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Storia dell'arte

Ai Weiwei: l’essenza dell’essere umano

Per l’artista, fotografo, performer e attivista cinese Ai Weiwei l’arte è uno strumento di denuncia contro le ingiustizie ed è uno strumento di affermazione di libertà. Chiara Pilati passa in rassegna alcune delle sue opere più rilevanti.

«Expressing oneself is a part of being human. To be deprived of a voice is to be told you are not a participant in society; ultimately it is a denial of humanity».

Questo si legge all’apertura della pagina web di Ai Weiwei (www.aiweiwei.com) e questo basta per capire come non sia un artista come gli altri.

L’arte è per lui il mezzo per dare voce a un pensiero molto profondamente radicato sia nella poetica che nella stessa esperienza di vita dell’artista, l’arte diventa strumento di denuncia contro il mancato rispetto dei diritti umani e la privazione della libertà, inizialmente nel suo paese di origine, la Cina, poi anche in tutto il mondo.

Artista, fotografo, performer, architetto, regista, attore, scrittore, blogger, attivista per i diritti umani e dissidente. Ai Weiwei è tutto questo e per il suo lavoro, sempre improntato alla denuncia dell’ingiustizia, è diventato simbolo della lotta per i diritti umani tanto che Amnesty international gli ha conferito nel 2015 il titolo di “Ambassador of Conscience”.

Ai Weiwei

Ai Weiwei (Wikimedia Commons – Licenza: CC-BY-SA) 

Arte e vita

Ai Weiwei è nato a Pechino nel 1957, figlio del poeta indipendente Ai Qing, uno dei maggiori poeti cinesi del secolo scorso, diverse volte candidato al premio Nobel. In Cina fino al 1950 circa non si poteva essere un architetto un ingegnere o un avvocato indipendente, tantomeno un artista, e così, per essersi rifiutato di tacere la verità sui fatti di attualità e per aver manifestato il suo dissenso dalle posizioni di Mao, il padre viene esiliato nella terra definita Little Siberia poco dopo la nascita di Ai Weiwei che cresce così lontano da tutto fino a quasi 20 anni. Nel 1976 Ai Qing viene riabilitato e torna a Pechino con la famiglia. Nel 1981, a 24 anni e con 30 dollari in tasca, Ai Weiwei lascia la Cina e si trasferisce a New York.

Il suo appartamento nella Grande mela diventa punto di incontro per gli artisti cinesi, perlopiù in fuga dal regime e Ai Weiwei rappresenta un collegamento tra gli intellettuali dei due paesi. Nel ‘93, alla notizia di una grave malattia del padre, Ai Weiwei torna in Cina.

Qui il suo lavoro si fa più intenso e si dedica a molti progetti dalle misure monumentali resi possibili grazie anche alle numerosissime professionalità che collaborano con il suo studio, basti citare la consulenza artistica al fianco degli architetti Herzog & de Meuron per la costruzione del National Olympic Stadium di Pechino (2003-2008).

Fountain of light

Ai Weiwei, Fountain of light (Fontana di luce), 2007. Cristalli di acciaio e vetro su base di legno, 700×529×400 cm. Tilburg (Olanda), Museum de Pont. Foto: Martin Brink / Alamy Stock Photo

Fra le opere dalle imponenti dimensioni realizzate dall’artista vale la pena citarne una particolarmente significativa e simbolica, è Fountain of light (2007) commissionata dalla Tate Liverpool e concepita appositamente per galleggiare su un tratto del fiume Mersey, esposta alle intemperie e alla corrosione dell’acqua salata, nel porto della città britannica. L’opera è evidentemente ispirata alla torre modernista, Monumento alla Terza Internazionale comunista, ideata ma mai realizzata da Tatlin dopo la rivoluzione di ottobre del 1917, e richiama tanto alla storia industriale della città che la ospita, quanto al clima socio economico della Cina.

Mentre la torre di Tatlin era simbolo della rivoluzione, della modernità e dell’industrializzazione, la fontana di Ai Weiwei parla di un’altra rivoluzione che ha attraversato la Cina più di un secolo dopo e in cui «la forma sconfigge l’ideale intellettuale che avrebbe dovuto simboleggiare: ironicamente diventa una metafora del mondo in cui il potere in definitiva collassa su sé stesso».

Il rapporto con la tradizione

«Penso che le mie opere siano profondamente radicate nella comprensione della tradizione cinese, sono un uomo contemporaneo, penso che reinterpretare l'artigianato e la cultura in questo linguaggio sia molto importante, distruggere e dissacrare è un modo per comprendere quello che è successo in passato». Ha dichiarato l’artista in una recente intervista a “la Repubblica”.

