La Germania e le bugie del potere
Quando Tacito scrive la sua monografia sui Germani, nel 98 d.C., Traiano è stato appena acclamato imperatore a Colonia, dove si trova come governatore della Germania superior, e dalle terre del basso Reno, e non rientrerà a Roma fino all’estate dell’anno seguente. Il tema dell’opuscolo tacitiano è quindi di grande attualità, rispondendo all’interesse del pubblico romano verso il Nord del mondo, riacceso dalle campagne di Domiziano dell’83 (contro i Catti) e dell’89 d.C. (contro i Marcomanni e i Quadi). La propaganda imperiale ha presentato i successi di Domiziano come la soluzione definitiva della questione germanica, con la creazione di due nuove province (oltre alla Germania superior, corrispondente alla Gallia lugdunense, che tiene ora occupato il nuovo imperatore, la Germania inferior, sul territorio della Gallia belgica). In realtà, si tratta di risultati parziali, incapaci di cancellare la profonda ferita impressa nella memoria collettiva dal disastro di Teutoburgo del 9 d.C.: tre legioni romane attirate con l’inganno nella foresta e massacrate dai Germani di Arminio; il loro generale, Quintilio Varo, suicida per il disonore. Uno shock che gela l’entusiasmo espansionistico dei Romani e arresta per sempre la spinta a Nordest, proprio quando l’acquisizione definitiva del territorio oltre il Reno, fino al fiume Elba, sembrava ormai cosa fatta.
Ora Tacito, descrivendo la natura della regione e della popolazione che la abita, mostra che, nonostante i proclami del regime (come le monete che riportano il motto Germania capta o Devictis Germanis), quel territorio è ben lungi dall’essere domato.
La monografia etnografica e il suo pubblico
Eppure, nemmeno la narrazione etnografica di Tacito è oggettiva. Avrebbe potuto esserlo, fondandosi sull’osservazione diretta, sui racconti dei mercanti che in quell’epoca intrattenevano già fitti scambi commerciali con i popoli del Nord, sui resoconti dei soldati impegnati nelle campagne militari al di là del Reno, sulla testimonianza dei Germani che vivevano all’interno dell’impero, nella stessa Roma (non solo militari dell’esercito o della guardia personale dell’imperatore, ma anche ambasciatori o membri dell’aristocrazia germanica che avevano ottenuto la cittadinanza). Invece, Tacito sceglie di costruire il suo testo diversamente, e non solo perché per un Romano antico scrivere una monografia etnografica significa prima di tutto riconoscersi in una tradizione letteraria, operare all’interno di un genere che ha un proprio codice retorico-stilistico, un repertorio di temi e motivi collaudati. Descrivendo le popolazioni che vivono al di là del Reno, oltre quel confine geo-politico che segnerà il limite settentrionale dell’espansione romana per altri quattrocento anni, Tacito offre ai suoi concittadini una rappresentazione di sé stessi e del potere che li governa. Parlando dei “lontani”, degli stranieri che vivono fuori dall’impero, Tacito parla in realtà dei “vicini”, rivolge un discorso molto serio ai Romani del suo tempo.
I barbari e la romanizzazione
Tacito si inserisce nella tradizione etnografica e più in generale storiografica antica, risalente almeno ad Erodoto (V secolo a.C.), lo storico ionico che per primo inserì nelle sue Storie ampie digressioni di carattere geo-etnografico. Furono i Greci a introdurre la categoria di “barbaro” per indicare lo straniero che parlava una lingua non greca. E attraverso il confronto con l’altro, con lo straniero, i Greci definirono la propria identità nazionale.
Anche per i Romani dell’età di Tacito i popoli fuori dall’impero sono tutti barbari, non solo perché stranieri, ma anche perché non ancora civilizzati, cioè romanizzati. La propaganda imperiale, infatti, nobilita la politica espansionistica di Roma rappresentandola come una missione civilizzatrice. Dopo la conquista militare, l’annessione di un nuovo territorio alla compagine imperiale prevede un processo di assimilazione che investe i vari aspetti della vita materiale, civile, e culturale dei popoli vinti. Per legare a sé lo straniero, lo strumento più efficace è eliminare le differenze, rendere il diverso simile a sé. Del resto, nella mentalità romana l’impero coincide con Roma, estendere i confini dell’impero significa far diventare come Roma ogni sua parte. Non solo. Più ci si allontana dal confine, più si ritiene che cresca il grado di “barbarie” dei popoli.
