Aula di lettere

Aula di lettere

Percorsi nel mondo umanistico

Sezioni
Accad(d)e che
Come te lo spiego
Interventi d'autore
Il passato ci parla
Sentieri di parole
Nuovo Cinema Paini
Storia di oggi
Le figure retoriche
Gli antichi e noi
Idee didattiche digitali
Le parole dei media
Come si parla
Dall'archivio
Tutti i temi del mese
Materie
Italiano
Lettere classiche
Storia e Geografia
Filosofia
Storia dell'arte
Scienze umane
Podcast
Chi siamo
Cerca
Lettere classiche

Tacito sugli Ebrei, tra stereotipi antigiudaici e revisionismo storico

In un excursus etnografico sugli ebrei contenuto nell’opera Historiae, Tacito infarcisce il racconto di stereotipi e mistificazioni sulla cultura e sulla storia giudaica. Inoltre, Tacito altera i fatti storici quando presenta la conquista di Gerusalemme da parte di Pompeo nel 63 a.C.: un racconto che fu manipolato per ragioni di propaganda anche da un altro storico romano che precedette Tacito, ovvero Giuseppe Flavio.

leggi

Accingendosi a narrare la caduta di Gerusalemme a opera di Tito nel 70 d.C., all’inizio del quinto libro delle sue Historiae (capp. 2-13) Tacito inserisce, in omaggio ad una tradizione storiografica risalente a Cesare, un excursus etnografico sugli Ebrei. E lo farcisce dei più triti stereotipi antigiudaici, fandonie che recano già in sé traccia della propria genesi malevola e menzognera.

Il paradosso del Tempio vuoto

Che aspetto può avere l’unico Dio adorato dagli Ebrei?

La domanda non è banale per chi creda in un pantheon di divinità antropomorfe adorate nei vari luoghi di culto nelle immagini offerte dall’arte statuaria o figurativa. A 5,5,4 Tacito correttamente osserva che, mentre gli Egizi venerano animali e figure miste, i Giudei mente sola unumque deum intellegunt, «concepiscono un solo dio e solo con la mente»: per loro è empio rappresentare il dio sommo, eterno e immortale in forma umana.

Ma poco prima (5,4,2) lo storico ci ha informato che nella cella più interna del Tempio (il sancta sanctorum, Santissimo o Santo dei Santi) fu consacrata l’immagine di un asino, perché seguendo un branco d’asini il popolo guidato da Mosé trovò l’acqua nel deserto e scampò alla morte (cf. 5,3,2).

Per questa sparata, Tertulliano, il grande apologeta cristiano vissuto a cavallo tra II e III sec. d.C., bolla Tacito come bugiardo patentato, ille mendaciorum loquacissimus (per ben due volte: ad Nationes 1,11,1-4 = Apologeticum 16): dopo avere affermato che gli Ebrei adorano nella cella del Tempio un’immagine asinina, oblitus affirmationis suae, lo storico riferisce che conquistata Gerusalemme Pompeo entrò nel Tempio e trovò la cella vuota.

In 5,9,1 leggiamo infatti che Pompeo entrò nel Tempio iure victoriae: inde vulgatum nulla intus deum effigie vacuam sedem, inania arcana, «si seppe così che la cella era vuota di immagini degli dèi (ma vacuam sedem allude maliziosamente al fatto che, priva di imagini divine, al conquistatore romano la sede del dio appare vacante) e che non c’era nessun mistero».

Pregiudizi assurdi ma diffusi

Eppure Tacito non era solo a sostenere l’idea dei Giudei adoratori dell’asino: pare che anche il filosofo stoico Posidonio di Apamea, frequentatore a Roma del cosiddetto Circolo degli Scipioni e autore di una monografia sulle imprese di Pompeo in Oriente, sostenesse questa tesi strampalata (lo si ricava da Giuseppe Flavio, Contro Apione 2,79-80, come argomenta L. Canfora, Il tesoro degli Ebrei. Roma e Gerusalemme, p. 40).

I sacerdoti ebrei cantano con flauti e timpani, recando corone d’edera sulla testa: questa semplice osservazione, unita alla notizia che nel Tempio fu trovata una vite d’oro, genera l’altra falsa credenza, degli Ebrei come adoratori di Bacco.

A riconoscere come sia nata questa diceria è lo stesso Tacito in Hist. 5,5,5. Eppure essa è avallata da fonti autorevoli come Plutarco, che nelle Questioni conviviali 4,6 interrogandosi su «quale dio sia venerato dai Giudei», concede ampio spazio alla tesi dell’identità tra solennità ebraiche e riti bacchici. E in 4,5 ospita l’idea che l’astinenza degli Ebrei dalla carne suina sia legata al fatto che essi adorano il maiale come dio (a testimoniare la diffusione di questo pregiudizio basta Petron. frg.37,1: Iudaeus licet et porcinum numen adoret).

