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Lettere classiche

Predire il futuro. Tra opportunismo politico e ricerca della saggezza

Nel mondo romano le pratiche divinatorie erano parte integrante della religione, con almeno tre organismi statali dedicati: àuguri, arùspici e quindecemviri sacris faciundis. Michela Mariotti esamina le tecniche di predizione del futuro romane ma anche i movimenti contrari alla divinazione nel mondo antico.

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Leucònoe e l’astrologia

Nella famosa ode del Carpe diem, Orazio invita l’innamorata a non consultare l’oroscopo per sapere che cosa abbia in serbo per loro il futuro: «Tu non chiedere, non è lecito saperlo, quale destino gli dèi abbiano fissato per me, quale per te, non interrogare i calcoli babilonesi (così chiamati perché l’astrologia era di origine caldea)» (carm. 1,11,1-3). La ragazza ha un nome parlante, Leuconoe (dal greco λευκός [leukòs], «bianco», e νοῦς [nus], «mente»), che la caratterizza per la sua candida ingenuità. Ma nella Roma antica predire il futuro era un affare molto più serio che soddisfare la curiosità di una giovane innamorata.
Le pratiche divinatorie erano parte integrante della religione romana, con almeno tre organismi statali dedicati: àuguri, arùspici e quindecemviri sacris faciundis.

Il collegio degli àuguri

Gli auguri erano riuniti in un collegio antichissimo, che si riteneva istuituito da Romolo, augure egli stesso (l’Urbe nasce infatti dalla contesa augurale tra i due fratelli, narrata già da Ennio in Ann. 72 Sk.): dai tre membri originari il collegio passò a nove con la lex Ogulnia che sancì la partecipazione dei plebei alla carica, e fu esteso fino a sedici membri nell’età di Cesare. Gli auguri avevano il compito di interpretare i segni ricavati dall’auspicium, l’atto religioso che consisteva, come dice il nome (dal tema au- di avis, «uccello», e dal verbo arcaico specio, «osservo»), nell’osservazione del volo degli uccelli a scopo divinatorio, ma il diritto di ordinare l’auspicium era riservato ai consoli (dopo Silla esteso anche ad altri magistrati) e veniva di norma esercitato prima di ogni atto politico importante come elezioni popolari, imprese militari, fondazioni di città. Sebbene sottoposti al controllo dei magistrati, gli auguri avevano la facoltà di sospendere i comizi o di dichiararne nulle le decisioni in base a presunti auspici sfavorevoli, con evidente violazione della volontà popolare.

Arùspici e interpreti dei Libri Sibillini 

I Romani derivarono l’aruspicina, l’osservazione delle viscere (exta, in particolare il fegato) degli animali sacrificati, dagli Etruschi, esperti in questa pratica divinatoria, ed etruschi erano ancora nella tarda Repubblica i sessanta membri dell’ordo haruspicum. Essi ricevevano dal Senato l’ordine di consultare i libri haruspicini, in cui era depositata la loro conoscenza, e al Senato dovevano riferire circa il rito di espiazione (procuratio) da decretare in caso di esito non favorevole.
Al Senato rispondevano anche i quindecemviri sacris faciundis, un collegio composto da quindici membri a partire dal 51 a.C., ma in origine formato solo da due esponenti della nobilitas, scelti da Tarquinio (è incerto se Prisco o Superbo) per la custodia e la consultazione dei tre libri che egli avrebbe ricevuto dalla Sibilla Cumana, i cosiddetti Libri Sibillini, contenenti non oracoli, ma prescrizioni sul modo di placare l’ira degli dèi; la designazione sacris faciundis (costrutto del dativo di fine con il gerundivo, «per la celebrazione dei culti sacri») corrisponde alle ulteriori mansioni assunte dal collegio, incaricato di presiedere al culto di Apollo e di altre divinità greche associate al pantheon romano.

La funzione politica della divinazione, secondo l’augure Cicerone

La religione romana cura il rapporto della comunità politica, dalla famiglia allo Stato, con la divinità, accompagnando ogni atto pubblico di una certa importanza con un rito religioso. La rigida, scrupolosa osservanza del culto mira ad assicurare e mantenere il favore degli dèi, legati alla città da un patto di alleanza, la pax deorum. La divinazione è parte di questo sistema legalistico, un formidabile strumento di potere impiegato dall’aristocrazia senatoria per conservare l’assetto sociale e politico di Roma. Del resto, le stesse cariche sacerdotali erano esercitate da laici e potevano rientrare nel cursus honorum al pari della questura o dell’edilità.
Nel De divinatione Cicerone, accusato di incoerenza dal fratello Quinto per aver polemizzato contro gli auspici, proprio lui che è augure dal 53 a.C., risponde lamentando la decadenza di una disciplina che forse Romolo credeva veridica, ma che ora è ridotta a puro formalismo, privo di alcun contenuto di verità: «credo che Romolo, il quale fondò la città prendendo gli auspicii, abbia creduto che esistesse una scienza augurale capace di prevedere il futuro (su molte cose gli antichi erravano)». La scienza augurale è mutata per l’impreparazione dottrinaria degli auguri o per l’avvento di nuove dottrine o semplicemente perché è diventata vecchia; tuttavia Cicerone sottolinea la necessità di conservare l’apparato istituzionale per l’efficacia della sua funzione politica: «si conservano però – per non urtare le credenze popolari (ad opinionem vulgi) e per il grande vantaggio che ne deriva allo Stato (ad magnas utilitates rei publicae) – le pratiche, l’osservanza dei riti, le regole, il diritto augurale e l’autorità del collegio» (div. 2,70; trad. S. Timpanaro).

