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Lettere classiche

La follia degli antichi: mania,lyssa,ekstasis

Roberta Ioli ci parla del rapporto complesso tra il mondo antico e la follia, intesa non propriamente come stato patologico, ma come invasamento indotto dagli dei, sia esso l’enthysiasmos di cui gode il poeta “posseduto” dalle Muse, o la condizione in cui i numi hanno fatto precipitare il mortale per qualche sua colpa.
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La parola italiana folle discende probabilmente dal termine con cui, nel Medioevo, si indicava un sacco di cuoio, un pallone gonfio d’aria e, per estensione, una testa vuota, sintomo di leggerezza, vacuità, mancanza di stabilità. Le parole greche della follia si muovono su un terreno molto diverso da questo. Il mondo antico ha infatti un rapporto complesso con la follia, intesa non propriamente come stato patologico, ma come invasamento indotto dal dio, sia esso l’enthysiasmos di cui gode il poeta “posseduto” dalle Muse, o la condizione privativa e sofferente in cui i numi hanno fatto precipitare il mortale per qualche sua colpa. Mania è il termine che corrisponde con più pertinenza alla nostra follia: presenta la stessa radice di menos, che indica il coraggio, la forza vitale, ma anche la furia rabbiosa. Si comprende, così, come nei poemi epici la mania sia associata alla furia degli elementi, soprattutto il fuoco, all’ira degli dei, in particolare Ares, o all’impeto distruttore dei guerrieri. Il termine mania deriva dal verbo mainomai, che indica l’“essere fuori di sé”, e analogo è il significato di ekstasis; ben prima di evocare l’estasi religiosa o il rapimento contemplante, ekstasis segnalava un turbamento talmente intenso da coincidere con il delirio. Infine, follia è lyssa, la condizione allucinatoria e furente in cui si precipita quando interviene l’omonima e terribile dea, Lyssa, capace di suscitare non solo furore guerriero (ad esempio nell’Iliade), ma anche la follia amorosa o l’assalto di passioni smodate. È lei che farà impazzire, secondo il mito, i cani di Atteone, tanto da indurli a sbranare il loro padrone che ha osato guardare Artemide nuda al bagno; è sempre lei che, inviata sulla terra per ordine di Era, farà impazzire Eracle. Possiamo distinguere, nel mondo greco, una mania che si traduce in slancio profetico e capacità di visione (Platone, nel Fedro, introduce infatti la continuità tra mantiké e maniké), e una mania amorosa, in parte riconducibile al primo tipo di follia poiché il mortale è posseduto da Eros o Afrodite, divinità implacabili a cui lo stesso Zeus soccombe; infine vi è una follia identificabile con la convulsione furente e delirante in cui gli dei adirati fanno cadere i mortali. Nel mito i contaminati da mania sono figure possedute da un furore sacro e terribile insieme. Nel caso delle grandi eroine, dalla Cassandra di Eschilo all’Antigone di Sofocle alla Medea di Euripide, follia è eccentricità, disappartenenza al mondo della polis e ai suoi valori. Diversa è la follia maschile, che porta all’annullamento della condizione eroica a cui il protagonista maschile aderisce con ostinazione identitaria. Si pensi ad Aiace, l’eroe della forza smisurata che, nella contesa con Odisseo per il possesso delle armi di Achille, risulta perdente. La sua reazione, lo scempio prodotto sugli armenti come se fossero guerrieri in armi, è l’amaro rovesciamento di quella che era stata la sua grandezza: lui, che fu il guerriero più forte, il corpo di tutti più statuario, è ora atopos, senza luogo e senza nome. Alla vista dell’eccidio compiuto, l’eroe prorompe in grida acutissime, si percuote il capo, si strappa i capelli. Dolore e follia, lupē e mania rientrano costantemente nel linguaggio della malattia, intesa non come specifica