“Il cinema è falso tramite il vero”. Lo ha detto Paul Valéry, e non possiamo che essere d’accordo. È davvero uno strano paradosso il cinema: anche il più realistico dei documentari è frutto in realtà di una visione soggettiva, di una scelta, di un punto di vista. Tutto è vero e tutto è falso, allo stesso tempo, in un gioco infinito di specchi, di rimandi, di sottintesi. Sta allo spettatore cogliere il filo rosso, trovare la strada giusta, individuare il senso di quanto sta vedendo. Perché, nel gioco a rimpiattino tra vero e falso, si materializzano delle scale, delle priorità. Certi film di propaganda (non importa se di fiction o documentari) “piegano” il vero, lo stravolgono ai loro fini; altri intenzionalmente “leggeri” e alla prima apparenza disimpegnati, possono far emergere significati profondi, influendo in modo sostanziale sul nostro modo di vedere il mondo (Hollywood docet). Non a caso, tra le mille definizioni che sono state date del cinema, una tra le più fortunate e calzanti è quella di “macchina dei sogni”. E in un sogno come si deve, dove finisce il falso e dove inizia il vero?
Effetto notte, di François Truffaut (Francia 1973)
È notte o è giorno? Tra la luce e il buio la contrapposizione è talmente netta da rendere assurda una domanda del genere. Eppure… eppure al cinema è possibile chiederselo. Perché fra i tanti trucchi di quell’onnipotente “mago” che è il regista, c’è anche questo: rendere il giorno… notte! Si chiama, appunto, “effetto notte”. Basta un filtro apposito messo davanti all’obiettivo della macchina da presa (e un direttore della fotografia che conosce alla perfezione il suo mestiere) e il gioco è fatto. In francese si dice “nuit américane”, ed è questo il titolo originale del film di Truffaut. Film che, da quando è stato girato, è diventato l’esempio massimo, sempre citato, di “cinema nel cinema”. Un “meta-film”, dunque, ma senza pedanti intenzioni didascaliche. In realtà, fedele al suo “tocco”, il regista francese parla dell’adorato mondo del cinema attraverso un infinito gioco di rimandi sul set di un film immaginario (“Je vous présente Paméla”). La vita quotidiana della troupe, le idiosincrasie, le bizze delle star, gli intrecci amorosi, gli imprevisti tecnici. È la macchina-cinema nel suo farsi e disfarsi quotidiano, la “realtà vera” (ma tutta ricostruita!) di quell’universo il cui unico scopo è di costruire storie false che abbiano la parvenza del vero. Gira quasi la testa, seguendo questa funambolica “mise en abyme”. Ma più e meglio di ogni saggio, più e meglio di qualsiasi conferenza, emerge, inquadratura dopo inquadratura, il senso del lavoro del regista-demiurgo, di quel padrone assoluto (e insieme fragilissimo) di un mondo evanescente. Più vero della vita, ontologicamente falso. È il cinema, bellezza!
L’uomo che uccise Liberty Valance, di John Ford (Usa 1962)
“Qui siamo nel West, dove se la leggenda diventa realtà vince la leggenda”. E la leggenda dice che il senatore Ransom Stoddard ha ucciso, molti anni prima, il feroce bandito Liberty Valance, un atto che lo ha reso famoso e che gli ha permesso di intraprendere una luminosa carriera politica. La realtà, invece, è stata ben diversa: a far fuori il delinquente è stato Tom Doniphon, un uomo buono e deciso, capace di tenere testa anche ai peggiori avanzi di galera. La verità, però, non è mai venuta alla superficie: è stato proprio lo stesso Tom a chiedere a Ransom di non divulgarla. In quel paese ancora senza legge era importante che si affermassero valori nuovi, e che l’ordine fosse finalmente mantenuto attraverso le leggi e non con la violenza. Due universi, quello del selvaggio West e quello del civilizzato Est che si incontrano, con il secondo che deve subentrare al primo, per rendere possibile il passaggio a una comunità più avanzata e finalmente partecipe a pieno titolo dei nuovi Stati Uniti d’America. I due mondi sono perfettamente simbolizzati dagli interpreti di Ransom e Tom. Il primo, l’eroe dei tempi nuovi, è il “simpatico imbranato” James Stewart, spilungone che sa tutto di codici ma non riesce a maneggiare nemmeno una scacciacani; il secondo, l’anziano guerriero omerico destinato a lasciare il passo ai tempi nuovi, è il grande John Wayne, interprete di tanti film di Ford, quasi una sua proiezione ideale. Dunque, il Falso contro il Vero, la Storia contro il Mito, la Leggenda contro la Realtà. L’Est conquista l’Ovest, la forza bruta cede il passo alla coercizione della legge. Nel passaggio, l’innocenza viene perduta per sempre. Ma è un pedaggio al quale non si può sfuggire.