L’argomento fallace degli Stoici

Nel De divinatione Cicerone procede alla sistematica demolizione della divinazione in tutte le sue forme, confutando punto per punto la difesa sostenuta da Quinto sulla base della teoria stoica. Gli Stoici fanno (pericolosamente) dipendere l’esistenza della divinazione dall’esistenza degli dèi: se è vero che il mondo è ordinato da un dio provvidente, amante dell’uomo, è vero anche che il dio manifesta all’uomo gli eventi futuri. Cicerone dimostra che l’argomentazione stoica è falsa perché basata su una premessa non universalmente condivisa. Infatti, nella sua forma breve:

•      se gli dèi esistono, esiste la divinazione; ma gli dèi esistono, quindi esiste la divinazione (= se p, q; ma p, quindi q)

è facilmente rovesciabile sia dagli epicurei, che non credono che gli dèi si interessino alla vita degli esseri umani, sia dagli accademici, che offrono una spigazione razionale, naturalistica, per i fenomeni interpretati come segni profetici, con il risultato in entrambi i casi di negare l’esistenza degli dèi:

•      epicurei: se gli dèi esistono, esiste la divinazione; ma gli dèi non esistono, quindi non esiste la divinazione (se p, q; ma non p, quindi non q);

•      accademici: se gli dèi esistono, esiste la divinazione; ma la divinazione non esiste, quindi non esistono gli dèi (se p, q; ma non q, quindi non p).

Abbattere la superstizione, Cicerone come Lucrezio

Ma Cicerone non vuole certo abbattere la religione. Come abbiamo visto, vuole conservare anche le istituzioni tradizionali relative alla divinazione (in cui non crede) per il loro valore di instrumentum regni. Lo scopo dichiarato del dialogo De divinatione, che insieme al De fato, completa la trattazione teologica del De natura deorum, è quello di liberare la religione fondata sulla conoscenza della natura dalla superstizione: «la bellezza dell’universo e la regolarità dei fenomeni celesti ci obbliga a riconoscere che vi è una possente ed eterna natura, e che il genere umano deve alzare a essa lo sguardo con venerazione» (div. 2,148). La battaglia contro la superstizione assume nel finale del dialogo accenti lucreziani, nel quadro dell’uomo assediato da presunti segni profetici, causa di vane preoccupazioni e paure: «bisogna svellere tutte le radici della superstizione. Essa incalza e preme e, dovunque ti volga, ti perseguita, sia che tu abbia dato ascolto a un indovino, sia a un detto casuale, sia che abbia compiuto un sacrificio o veduto un uccello o abbia appena scorto un caldeo, un aruspice, o abbia visto lampi e tuoni o un luogo sia stato colpito dal fulmine, o sia nato o si sia prodotto qualcosa di simile a un prodigio…. Può sembrare che lo scampo da tutti i travagli e le ansie sia il sonno. Ma anche da esso sorgono in gran copia affanni e timori (At ex eo ipso plurumae curae metusque nascuntur)» (div. 2, 149-150; trad. S. Timpanaro).

Tendenze razionalistiche dell’aristocrazia romana

Nel De divinatione Cicerone dà voce a un’istanza razionalistica affermatasi a Roma con il processo di ellenizzazione accelerato dall’età delle conquiste (le guerre puniche e la vittoria sull’Oriente greco). Le tirate contro gli indovini e la divinazione, frequenti nella tragedia euripidea, erano state riprese dai tragici arcaici romani Ennio e Pacuvio; e il disprezzo razionalistico per i superstitiosi vates impudentesque harioli, come li appellava Ennio nei versi del Telamo citati da Cicerone (div. 1,132), pronti a spacciare frottole pur di guadagnare pochi spiccioli, non erano in contrasto con la diffidenza dell’aristocrazia romana per le forme di divinazione non istituzionalizzate. Catone temeva evidentemente che gli indovini potessero esercitare sui contadini un influsso eversivo, quando raccomandava di «non consultare alcun aruspice, augure, indovino, astrologo caldeo» (agr. 5,4), pur essendo favorevole alle forme istituzionali di divinazione (Cic. div.1,28).

