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Lettere classiche

Soltanto chi ha paura è capace di sperare

Scegliere il presente e desiderare il futuro. Unica dea benigna per i poeti greci arcaici come Teognide, la speranza era vista dagli antichi come una sensazione di difficile definizione che si collocava tra desiderio e paura. Roberta Ioli traccia un profilo della speranza vista con gli occhi degli antichi che si avvale anche della filosofia di Socrate, Platone e Aristotele e che riflette su concetto di passato, presente e futuro.

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“Speranza è tra gli uomini la sola dea benigna, mentre gli altri dèi ci hanno abbandonato e sono saliti all’Olimpo”. Così il poeta arcaico Teognide apre il suo elogio della speranza in un’elegia che introduce una rilettura del mito relativo a ἐλπίς/speranza (Elegia I vv. 1135-1136). In una delle versioni più note del mito, quella proposta da Esiodo ne Le opere e i giorni, Pandora è ritenuta responsabile della diffusione del male nel mondo: da un lato, è lei a sollevare il grande coperchio dell’orcio che contiene tutte le sciagure; dall’altro, è sempre lei a rappresentare la cura dai mali in quanto serra il coperchio del vaso, conservando al suo interno la speranza affinché non si disperda.

Il mito suggerisce che né il fuoco né la tecnica, su cui pure si costruiranno le civiltà a venire, potranno salvare l’uomo: solo la speranza può farlo. Nell’elegia teognidea, invece, non sono i mali a spargersi per il mondo, ma sono i beni a fuggire via: l’unico che resta è – appunto – ἐλπίς, a cui il poeta rivolge il suo pensiero grato come divinità da pregare sempre “per prima e per ultima” (v. 1146).

È difficile stabilire con precisione se per gli antichi la speranza fosse un’emozione, un sentimento o un’affezione, al pari della paura. Due elementi rientrano però certamente nella fenomenologia della speranza: il desiderio che il bene atteso diventi presente e la credenza legata alla valutazione degli stati di cose e degli obiettivi considerati rilevanti per chi agisce. Speranza (dal latino sperantia) implica dunque il desiderio di un risultato che si ritiene possibile, ma non certo; secondo la definizione dello Zingarelli, speranza è “attesa fiduciosa di qualcosa in cui si pensa che consista il proprio bene, o di qualcosa che ci si augura avvenga secondo i propri desideri”.

Il latino sperare (così come il corrispondente greco ἐλπίζειν) significa invece, alla lettera, “aspettarsi” o “attendere” qualcosa che può essere declinato come bene o male: la speranza degli antichi, cioè, può comportare, a differenza del termine italiano, sia l’attesa di un esito favorevole (e spesso, in questo caso, è accompagnata dall’avverbio latino bene o dal greco εὖ) sia la preoccupazione verso qualcosa di negativo che si ritiene imminente. Così, per esempio, in alcuni passi dell’epica omerica il verbo ἐλπίζειν non presenta affatto il significato di “sperare” ma, semmai, quello di “temere”, come avviene quando Penelope chiede ad Antinoo – che vorrebbe impedire al medicante/Odisseo di partecipare alla gara di tiro con l’arco – se per caso tema (non certamente speri, ἔολπε, v. 317) che il vecchio mendico possa vincere la sfida e fare di lei la propria sposa (Od. 21.314-319).

Platone e Aristotele propongono un’indagine filosofica della speranza nella sua relazione con la dimensione temporale. Nel Filebo di Platone l’anima compare come libro in cui la memoria, con le proprie affezioni, è paragonata a uno scrittore o a un pittore: se questi scrive o dipinge il vero in rapporto alle sensazioni percepite, nascono opinioni e ragionamenti veri, se scrive il falso falsi (Phileb. 38e). Scritti e dipinti non riguardano per Platone soltanto il passato e il presente, ma anche il futuro, coinvolgendo il modo in cui ci formiamo le speranze.

Come suggerisce Socrate (Phileb. 40a5), speranze sono “discorsi interni a ciascuno di noi”, e potranno corrispondere o meno a una aspettativa fondata in relazione alla nostra capacità di lettura delle situazioni contingenti. L’uomo che si considera felice perché gode nel presente di una grande ricchezza, tende a proiettare il ritratto di sé felice anche nel futuro, costruendo una φαντασία, cioè un’immagine mentale, che potrebbe essere fallace dal momento che la ricchezza, come Socrate ci ricorda, è un bene effimero.