Si tratta fin qui di stereotipi assurdi che stigmatizzano l’alterità di un popolo straniero su cui si hanno idee confuse.

La deportazione ovvero l’esodo dall’Egitto

Più insidiosa è la versione di Tacito sull’esodo degli Ebrei dall’Egitto, derivata (come attesta Giuseppe Flavio, Contro Apione 1,103 ss.) da una fonte alessandrina fortemente antigiudaica, Lisimaco. Secondo Tacito (5,3,1) gli Ebrei furono deportati nel deserto dal faraone Boccori in occasione di una pestilenza, per purificare il regno in obbedienza all’oracolo di Ammone.

In realtà nel racconto più disteso che si legge in Giuseppe, la pestilenza, o più precisamente la lebbra aveva colpito la sola comunità degli Ebrei, che si era rifugiata nei templi; in seguito scoppiò una carestia in tutto l’Egitto e l’oracolo di Ammone, consultato da Boccori, ordinò di purificare i templi dagli impuri, espellendoli in luoghi deserti.

Se nella fonte alessandrina è esplicito il nesso tra la moltitudine degli Ebrei che nei templi vivevano di elemosina e la conseguente carestia abbattutasi sull’Egitto, il più sintetico testo di Tacito fa ricadere direttamente sugli Ebrei la responsabilità della pestilenza, sinistro prodromo del topos medievale che dipingeva gli Ebrei come untori.

Pompeo sottomette i Giudei: urbs capta, muri diruti

Ma l’excursus tacitiano contiene anche una falsificazione dei fatti storici quando presenta la conquista di Gerusalemme da parte di Pompeo nel 63 a.C. Scrive Tacito: «Primo dei Romani, Gneo Pompeo sottomise (domuit) i Giudei ed entrò nel Tempio per diritto di vittoria (iure victoriae)»; e, dopo la notizia sulla cella del Tempio trovata vuota, «Le mura della città furono abbattute, mentre il tempio restò in piedi», Muri Hierosolymorum diruti, templum mansit (Hist. 5,9,1).

Pompeo dunque avrebbe posto l’assedio alla città e, dopo averla espugnata, secondo il diritto del vincitore sarebbe entrato nello spazio interdetto del Tempio, il Santissimo, accessibile al solo sommo sacerdote.

Questa è la versione ufficiale, la verità di stato, fondata soprattutto sulla tradizione filopompeiana. In realtà le fonti su ciò che accadde nel 63 a.C. a Gerusalemme non sono affatto univoche. Un recente studio di Luciano Canfora (Il tesoro degli Ebrei. Roma e Gerusalemme, 2021) ha dipanato l’intricata matassa delle testimonianze gettando luce sulla verità dei fatti.

La fonte filopompeiana di Tacito

La versione di Tacito – la città fu espugnata e le sue mura distrutte – corrisponde al resoconto del geografo greco Strabone (attivo nella seconda metà del I a.C.) nell’excursus sugli Ebrei contenuto nel libro XVI (2,34-45) della sua opera.

In particolare, la concordanza puntuale tra Tacito e Strabone nella descrizione del Tempio-fortezza ha indotto Canfora a ipotizzare una fonte comune, probabilmente Posidonio, l’unico autore citato da Strabone nel suo excursus, ammiratore di Pompeo e storico delle sue gesta.

Da Posidonio, quindi, è probabilmente partita la versione dei fatti che parla di espugnazione con le armi della città e abbattimento delle sue mura. Adottata da Strabone e avallata da Tacito, questa narrazione si è diffusa con successo nella tradizione storiografica latina, da Ammiano Marcellino ad Orosio.

Giuseppe Flavio: l’altra verità

Tuttavia Giuseppe Flavio, lo storico giudeo che combatté contro i Romani nel 67 d.C. ma dopo la caduta di Iotopata passò dalla parte romana e ottenne il favore di Vespasiano predicendogli l’impero (della gens Flavia assunse poi il gentilizio), racconta un’altra storia (Guerra giudaica 1,141-152; cfr. Antichità giudaiche 14,70-73).

Pompeo entrò a Gerusalemme senza combattere, approfittando del conflitto dinastico scoppiato tra Ircano II e suo fratello Aristobulo. Fu la fazione di Ircano ad aprirgli le porte della città, mentre i seguaci di Aristobulo, che Pompeo tratteneva prigioniero (perché non erano stati consegnati al suo legato i denari promessi per ottenerne il favore) si asserragliò nel Tempio-fortezza. L’assedio, durato tre mesi, fu posto al Tempio, anch’esso protetto da solide mura cinte da un fossato. I Romani penarono per colmare il fossato con un terrapieno e accostare al bastione il temibile ariete, perché gli assediati li colpivano dall’alto.