patologia a cui deve corrispondere una terapia mirata, ma come assoluta estraneità a se stessi, condizione in cui Aiace è letteralmente “gettato”, come un animale incastrato in una rete da cui è impossibile uscire. Anche l’Eracle di Euripide è il folle che, in preda a un accesso furente, uccide moglie e figli: al manifestarsi dei primi sintomi, l’eroe viene descritto da Lyssa come un prigioniero che dapprima volge silenzioso gli occhi roteanti e poi muggisce come un toro. La sintomatologia che viene qui introdotta ricorre identica nel De morbo sacro a proposito dei sintomi dell’epilettico: tremore delle membra, occhi stravolti, pupille roteanti, respiro incontrollato. Il trattato ippocratico del V secolo a.C. costituisce un manifesto della medicina razionale in opposizione alle concezioni tradizionali della malattia intrise di elementi magico-religiosi, e ha probabilmente esercitato la sua influenza sulla rappresentazione euripidea della sofferenza psicofisica. Il Corpus Hippocraticum non contiene specifiche definizioni della follia, né una sua trattazione sistematica come malattia, eppure compare già in alcuni trattati un vocabolario relativo alle turbe del comportamento: si pensi al legame tra mania e melancholia, l’alterazione causata da un eccesso di bile; quando la bile (cholé) aumenta e surriscalda le membra, diventa nera. Così la melancholia, esubero di bile nera nel corpo, risveglia il dionisiaco rapimento, creatore d’arte, ma anche il delirio e la follia allucinatoria. Altro eroe vittima di mania è Oreste, condotto al gesto estremo, il matricidio, e poi alla consapevolezza della sua irreparabilità. L’Oreste di Euripide è l’unica tragedia in cui il delirio si consuma interamente sulla scena: dopo la fase di catatonia e torpore silente, il matricida viene aggredito da un nuovo accesso di follia a cui lo spettatore assiste dal momento del suo erompere fino al suo esaurirsi. Cominciano le allucinazioni, in particolare la visione delle Erinni, le vergini serpentiformi “occhi di sangue”, a cui seguono gesti scomposti nel tentativo di allontanare da sé i fantasmi che lui solo vede. Mentre però nelle Eumenidi di Eschilo sono le Furie, presenti in scena, gli agenti personificati della follia, nella tragedia euripidea si impone il linguaggio della malattia, di cui vengono catalogati, con precisione tassonomica, tutti i sintomi. Oreste viene descritto come ostaggio di laceranti forze interiori che si contendono il suo corpo con la ferocia di un morbo incurabile. E la scena è vuota, a parte Oreste e una Elettra sgomenta che tenta di abbracciarlo. Nella follia tragica, la passione devastatrice, sia essa omicida o amorosa, scaccia il senno dalla sua sede abituale e a esso si sostituisce. Lo spazio interno del corpo è il campo di battaglia conteso da forze antagoniste, non solo fisiologicamente definibili come bile, flegma, sangue, ma anche presenti in forma di emozioni connesse a quella originaria fisiologia. Il dolore è il nutrimento delle malattie dell’anima: esso corrode e morde il cuore, fa gelare il corpo, ne distrugge le membra, e non c’è nessuna valenza metaforica nell’uso di questi termini, ma una precisa corrispondenza tra l’erompere della passione e la corruzione del corpo. La furia dell’irrazionale che diventa follia è per i Greci una malattia senza cura; e come Ecuba nelle Troiane di Euripide, il medico sarà sempre maldestro, incapace di garantire una guarigione durevole, “medico di nome, ma non d’arte”.   Crediti immagini Apertura: Oreste perseguitato dalle Erinni, dipinto di William-Adolphe Bouguereau, 1862 (Wikimedia Commons) Box: Atteone sbranato dai suoi cani, del pittore di Dolone (Wikimedia Commons)
William-Adolphe_Bouguereau_(1825-1905)_-_The_Remorse_of_Orestes_(1862)
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