I Germani: simili ai Romani dell’età repubblicana ma diversi dai Romani dell’età imperiale
Per descrivere i Germani Tacito attinge al repertorio dei motivi etnografici che la tradizione ha elaborato per i popoli del Nord (Sciti, Sarmati, Traci, Celti), ma seleziona solo i tratti che compongono l’immagine di un popolo ancora fermo a uno stadio arretrato del processo di civilizzazione, scartando consapevolmente dati più aggiornati o più vicini alla realtà storica, semplicemente perché non rispondono ai suoi fini. Il ritratto dei Germani, infatti, è costruito in relazione al pubblico dei lettori romani, chiamati a confrontarsi con lo straniero, il nemico invitto e forse invincibile. Assumendo un punto di vista altro da sé, straniato, il lettore è invitato a mettere a fuoco la propria storia e a riflettere sulla propria decadenza. Perché Tacito e il suo pubblico sanno bene che Roma ha ormai raggiunto il massimo grado di sviluppo e si sta avviando (secondo la concezione antica, ciclica e biologica, della storia) verso la fine del proprio ciclo vitale. Ed ecco che la primitività dei Germani si carica di tratti positivi, rappresenta lo stato di natura a cui si collegano innocenza, integrità morale e forza fisica. Ma nemmeno questo sistema di valori positivi è composto in maniera neutrale: Tacito attribuisce ai barbari Germani le virtù che furono tipiche della Roma arcaica, repubblicana. Guardando alla fides, alla libertas, alla simplicitas, che caratterizzano il nemico presente, il lettore romano prima riconosce sé stesso com’era all’inizio della propria storia, poi scopre la distanza che lo separa da quel sistema di valori, gli stessi che hanno reso grande Roma.
La falsificazione della verità e l’invenzione della Germania
Nella narrazione tacitiana il dato etnografico non è in rapporto diretto con la realtà storica del popolo descritto, ma con la memoria idealizzata del passato repubblicano e con la realtà presente di Roma imperiale. La verità ultima che il testo comunica è la decadenza della società romana imperiale, anch’essa però rappresentata secondo l’ottica parziale dell’aristocrazia senatoria a cui appartiene l’autore. All’interno di questa operazione letteraria, l’informazione etnografica non può che rivelarsi spesso falsa e tendenziosa. E così è fin dalla definizione dei confini di quella Germania omnis descritta come entità territoriale unitaria nel capitolo primo. La tradizione etnografica antica era concorde nel classificare Galli e Germani all’interno dell’unico gruppo celtico. È un’invenzione di Cesare l’idea che i Germani fossero una popolazione distinta dai Galli: essa mirava a presentare la provincia conquistata nelle campagne del 58-50 a.C. come un territorio autonomo e non come una conquista parziale. Inoltre, separare i Germani dai Galli significava spostare l’idea di barbarie al di là del Reno, favorendo l’assimilazione culturale dei vinti, e, al tempo stesso, creando un nuovo nemico da combattere per difendere il territorio romano.
Isolare e identificare il nemico
Ora Tacito si appropria della versione propagandistica di Cesare e isola i Germani ponendoli entro confini ben definiti per caratterizzarli come popolo unitario. Ma si tratta di una evidente falsificazione: non c’è alcun motivo per considerare germaniche tutte le popolazioni disseminate su un territorio vastissimo, esteso tra il Reno, il Danubio, i Carpazi, la Vistola e l’Oceano. Né abbiamo alcuna testimonianza che i popoli chiamati da Tacito Germani ritenessero di avere un’origine comune o si sentissero parte di un’entità politica unitaria. La stessa valle del Reno era caratterizzata da una civiltà mista di frontiera, come dimostrano le testimonianze archeologiche e come lo stesso Tacito implicitamente riconosce, in un contesto diverso, registrando i movimenti dei popoli tra le due rive (cap. 28). Tacito altera deliberatamente la realtà, semplifica la varietà etnica dell’area geografica considerata, per identificare il nemico, lo straniero che minaccia la stabilità di Roma per il fatto stesso di non appartenere all’impero.