Sembra di cogliere qui la stessa nota pessimistica che ritroviamo nella lirica arcaica a partire da Semonide di Amorgo. Il poeta riconosce infatti i mortali come creature effimere: “speranza e fiducia ci nutrono tutti, / mentre ci affanniamo a vuoto; e alcuni / aspettano che arrivi un giorno, altri che volgano gli anni. / Non c’è nessuno tra i mortali che non creda / che nel nuovo anno sarà ricco e felice” (fr. 1 Diehl, vv. 6-10). Tipica degli esseri umani è l’incapacità di prevedere il futuro e di anticipare l’esito delle proprie azioni. Tuttavia, nella fragilità si radica la speranza; pur nascendo dal nostro limite, essa offre un conforto ai mortali anche quando risulta infondata e illusoria.

Per Platone sono possibili due diverse sensazioni rispetto alla rappresentazione del futuro: da una parte, il piacere derivato dalla speranza quando l’appagamento del proprio desiderio appare come una possibilità certa; dall’altra, il dolore che corrisponde all’assenza di speranza, alla mancanza di una prospettiva di soddisfazione. Nelle Leggi (644c-645a), per esempio, ἐλπίς è il termine utilizzato in modo generico per due opposte varietà di opinioni e di emozioni relative al futuro: θάρρος, “audacia”, “fiducia”, e φόβος, “timore”. La speranza implica, dunque, sia il processo valutativo delle possibilità future, sia i πάθη corrispondenti, in quanto θάρρος e φόβος sono correlati rispettivamente al piacere e al dolore, i due “opposti e insensati consiglieri” (συμβούλω ἐναντίω τε καὶ ἄφρονε, Leg. 644c6-7) che ognuno di noi ha dentro di sé. 

In Aristotele il concetto di ἐλπίς presenta oscillazioni legate alla ricchezza semantica del termine che abbraccia una varietà di sfumature comprese tra la confidenza, la buona speranza e la semplice attesa. Ἐλπίς si relaziona agli eventi futuri, così come la memoria (μνήμη) si relaziona al passato e la sensazione/percezione (αἴσθησις) al presente (De memoria I 449b10-15, 449b25-28).

Si tratta di tre πάθη dell’anima con diverse implicazioni in rapporto alle esperienze vissute e alle ricadute emotive, che variano anche in base al tempo della nostra vita. Come ci ricorda Aristotele, i giovani “vivono per la maggior parte nel tempo della speranza: infatti la speranza guarda al futuro mentre il ricordo guarda al passato, e per i giovani il futuro è lungo mentre il passato è breve. All’alba della vita non c’è nulla che si possa ricordare, ma c’è tutto da sperare” (Rhet. II 1339a21-25). Così scriveva anche Giacomo Leopardi in Alla luna, indicando la giovinezza come l’età in cui “ancor lungo / la speme e breve ha la memoria il corso” (Alla luna, vv. 13-14).

Inoltre, per Aristotele il futuro è δοξαστὸν καὶ ἐλπιστόν, cioè “oggetto di opinione” (non di conoscenza certa) e “di attesa”. Anche in questo caso ἐλπίς si presenta come termine neutro, a cui spesso corrisponde l’atteggiamento di preoccupazione verso eventi negativi ed imminenti; quando invece si vuole indicare una aspettativa positiva, viene prevalentemente utilizzato da Aristotele il termine εὔελπις, “buona speranza”. La complementarità di μνήμη e ἐλπίς assume particolari connotazioni affettive quando i fenomeni sono associati a piacere e dolore.

Nella Retorica (II 1383a3-8), per esempio, il filosofo distingue tra coloro che non temono nulla e coloro che, pur provando paura, riescono a tener vivo un certo grado di speranza: i primi non temono perché credono che niente di peggio della condizione presente possa loro accadere: dunque, non temono e non sperano (sono, cioè, disperati). Al contrario, chi è capace di timore porta in sé anche la capacità di sperare, dunque di scegliere. A completare questa riflessione viene aggiunto un nuovo tassello nell’Etica Nicomachea (III 7, 1116a2-7), in cui Aristotele, dopo aver descritto il coraggioso, introduce il codardo come colui che ha paura di tutto: opposto e complementare al disperato (che non ha paura di niente perché non spera niente), il codardo non concede spazio alcuno alla speranza perché tutto in lui è occupato dalla paura.

Solo chi teme è in grado di sperare: senza, cioè, la consapevolezza della propria fragilità, non esiste speranza. Gli dèi amano, odiano, ma non sperano, mentre ἐλπίς è una delle manifestazioni più proprie del sentire umano. La possibilità stessa del fallimento comporta sempre, come suo inevitabile corollario, la possibilità del successo: quando la valutazione sugli scopi da perseguire è corretta, ἐλπίς può svolgere un ruolo propositivo orientandoci nella giusta direzione. Mantenere viva la speranza significa accogliere in sé non soltanto una aspettativa di bene, ma anche e soprattutto il desiderio di raggiungere quel bene, creando le condizioni stesse affinché si renda possibile. 


Crediti immagini: Pinturicchio, “Il ritorno di Odisseo”, Londra, National Gallery

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