Conoscere il futuro è un male: il Carpe diem

Non solo la divinazione è un inutile inganno; nel finale del dialogo ciceroniano essa si rivela anche dannosa, perché turba la tranquillità dell’anima, rendendola ostaggio di ansie (curae) e paure (metus). Nell’ode 1,11, alla trepidazione di Leuconoe, che cerca di conoscere il futuro, Orazio contrappone la saggezza di chi accetta serenamente ciò che il futuro gli porterà: Ut melius quidquid erit pati! (un’opposizione marcata anche a livello sintattico dal contrasto tra la breve sentenza che chiude il v. 3 e le frasi precedenti che si inarcano negli enjambement dei vv. 1-2).
Il segreto è imparare a contenere le speranze a lungo termine entro uno spazio breve (spatio brevi/ spem longam reseces, con metafora tratta dalla potatura delle piante) e cercare la felicità nel presente, fidando il meno possibile nel domani, incerto e imprevedibile: carpe diem, «cogli l’attimo presente (come si spicca un frutto dall’albero, metafora agricola anche questa)». Una sapienza che risente certo dell’insegnamento epicureo.
Per Epicuro, infatti, «il futuro non è né del tutto nostro né del tutto non nostro, affinché né ci aspettiano che assolutamente si avveri, né disperiamo come se assolutamente non si avveri» (Epistola a Meneceo 127); ed epicurea è la polemica contro la divinazione: «se il destino regna sovrano sopra ogni altra cosa, ti affliggerai prima del tempo venendo a sapere che ti aspetta la sventura; d’altro canto, anche se ti è predetta la buona sorte il piacere sarà meno intenso» (fr. 395,16 ss. Usener). Ecco quindi l’invito a godere del piacere che offre l’ora presente, senza preoccuparsi del futuro.

La “potatura” delle speranze e la saggezza stoica

Ma anche gli stoici, che pur credono nella divinazione, classificano la spes tra i πάθη [pathe], le «malattie» dell’anima che impediscono l’esercizio della virtù: spes e metus sono sullo stesso piano di gaudium ed aegritudo, con la differenza che «speranza» e «paura» hanno come oggetto rispettivamente un bene e un male futuro, «gioia» e «dolore» un bene o un male presente. Negare la speranza, sinonimo di cupiditas (in greco ἐπιθυμία [epithymìa]), significa saper fare a meno del futuro. È l’ideale del saggio stoico che vive concentrato nel presente, per realizzare la perfezione morale: «Chi ogni giorno dà alla sua vita l’ultima mano, non ha bisogno del tempo; da questo bisogno nascono il timore e il desiderio del futuro che ci rode l’animo (cupiditas futuri exedens animum)… Come sfuggiremo a questa inquietudine? In un solo modo: se la nostra vita non si protenderà in avanti (non prominebit), se si raccoglie in sé stessa (in se colligitur); dipende infatti dal futuro chi non realizza il presente»; di qui l’esortazione «affrettati a vivere e considera ogni giorno una vita» (Sen., epist. 101,8-9).

Epicurei e Stoici, uniti di fronte all’inconoscibilità del futuro

Nell’ode 3,29 a Mecenate, Orazio riconosce paradossalmente la provvidenza divina proprio nell’aver negato all’uomo la possibilità di conoscere il futuro. L’imprevedibilità del futuro rende infatti necessario concentrarsi nel presente: «vivrà felice e padrone di sé chi giorno per giorno potrà dire “ho vissuto”: domani Giove coprirà il cielo di nere nubi o vi farà risplendere il sole; tuttavia non renderà vano ciò che è alle spalle, non stravolgerà, né renderà incompiuto ciò che l’attimo fuggente ha portato una volta per sempre (quod fugiens hora semel vexit)» (vv. 41-48).
L’ideale di sapientia propugnato dall’epicureismo trova un punto di convergenza con quello epicureo nell’affermare l’indipendenza del saggio dal futuro e la necessità di dare pienezza di valore al presente, sia che questo significhi godere a pieno, liberi da turbamenti, il piacere che l’oggi ci offre, come vuole Epicuro, sia che nel presente si cerchi di realizzare la perfezione della vita morale, secondo l’insegnamento degli Stoici. «Arroccato nell’oggi, il saggio stoico si difende dal tempo annullandolo. Proprio perché chiuso nella sua perfezione, sottratto al flusso delle cose esterne, l’oggi del saggio è atemporale» (A. Traina, Seneca. La brevità della vita, Milano 1993). Così Seneca ritrova Epicuro.

Per approfondire il rapporto tra Seneca e il tempo puoi seguire questa lezione di Ivano Dionigi: https://www.youtube.com/watch?v=EzDJZ7514K0

(Crediti immagine: Tarquinio Prisco e l'augure Attio Navio, Sebastiano Ricci, 1690, Wikimedia Commons)

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