E tuttavia, quando capirono che il sabato gli Ebrei potevano solo difendersi ma non attaccare, sfruttarono di settimana in settimana quel giorno per ultimare il terrapieno, aprire una breccia nelle mura e fare irruzione nel recinto del Tempio.

Accerchiato l’edificio sacro, fecero strage di dodicimila Ebrei (il numero dei caduti sale a ventimila nelle Antichità), senza risparmiare i sacerdoti che impavidi proseguivano il loro ufficio presso l’altare dei sacrifici. Segue la notizia della profanazione del Santissimo: «Nulla ferì il popolo quanto il fatto che il luogo sacro, fino ad allora rimasto inviolato e non vedibile, venisse squadernato davanti a estranei» (GG 152).

Gerusalemme non fu espugnata con le armi: l’assedio non fu posto alla città ma al Tempio-fortezza.

La propaganda e il trionfo del 61 a.C

La narrazione ufficiale, adottata da Tacito, risente certamente della propaganda filopompeiana, affermatasi soprattutto con il trionfo celebrato a Roma nel 61 a.C., che salutava Pompeo al rientro dalla campagna d’Oriente come conquistatore del mondo.

Un grandioso apparato scenografico dispiegato per la costruzione del mito personale del generale romano. Tesori depredati, immense quantità d’oro e d’argento portate in trionfo; pannelli che illustravano i territori conquistati, mappe delle città espugnate ed elenchi dei re vinti; ma soprattutto Aristobulo in persona, il rex Iudaeorum catturato a tradimento prima dell’assedio al Tempio, fatto sfilare davanti al carro del vincitore insieme al figlio di Mitridate e al figlio di Tigrane (cfr. Eutropio 3,16), e così equiparato alle due grandi dinastie abbattute dalle forze pompeiane. L’idea della conquista di Gerusalemme col valore delle armi è un effetto previsto della retorica trionfale.

La profanazione del Santissimo e il saccheggio

Nella versione di Giuseppe, Pompeo entrato nel Santissimo con la sua scorta vide ciò che nessuno può vedere tranne il sommo sacerdote. Giuseppe elenca gli arredi sacri in oro massiccio (menorah, tavolo, coppe per le libagioni), la massa dei preziosi aromi sacri e il denaro custodito nel Tempio, che ammontava a duemila talenti. Pompeo però non toccò nulla grazie alla sua pietas (εὐσέβεια in AG 14,73), e si comportò in modo degno della sua virtù.

La caduta di Gerusalemme, avvenuta dopo tre mesi di assedio al Tempio, è narrata anche da Dione Cassio (Storia Romana 37,15-17). Il sul racconto corrisponde puntualmente a quello di Giuseppe tranne che nel finale: secondo Dione «tutte le ricchezze del Tempio furono saccheggiate».

Questa versione dei fatti è confermata in primo luogo da ragioni di verosimiglianza: probabilmente Pompeo non fu il primo a entrare nell’edificio sacro ed è irragionevole supporre che le truppe che fecero irruzione nel recinto sacro e, nella furia della strage, massacrarono i sacerdoti intenti al culto si siano fermate di colpo davanti alla tenda che divideva la prima cella, il Santo, da quella più interna, il Santissimo. Inoltre, varie fonti attestano la presenza di oggetti prezioni provenienti dal Tempio di Gerusalemme tra i tesori che sfilarono nel trionfo di Pompeo del 61 a.C. e furono poi offerti nei vari luoghi di culto a Roma (per es. la vite d’oro: Plin. NH 37,14; Strabone poté ammirarla nel tempio di Giove Capitolino a Roma: Strabone ap. Giuseppe AG 14,36; la pianta del balsamo, tra gli aromi sacri: Plin. NH 12,111). Infine, il massacro e il saccheggio del Tempio sono confermati da una fonte contemporanea ai fatti, i cosiddetti Salmi di Salomone (2; 8; 17), composti in greco, la lingua della diaspora in Egitto, da un Ebreo fuggito da Gerusalemme ad Alessandria.

La manipolazione storica di Giuseppe

Ma la versione di Giuseppe è facilmente confutabile soprattutto perché, come conferma anche Tacito Hist. 5,9,1 (vacuam sedem et inania arcana), gli arredi preziosi non si trovavano nel Santissimo, ma nella cella antistante, il Santo. Quanto al denaro, il cosiddetto aurum iudaicum, contributo versato annualmente da tutti gli Ebrei d’Asia e d’Europa al Tempio di Gerusalemme, esso non si trovava nemmeno nel Santo, ma in una Camera del tesoro (γαζοφυλάκιον) separata, situata nella corte antistante l’edificio sacro. Un ebreo della casta sacerdotale come Giuseppe non poteva fare un simile errore. La sua è una manipolazione intenzionale dei fatti.