Da sempre in effetti Ai Weiwei fa largo riferimento alla tradizione cinese utilizzando anche oggetti che provengono da questa: recuperare la tradizione per riscrivere la storia attraverso la creatività è per Ai Weiwei un atto rivoluzionario, «la creatività è il potere di rifiutare il passato – ha infatti dichiarato – cambiare lo status quo e cercare nuovo potenziale. In poche parole, oltre all’utilizzo della propria immaginazione, la creatività è forse soprattutto il potere di agire».

Per questo nel 1994 ha apposto su un’urna della dinastia Han, antica di 2000 anni, il logo della Coca Cola (Han Dinasty Urn with Coca Cola Logo), l’anno dopo si è fatto riprendere mentre distruggeva, lasciandola cadere a terra, un’altra urna dello stesso periodo nel lavoro Dropping a Han Dinasty Urn in segno di chiara provocazione, perché se da una parte l’artista critica il suo paese in fatto di diritti umani, dall’altra attacca la deriva capitalistica che mina la millenaria cultura cinese.

In questa stessa direzione va anche la serie di installazioni Forever, declinata in diversi allestimenti dal 2003 in avanti, nella quale assembla centinaia di biciclette, mezzo di trasporto che è parte integrante dell’identità cinese. L’opera rinvia immediatamente alla “ruota di bicicletta” di Duchamp e al suo ready made, ma si porta dietro legami alla storia del paese di origine dell’artista e significati ispirati alla contemporaneità come il problema dei trasporti molto sentito in Cina e, naturalmente, alla libertà di movimento. La marca di biciclette utilizzata è la Forever, appunto, che era la più popolare in Cina dagli anni Quaranta e quasi l’unica in commercio quando l’artista era giovane.

Come in Duchamp, l’installazione separa le biciclette dalla loro funzione, utilizzandole come elementi scultorei e architettonici, dandogli diverse forme a seconda dell’occasione e facendola spesso assomigliare a un arco trionfale o un monumentale portale di ingresso, a un labirinto in cui la percezione dello spazio cambia continuamente così come è in continua mutazione la società sia in Cina che in tutto il mondo.

Forever bycicle

Ai Weiwei, Forever bycicle (Wikipedia – Licenza CC-BY)

Il richiamo all’antichissima tradizione della produzione ceramica cinese è immediato nella grande installazione realizzata alla Tate Modern Sounflower Seeds nel 2010, nella quale Ai Weiwei ha ricoperto il pavimento della Turbin Hall di un tappeto di semi di girasole in porcellana realizzati a mano nella ex fornace imperiale di Jingdezhen nella provincia cinese dello Jiangxi. È stato un lavoro imponente e collettivo che ha coinvolto l’intera popolazione di un villaggio per realizzare e decorare milioni di semi. L’opera è stata oggetto di attacchi di tutti i tipi fra cui l’accusa di un presunto sfruttamento della forza lavoro autoctona mentre l’obiettivo era esattamente l’opposto: porre l’accento sulla unicità irripetibile dell’individuo (unico come ciascun seme realizzato e decorato a mano) posto di fronte all’alienazione della massa, tipico fenomeno della società contemporanea.

Dal 2010 in avanti l’opera è stata riproposta in diverse installazioni dalle dimensioni più ridotte ed è stato aperto il sito www.aiweiweiseeds.com che attraverso testi, fotografie e video, ripercorre la storia espositiva di Sunflower Seeds e raccoglie le recensioni di moltissimi critici e media influenti. La Faurschou Foundation ha creato il sito in collaborazione con l’Ai Weiwei Studio e le istituzioni che hanno contribuito ad esporre quest’opera significativa nelle sue diverse versioni.

Per approfondire:
Video sulla produzione dell’opera con intervista in inglese con sottotitoli in francese https://www.youtube.com/watch?v=PueYywpkJW8
Video dell’inaugurazione alla Tate Modern https://www.youtube.com/watch?v=td3_EKX1Igo

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Ai Weiwei, Sunflower seeds, installazione alla Tate Gallery nell’ottobre 2010. Crediti: shutterstock

La prigionia

L’evento che ha maggiormente segnato la vita e anche l’opera di questo incredibile artista è stata la detenzione illegale alla quale è stato sottoposto nel 2011 per 81 giorni. Il 3 aprile Ai Weiwei fu arrestato all’aeroporto internazionale di Pechino e imprigionato in un posto segreto. Non sapremo mai con esattezza le motivazioni di questo arresto anche se la spiegazione ufficiale data dal Ministero degli esteri cinese fu che l’artista «è indagato per reati economici», precisando che «il suo arresto non ha nulla a che vedere con la questione dei diritti umani o della libertà di espressione».

