ode, ad accompagnare la Fortuna nel suo manifestarsi troviamo la saeva Necessitas con il suo corredo di chiodi da trave, cunei, rigidi uncini e piombo, elementi che indicano la necessità inesorabile dell'agire divino (vv. 17-20). E all'uomo, stretto dalla crudele necessità della Fortuna, quale libertà resta?  

La saggezza, baluardo contro il crudele gioco della Fortuna

Nell'ode 3, 29 Orazio invita a pranzo Mecenate esortandolo a concedersi una piacevole distrazione dagli impegni di governo: è vano, infatti, affannarsi per il futuro, poiché il dio, nella sua provvidenza, ci tiene nascosto quale sarà il nostro domani, e ride se ci vede troppo ansiosi. All'uomo è dato solo il possesso del presente, l'attimo pienamente vissuto: «Ricordati di ordinare con animo sereno ciò che è presente (quod adest memento / componere aequus), il resto è portato via alla maniera di un fiume… Vive padrone di sé e contento chi può dire ogni giorno: Ho vissuto (Ille potens sui / laetusque deget, cui licet in diem / dixisse: Vixi): domani il Padre Giove occupi pure il cielo con una cupa nube o con limpido sole; tuttavia non renderà vano tutto ciò che è passato…». Nel gioco crudele della Fortuna che rovescia incessantemente i destini umani, l'uomo può solo appellarsi a ciò che il domani non potrà strappargli, a ciò che sta dentro di sé e resta un suo saldo possesso per sempre: «La fortuna, lieta della sua crudele attività (Fortuna saevo laeta negotio) e ostinata a giocare il suo gioco bizzarro (ludum insolentem ludere pertinax), trasferisce dall'uno all'altro instabili onori, propizia ora con me ora con un altro. La lodo se resta: se batte le rapide ali (volando via), restituisco i beni che mi ha dato (resigno quae dedit) e mi avvolgo nella virtù che è un mio saldo possesso (et mea / virtute me involvo)…». Ecco la ricetta per la felicità: l'indipendenza del saggio che basta a se stesso, forte della propria saggezza interiore e pronto a restituire tutto ciò che la fortuna gli concede di godere, ma non lascia in suo possesso per sempre.  

La fortuna e l'humana mortalitatis condicio

Il tema della fortuna si intreccia così con la riflessione sulla ricerca della felicità individuale e sull'autosufficienza del saggio, temi comuni alla filosofia ellenistica, che a Roma si diffondono a partire dalla crisi della repubblica, quando il cittadino romano cessa di identificarsi esclusivamente nel proprio ruolo sociale e scopre la dimensione individuale e privata. La precarietà della condizione umana, esposta ai colpi della Fortuna, rende urgente l'adozione di strategie di difesa, che liberino l'uomo dal dolore, come la praemeditatio futurorum malorum (Cic. Tusc. 3, 29): occorre riflettere continuamente sui mali che ci possono colpire perché se essi non giungono improvvisi la loro ferita risulta più lieve (Dante ha imparato la lezione, quando esorta Cacciaguida a rivelargli il proprio destino che saetta previsa vien più lenta, Inferno 17, 27). Invece, come osserva Seneca nella Cons. ad Marciam 9, l'uomo vive in un'ostinata presunzione d'immunità, non pensa mai al male prima che gli capiti, sed ut immunes ipsi et aliis pacatius ingressi iter alienis non admonemur casibus illos esse communes, «ma come se ne fossimo esenti e il nostro cammino fosse più tranquillo degli altri, le altrui disgrazie non ci ricordano che sono comuni a tutti» (9,1; trad. A. Traina). Il gioco impertinente della Fortuna è legge universale che governa il mondo, è la regola dell'humana mortalitatis condicio a cui ogni uomo deve conformarsi.  

La fortuna e il saggio: il duello per l'indipendenza

Nel linguaggio della predicazione senecano, l'urgenza di comunicare questo principio si esprime nella retorica della Fortuna come antagonista del saggio in un incessante duello per l'autonomia: «Ti rendi conto che sei esposto a ogni colpo e che hanno sfiorato te i dardi che han trafitto gli altri (Vis tu scire te ad omnis expositum ictus stare et illa quae alios tela fixerunt circa te vibrasse?)? Come se andassi indifeso all'assalto di un muro o di una postazione ben presidiata dal nemico… aspettati di essere ferito e i proiettili che volano sopra di te… guardali come diretti al tuo corpo. Ogni volta che uno cadrà al tuo fianco o alle tue spalle, grida: “Non mi farò ingannare, fortuna (Non me decipies, fortuna), non mi farò sorprendere con la guardia abbassata. So cosa macchini: hai colpito un altro ma nel mirino ero io”» (Cons. ad Marciam, 9, 3). E da questa lotta il sapiens uscirà vincitore.   Crediti immagini Apertura: Statua bronzea di Fortuna utilizzata per il culto in una casa privata a Pompei (Wikimedia Commons) Box: La dea Fortuna, affresco su un'ara di epoca romana (Wikimedia Commons)
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