Giuseppe, che scrive in greco per un pubblico non ebreo, per attenuare lo scandalo della violazione del Santissimo, sposta deliberatamente in quel luogo proibito l’oro e tutti gli oggetti preziosi: al momento della massima profanazione si sovrappone così l’episodio esemplare della pietas di Pompeo.

Giuseppe che ha vissuto il dramma della fine di Gerusalemme nel 70 d.C., mira a farne ricadere la responsabilità non sull’aggressione romana ma sul conflitto interno al mondo ebraico stesso, manifestatosi per la prima volta all’epoca di Pompeo, con i contrasti che dilaniarono la contestata dinastia degli Asmonei (cui appartenevano Ircano e Aristobulo). In ciò il suo punto di vista collima con quello dell’autore dei Salmi di Salomone, che definisce Pompeo inviato da Dio per punire i peccati degli Asmonei (ma poi Dio punisce anche Pompeo riservandogli l’orrenda e umiliante fine in Egitto).

Una menzogna fortunata

Eppure l’idea di Pompeo che non tocca nulla delle strabilianti ricchezze conservate nel Tempio si è fatta strada nella tradizione storiografica: si è preferito credere alla fragile manipolazione di Giuseppe Flavio piuttosto che al più solido resoconto di Dione Cassio, basato sulle Storie di Livio, che però per questo periodo ci sono note soltanto da sommari (Periochae 102-103) e da qualche frammento. Da questi pochi indizi (come dimostra Canfora, pp. 91-102) sappiamo che anche Livio riferiva l’assedio al Tempio, non alla città, e che le ricchezze del Tempio erano state portate in trionfo, quindi il Tempio era stato saccheggiato. La sua versione cioè doveva allinearsi con i Salmi di Salomone e con Dione Cassio.

Cicerone e l’oro giudaico

A Roma ha fatto da sponda alla versione di Giuseppe un passo male interpretato dell’orazione pro Flacco di Cicerone. Lucio Valerio Flacco, il pretore che nel 63 a.C. aveva arrestato i Catilinari, era stato accusato di concussione durante il governo esercitato in Asia l’anno seguente. Il reato ascritto a Flacco era ampiamente comprovato, ma Cicerone assunse comunque la difesa per avere occasione di vantare le proprie benemerenze nella repressione della congiura del 63, in un momento in cui i rapporti con Pompeo era ormai irrimediabilmente compromessi.

Al cap. 67, all’operato indifendibile di Flacco, accusato dalle comunità giudaiche di aver sequestrato e rubato l’oro destinato al Tempio di Gerusalemme, l’oratore paragona il comportamento di Pompeo che captis Hierosolymis victor ex illo fano nihil attigit, «espugnata Gerusalemme, per quanto vincitore, non portò via niente da quel tempio»: ciò non significa che non lo saccheggiò, ma che non prese nulla per sé, così come Flacco appunto avrebbe versato tutto l’oro sequestrato agli Ebrei nelle casse dello Stato, senza tenere niente per sé! Naturalmente il paragone era irrispettoso per Pompeo, e doveva irritare gli accusatori, pompeiani anch’essi.

Mentre non vale a dare credito alla celebrazione menzognera di Pompeo voluta da Giuseppe, l’orazione di Cicerone mette in luce un aspetto importante del rapporto tra Roma e Gerusalemme: l’attrazione irresistibile dell’oro giudaico, ripetutamente saccheggiato dai Romani, prima di essere trasformato da Vespasiano nel 70 d.C. in fiscus iudaicus, contributo diretto all’erario di Roma.

Bibliografia

Sulla campagna giudaica di Pompeo e il saccheggio del Tempio di Gerusalemme, ma in genere come saggio esemplare della ricostruzione di una verità storica a partire dalle fonti, puoi leggere:

L. Canfora, Il tesoro degli Ebrei. Roma e Gerusalemme, Bari Laterza, 2021.

Puoi leggere l’excursus sugli Ebrei nel libro quinto delle Historiae di Tacito, ai capitoli 2-13, in traduzione con testo latino a fronte: a cura di M. Stefanoni, Milano Garzanti, 2020; F. Nenci, Milano Mondadori, 2019.

Come commento alle Historiae puoi consultare:

GEF Chilver – GB Townend, A historical commentary on Tacitys‘ Histories IV and V, Oxford 1985.


Crediti immagini: Francesco Hayez, "La distruzione del tempio di Gerusalemme", 1867, Gallerie dell'Accademia, Venezia - Crediti: Wikipedia

Devi completare il CAPTCHA per poter pubblicare il tuo commento