Etnografia e assimilazione culturale
Tutta la prima parte della Germania è dedicata alla descrizione dei caratteri generali del territorio e della popolazione, dei suoi usi e costumi. Come accade nell’etnografia antica, l’analisi del popolo straniero spesso è viziata dalla sovrapposizione culturale dell’osservatore, la cosiddetta interpretatio romana (l’esempio classico è l’assimilazione delle divinità straniere al pantheon greco-romano: così al cap. 9 si dice che il culto più diffuso è quello di Mercurio). Questo meccanismo può produrre alterazioni più o meno “innocenti” della realtà. I capi delle popolazioni sono chiamati rex, duces, principes, termini che inevitabilmente si portano dietro qualcosa della cultura da cui provengono. Più interessante è l’esempio del cap. 13, in cui si parla delle armi attribuendo a esse un importante ruolo sociale, poiché è la comunità che giudica chi è pronto a portarle (arma sumere): «nella stessa assemblea uno dei capi oppure il padre o i parenti consegnano al giovane lo scudo e la framea (un tipo di lancia): questa è la loro toga, questo è il primo onore della giovinezza; è come se prima di allora fossero stati parte della famiglia e in quell’occasione diventassero parte dello Stato (haec apud illos toga, hic primus iuventae honos; ante hoc domus pars videntur, mox rei publicae, con una vistosa anafora in poliptoto che sottolinea tutta la solennità del confronto)» (trad. D. Baldi). Qui l’assimilazione culturale è voluta e orientata (a partire dall’espressione arma sumere, modellata su togam virilem sumere) a marcare la distanza tra il carattere guerriero del popolo nemico e la civiltà del diritto romana, un confronto che suona familiare al lettore in virtù della nota antitesi tra arma e toga, metonimie per «guerra» e «pace», come nel celebre detto Cedant arma togae (Cicerone, De officiis 1, 37): il rovesciamento di questa opposizione nel modello germanico mette in rilievo la minaccia che incombe su Roma.
Vizi e virtù romane nel sistema etico dei Germani
Ma soprattutto, in riferimento a Roma sono descritti gli usi e i costumi dei Germani, che esibiscono i tratti tipici della Roma repubblicana. Ciò si realizza in positivo, per esempio assimilando le donne dei Germani alle matrone pudicae e univirae dell’età arcaica; o per litote, indicando la virtù attraverso la negazione del vizio opposto, riconoscibile anch’esso come tipico di Roma, ma della Roma imperiale: così ancora nella definizione della castità muliebre, indicata dall’assenza di spettacoli e banchetti licenziosi (nullis spectacolorum illecebris, nullis conviviorum irritationibus corruptae), che sono luoghi emblematici della degenerazione dei costumi nella Roma imperiale. Il confronto può farsi anche scoperto, come quando Tacito osserva che i Germani non utilizzano gli schiavi in nostrum morem, come servitù domestica, divisa in gruppi con mansioni differenziate, né conferiscono potere ai liberti: «I liberti stanno poco sopra gli schiavi e di rado hanno qualche peso nelle questioni domestiche; mai però in quelle pubbliche, tranne che fra i popoli governati da re. Là arrivano più in alto degli uomini liberi e dei nobili, mentre fra gli altri Germani la loro inferiorità è il contrassegno della libertà (libertatis argumentum)» (trad. D. Baldi). La rappresentazione del ruolo dei liberti è modellata sul sistema romano per marcare una radicale differenza: se l’inferiorità dei liberti dimostra la libertà di un popolo, è evidente che alla libertas dei Germani si contrappone la servitus dei Romani, poiché appunto nella Roma imperiale i liberti esercitano il loro potere nelle questioni pubbliche limitando le prerogative dell’aristocrazia senatoria.
Il pericolo delle fake news
Molto più che una descrizione etnografica, il testo di Tacito ci offre dunque una riflessione filosofico-moralistica sulla realtà storica di Roma imperiale, con tutte le inevitabili forzature e falsificazioni della verità oggettiva che ciò comporta. Pretendere di leggervi le origini del popolo tedesco, come nella Germania moderna fece prima il Romanticismo e più tardi il nazismo, è un’operazione arbitraria e faziosa, nonché priva di qualsiasi fondamento storico e scientifico. La stessa affermazione che i Germani antichi fossero “tutti alti, biondi e con gli occhi azzurri”, su cui si volle fondare l’aberrante teoria eugenetica della cosiddetta razza ariana, è un’evidente falsità, che nasce dall’applicazione al tipo germanico identificato da Tacito – risultato, come abbiamo visto, di una costruzione letteraria – di motivi ricorrenti nella descrizione della gente del Nord, motivi che, come la popolazione umana, migrano da un luogo all’altro, perdendo qualsiasi riferimento oggettivo a una specifica realtà storica. Eduard Norden, il grande filologo tedesco, li chiamava Wandermotiven, «motivi erranti», ma il suo studio sulla Germania (Die germanische Urgeschichte in Tacitus «Germania»), pubblicato nel 1920, gli costò l’esilio volontario.
La Germania di Tacito si può leggere nella recente traduzione di Giuseppe Dino Baldi, con ricca introduzione e commento, edita da Quodlibet, Macerata 2019, da cui questo articolo ha tratto profitto (in appendice si trova un’utile antologia di scrittori greci e latini sulle terre del Nord prima di Tacito).
Puoi ascoltare un’introduzione di Maurizio Bettini allo stile di Tacito cliccando qui