
Joseph Wright of Derby (1734 - 1797), "Penelope Unraveling Her Web", 1783 - 1784, Olio su tela
106 × 131.4 cm, The J. Paul Getty Museum, Los Angeles
Ovidio: il ‘tempo’ dell’attesa
La raccolta delle Lettere di eroine di Ovidio, una serie di epistole che si immaginano scritte da donne del mito agli uomini amati e lontani, è aperta proprio da Penelope, che scrive al marito per esortarlo a tornare. Rispetto al testo omerico, modello imprescindibile della sua riscrittura, Ovidio elimina l’apparato mitico, sostituito dalla psicologia della protagonista, e inserisce alcune variazioni ‘mirate’ che le attribuiscono un ruolo attivo: ad esempio, sarebbe stata Penelope a inviare Telemaco alla ricerca del padre (mentre nel primo libro dell’Odissea il ragazzo parte di nascosto). Ma la principale innovazione è la sensazione del trascorrere del tempo, che cambia le persone fisicamente e interiormente. Diversamente dalla Penelope omerica, che grazie ad Atena rimane bellissima e innamorata del marito, il personaggio ovidiano muta e invecchia. Questo processo è ‘mimato’ da precise scelte lessicali e tematiche nel corso testo. Mentre nella prima metà dell’epistola la protagonista si presenta come una ragazza innamorata, utilizza per tre volte il termine amor, definisce puellae le mogli degli altri guerrieri greci, nella seconda parte non è più interessata all’aspetto sentimentale ma a quello economico della realtà: diviene una coniunx che gestisce gli interessi del marito, mentre i termini-chiave sono ora res, damna, opes. Il sentimento del tempo è sintetizzato nella conclusione dell’epistola, i cui due ultimi versi si chiudono rispettivamente con i termini puella e anus: Certe ego, quae fueram te discedente puella, / protinus ut venias facta videbor anus (= ed io certo che quando partisti ero una fanciulla, se anche tu dovessi tornare immediatamente ti sembrerò diventata una vecchia, tr. G. Rosati).Il secondo Novecento e oltre: il tema del riconoscimento
La letteratura contemporanea pone l’accento su un momento ben preciso della vicenda mitica: quello del ritorno di Ulisse nelle sembianze di un vecchio mendicante e del suo incontro con la moglie. Secondo l’Odissea, Ulisse preferisce non rivelare la propria identità a Penelope per metterne alla prova la fedeltà, e quando finalmente lei lo riconosce l’armonia fra i due si ristabilisce all’istante. Nei testi contemporanei invece, il ritorno dello sposo è qualcosa che Penelope desidera ma che insieme trova difficoltà a gestire nel momento in cui si realizza: trascorsi vent’anni, la donna, pur riconoscendo immediatamente Ulisse sotto il travestimento, avverte di trovarsi davanti non all’uomo che ha sognato e desiderato ma a un estraneo.
Pinturicchio, "Il ritorno di Ulisse", affresco, 124 x 146 cm, National Gallery, London (Wikipedia)
Nella poesia La disperazione di Penelope (1968), composta mentre era in carcere per motivi politici, Ghiannis Ritsos coglie l’istante preciso del riconoscimento e della contemporanea delusione. “Per lui, dunque, aveva speso vent'anni, vent'anni di attesa e di sogni, per questo miserabile lordo di sangue e dalla barba bianca?” (tr. N. Crocetti). L’attesa era stata piena di speranza: sul telaio prendeva forma un disegno dai colori vivaci, che “in quella notte del ritorno, diventarono grigi e neri”. Il telaio, simbolo dell’inganno ai proci ma più ancora dell’autoinganno di Penelope, diviene una grata che la imprigiona in colori cupi: “nell'angolo il suo telaio proiettava ombre di sbarre sul soffitto”. Il ritorno e il riconoscimento riconducono improvvisamente i sogni della protagonista alla realtà quotidiana e ai suoi limiti invalicabili.
Meno cupa è la rielaborazione del motivo ne Il canto di Penelope di Margareth Atwood (2005): quando vede il marito travestito da mendicante anche la Penelope di Atwood finge di credere alla finzione, per evitare di commuoversi svelando così ai proci il travestimento. Ulisse non le si rivela per evitare che lei pianga in un momento inopportuno, precisa Penelope nel ruolo di narratrice, e non è dunque vero che intendeva testare in questo modo la sua fedeltà “come alcuni hanno detto”: Penelope rifiuta dunque espressamente la versione omerica. Il romanzo dell’autrice canadese, una specie di ‘autobiografia’ della regina di Itaca, presenta in effetti molti tratti divaganti rispetto a Omero e in particolare accoglie la tradizione dotta, della mitografia e della poesia ellenistica, di una Penelope infedele. Al ritorno di Ulisse, perciò, entrambi hanno qualcosa da farsi perdonare e su cui è preferibile mentire: lui le racconta di avere sempre sentito la sua mancanza, anche mentre abbracciava una dea, e lei risponde che gli è sempre stata fedele, per tutti e venti gli anni. “Entrambi eravamo, per nostra stessa ammissione, mentitori esperti, fluenti e senza vergogna. È un miracolo se abbiamo prestato fede l’uno alle parole dell’altro. Ma lo abbiamo fatto, o almeno così ci siamo raccontati”. Sulla base dell’inganno e della menzogna reciproci, i due portano avanti felicemente il loro matrimonio.
Luigi Malerba (1987): la lotta dei nervi
Il romanzo Itaca per sempre è tutto incentrato sul motivo del riconoscimento di Ulisse da parte della moglie. Rimasta fedele trasformando il proprio letto in “una fortezza inespugnabile”, la Penelope di Malerba considera un grave affronto il fatto che Ulisse (che lei riconosce immediatamente) le tenga celata la propria identità. Anziché fare una scenata, la donna sceglie di accettare la sfida delle finzioni e lascia credere al marito che il travestimento funzioni. Parlando con il ‘mendicante’ ne stuzzica la gelosia, mostrandosi affascinante e curata e abbastanza distaccata rispetto alla sorte di Ulisse. “Dov’è la Penelope disperata che si è consumata nel pianto in notti insonni?” si chiede lui, alla vana ricerca dell’eroina omerica, e sconcertato dalla raggiunta maturità di una Penelope, “sicura di sé e impegnata nel governo dell’isola… ho lasciato una giovane sposa… e ho ritrovato una donna severa, piena di misteri” (è il passaggio da puella a coniunx incarnato dall’eroina ovidiana). Penelope prosegue nel gioco anche quando il marito vorrebbe ormai essere riconosciuto: ma il ‘suo’ Ulisse, osserva lei, non la avrebbe mai messa alla prova in questo modo offensivo. L’eroe sembrerebbe dunque condannato a rimanere prigioniero della sua stessa finzione. La conclusione va verso un riavvicinamento dei due, che vent’anni di separazione avevano reso estranei (“né io né Penelope eravamo più gli stessi”), desiderosi di riappacificarsi ma solo per sfinimento: dopo aver preso finalmente la decisione di scendere ad abbracciare Ulisse riconoscendolo come suo marito, Penelope aggiunge “ora sono molto stanca e desidero soltanto un po’ di pace”.



