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L’Olocausto è un test per la modernità

Zygmunt Bauman riflette sul genocidio degli ebrei e si chiede come questo evento tragico debba modificare la nostra visione della società e della disciplina che la studia, ovvero la sociologia.

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Quando il sociologo Zygmunt Bauman (1925-2017) decide di scrivere un libro sull’Olocausto, Modernità e olocausto, dispone di una ricchissima bibliografia, costituita soprattutto da testi storici. Perché non di opere di sociologi? L’assenza di analisi sociologiche lo stupisce e da qui si innesca la doppia domanda che attraversa tutto il suo libro: egli si chiede non solo perché l’Olocausto ha avuto luogo, ma anche in che modo questo evento deve modificare la nostra visione della società e della disciplina che la studia.

All’origine della normalità dell’Olocausto

Fin dalle prime pagine della sua opera Bauman nota che anormalità e normalità sono strettamente intrecciate nel genocidio degli ebrei attuato dai nazisti durante la Seconda guerra mondiale. Da un lato lo sterminio progettato di quasi sei milioni di persone appare mostruoso e assurdo. Dall’altro molti segmenti della procedura dello sterminio appaiono stranamente razionali: elenchi persone, organizzazione di treni, operazioni di polizia ecc.

Da dove viene questa strana normalità? Per rispondere a questa domanda, Bauman riprende innanzitutto le analisi sulla burocrazia di un altro sociologo, Max Weber, per mostrare come essa sia uno strumento razionale di realizzazione degli ordini. Di fatto, emancipa i funzionari dalla responsabilità morale delle proprie azioni, demandandola ai superiori e facendo dell’adempimento degli ordini il solo criterio di onorabilità. Questo spiega la facilità della messa in atto della Shoah, ma non ancora perché gli ebrei ne siano finiti vittime e perché le forme di opposizione a tale progetto siano state poche.

Qui trovi una biografia di Max Weber
https://www.treccani.it/enciclopedia/max-weber/

Dove trovare le risposte a questi interrogativi rimasti in sospeso? Bauman, sulla scorta di studi storici, mostra come l’antisemitismo non fosse un tratto peculiare della Germania novecentesca. Nota però anche come, nell’immaginario della società industriale tra Ottocento e Novecento, l’ebreo rappresenti il prototipo dell’elemento fuori posto, che rimarcava i cambiamenti sociali. Da elemento esterno ai gruppi sociali, ora si integrava. Da soggetto ai capricci del potere politico, diventava un protagonista dello sviluppo economico. Secondo Bauman, l’ebreo ricorda a tutti coloro che la detestano, che si sta affermando la società industriale, dove le vecchie prassi e i vecchi valori sono venuti meno. 

La cieca razionalità del mondo moderno

Una volta individuata la percezione di una sorta di “estraneità”  degli ebrei rispetto alla società che si stava realizzando, Bauman evidenzia come il progetto di fondo della modernità sia stato quello di plasmare la società secondo piani precisi. Usando una metafora apparentemente bucolica, descrive la società moderna come un giardino, dove il giardiniere decide quali piante coltivare e quali estirpare. Nella società che i nazisti andavano creando gli ebrei rappresentavano un elemento superfluo, una detestabile sopravvivenza del passato.

Lungi dall’essere un elemento sopravvissuto di una barbarie antica, l’antisemitismo nazista si rivela dunque straordinariamente moderno. Alla modernità del progetto si somma quella dello strumento utilizzato. Più ancora che all’organizzazione industriale, Bauman (che non lesina rimandi a molti storici, tra cui lo storico Raul Hilberg, e alla filosofa Hannah Arendt) si rivolge a quella amministrativa. In quanto strumento razionale, che disumanizza i soggetti che tratta, che sostituisce le finalità degli ordini a quelle della morale, la burocrazia è efficiente anche nel distruggere le vite degli indesiderabili.

Bauman torna più volte su questo infelice connubio tra modernità e razionalità, mostrando il lato oscuro di entrambe, ma facendoci capire anche come l’assuefazione alla razionalità burocratica e dell’organizzazione sociale possa ridurre al silenzio gli scrupoli morali. Nelle sue parole: l’Olocausto «combina alcuni fattori comuni della modernità, che normalmente sono tenuti separati».

L’Olocausto come caso storico che ridefinisce la sociologia

Ma sono sufficienti la razionalità burocratica e un’organizzazione razionale e moderna per spegnere ogni sentimento di pietà? In qualche caso, sì. Bauman conserva per la fine del libro il richiamo all’aspetto metodologico della sociologia annunciato all’inizio. A poco a poco in effetti è emersa la tendenza della società moderna, a furia di progetti razionali, burocrazia, esercizio asettico e lontano della violenza, a mettere da parte la morale. Proprio qui Bauman denuncia un limite della sua disciplina. Spiega Bauman che la sociologia fa della morale una funzione della società che ha lo scopo di rendere il comportamento delle persone coerente con le esigenze sociali o stabilire un vincolo tra le persone. Ma da qui ne discende la conseguenza terribile che azioni sanguinarie e disumane sono accettabili perché accettate dalla società.u

Bauman suggerisce allora di accettare l’idea che il vincolo morale non sia il prodotto della società ma che sia quest’ultima a nascere sulla base di un vincolo morale di rispetto che si impone quando gli uomini stabiliscono una relazione tra loro. L’abbozzo di una teoria sociologica della morale non ha solo lo scopo di indicare come colmare un vuoto disciplinare, ma anche quello di suggerire i limiti delle spiegazioni tradizionali e fornire all’interno della società un limite – ossia gli accordi morali presociali – per resistere alla forza della socializzazione. Ecco perché l’Olocausto rappresenta, nella parole di Bauman, “un test delle possibilità occulte insite nella società moderna”.

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