La prigionia ha cambiato la sua vita e a questa ha dedicato numerose opere, una fra tutte S.A.C.R.E.D. (Supper, Accusers, Cleansing, Ritual, Entropy, Doubt), presentata a Venezia all’interno della chiesa di Sant’Antonin durante la Biennale del 2013. Sei diorami in fibra di vetro e ferro contengono altrettante scene di vita quotidiana del suo periodo di detenzione. Il pubblico può “spiare”, in modo quasi voyeuristico, all’interno dei grandi parallelepipedi neri salendo su di un gradino e guardando attraverso una fessura per scorgere l’artista mentre pranza, mentre dorme, mentre va in bagno costantemente sorvegliato dalle guardie, mentre passa da uno spazio all’altro della prigione scortato, mentre viene interrogato. Gli spazi e le figure sono riprodotte a circa due terzi della grandezza naturale per accentuare il senso di piccolezza di chi vive sotto sorveglianza e il senso di claustrofobia di chi è sempre osservato.

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S.A.C.R.E.D. alla Biennale di Venezia, 2013. Crediti: Wikipedia – Licenza CC-BY-SA

L’esperienza della detenzione lo ha anche portato a scrivere 1000 Years of Joys and Sorrows uscito il novembre scorso, «un libro per raccontare a mio figlio come gli intellettuali e gli artisti cinesi sono sopravvissuti in questo secolo, ma anche per parlare della cultura della Cina e della sua storia millenaria».

Nonostante la prigionia sia durata “solo” 81 giorni, per oltre quattro anni Ai Weiwei è stato privato del passaporto, gli è stata negata la libertà di spostarsi dalla Cina e di viaggiare. Dal 2015, riavuti i documenti, si è trasferito a Berlino, dove ha aperto il suo studio, e ora vive in Portogallo non lontano dall’oceano.

I migranti

Dopo quattro anni di arresti domiciliari, Ai Weiwei ha capito bene cosa significa essere intrappolato, vincolato, frenato, privato della libertà di muoversi, per questo motivo la sua attenzione è stata da quel momento quasi monopolizzata dal tema dei rifugiati.

Ed ecco allora la prima provocazione: nel 2016 sulle spiagge dell’isola greca di Lesbo Ai Weiwei inscena la foto che ha sconvolto tutto il mondo mostrando la morte del bambino siriano di tre anni Aylan al-Kurdi trovato in acque turche. Sdraiato in posizione inequivocabile sulla riva del mare, smaschera l’ipocrisia dell’occidente attraverso l’arte che, come diceva Picasso «è la menzogna che ci permette di comprendere la verità».

Ai Weiwei Libero a Palazzo Strozzi

La facciata di Palazzo Strozzi quando ha ospitato la mostra “Ai Weiwei Libero” (Crediti: gentile concessione dell’ufficio stampa di Ai Weiwei)

Questa volta la critica e la provocazione è rivolta all’Europa e non alla Cina. E così in occasione della grande mostra Ai Weiwei LIBERO a Firenze nel 2016, sulla facciata del piano nobile di Palazzo Strozzi l’artista appende, ben allineati e ordinati, una fila di gommoni rossi, quelli con cui i migranti di tutto il mondo cercano la libertà e spesso trovano la morte. I gommoni si inquadrano perfettamente nell’architettura solida e austera del palazzo rinascimentale e diventano triste decorazione innestata su una struttura preesistente per ricordare contemporaneamente la fragilità della condizione dei migranti nel momento in cui tentano la salvezza su queste leggere imbarcazioni e il difficile tentativo di coloro che riescono nell’impresa di inserirsi nella rigida struttura sociale del paese di arrivo.

Per approfondire:
Documentario di Rai cultura sulla mostra di Palazzo Strozzi
www.raicultura.it/arte/articoli/2018/12/Ai-Weiwei-libero-Un-documentario-9a3d1052-c6f2-4639-ae51-9105f5674598.html
Sito della mostra Ai Weiwei LIBERO: www.palazzostrozzi.org/archivio/mostre/ai-weiwei-libero/

Nello stesso anno le colonne neoclassiche della Konzerthaus a Berlino vengono ricoperte interamente da 2000 giubbotti di salvataggio arancioni in un’opera commemorativa del tragico destino dei migranti morti in mare al largo delle coste europee. Tra le colonne un gommone nero sospeso riporta la sarcastica scritta «Safe Passage».

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La facciata della Konzerhouse di Berlino con l’opera di Ai Weiwei “Safe passage”. (Crediti: gentile concessione dell’ufficio stampa di Ai Weiwei)

Ai Weiwei non è, e non è mai stato, solo un artista, con le sue opere analizza il mondo e cerca di comprenderne le dinamiche, stimola una nuova discussione sull’arte stessa, sulla contemporaneità, sulla politica, sulla società su cosa significhi in definitiva essere un individuo e un essere umano.

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