Il falsario – Operazione Bernhard, di Stefan Ruzowitzky (Austria, Germania 2006)
Un falso ti salva la vita. Ma se il falso serve a chi di vite ne sta strappando a migliaia, a milioni, addirittura fra il tuo stesso popolo? È un dilemma lacerante quello che si pone alla coscienza dell’ebreo austriaco Salomon, abilissimo falsario Imprigionato dai nazisti e deportato nel lager di Mauthausen. Nessuno come lui sa realizzare soldi falsi, e ai suoi carcerieri questa sua straordinaria abilità fa estremamente comodo. Gli alti comandi hanno infatti deciso di “inondare” di sterline e dollari contraffatti i mercati finanziari delle nazioni avversarie, in modo da mettere in difficoltà le loro economie. Ma, in questo modo, la guerra potrebbe volgere a loro favore, o almeno potrebbe ulteriormente prolungarsi, causando la morte di moltissimi altri innocenti. E c’è un altro fatto che rende ancor più atroce il senso di colpa di Salomon e degli altri che lavorano nella sua squadra: i nazisti li hanno divisi dal resto dei carcerati, rendendoli una sorta di casta. Camerate migliori, cibo più abbondante, ambienti di lavoro tollerabili: come giustificare davanti ai compagni più sfortunati un tale trattamento di favore? Come non sentirsi dei traditori? C’è una sola possibilità di non vendere completamente l’anima al nemico: fare finta (una falsità nella falsità!) di lavorare alla produzione di dollari, ma allo stesso tempo rallentare le operazioni, creare delle difficoltà, insomma mettere in atto un boicottaggio, con tutti i rischi mortali che questo può rappresentare. Il film, premiato con l’Oscar per la migliore pellicola straniera, prende spunto da personaggi e fatti realmente accaduti: ancora un gioco verità-falsità, impreziosito dalle realtà romanzate che regista e sceneggiatori hanno scelto per rendere più avvincente la storia raccontata. La realtà, spesso, può superare la fantasia: compito degli autori è renderla “verosimile”. Solo così, in un ennesimo scambio di ruoli tra vero e falso, potrà infine diventare “credibile”.
La banda degli onesti, di Camillo Mastrocinque (Italia 1956)
Dalla tragedia alla commedia, anzi alla farsa. Sempre di soldi falsi si tratta, ma questa volta ad armeggiare in tipografia sono Totò e Peppino… e ho detto tutto! Italia post-neorealista, i ladri di biciclette sono ancora sullo sfondo, la miseria non è un male ancora pienamente estirpato, ma è soprattutto la voglia di divertirsi ad avere la meglio. La sceneggiatura è firmata da due protagonisti assoluti della migliore commedia made in Italy, Age & Scarpelli. Due nomi, una garanzia: abbondanza di situazioni altamente comiche, gag di alta qualità, mai un momento di stanca. Bonocore e Lo Turco, questi i nomi degli improbabilissimi falsari. È Bonocore-Totò, di mestiere portinaio, ad entrare fortuitamente in possesso dei cliché originali della Banca d’Italia e della carta filigranata necessaria per la “produzione” di pregiatissime banconote da 10mila lire. Un mito, a quel tempo: di dimensioni enormi rispetto agli standard dei nostri giorni, erano un vero e proprio oggetto del desiderio per un’umanità ancora spasmodicamente alla ricerca di un modo di far quadrare il lunario. Ma Totò e Peppino (e il terzo sodale, il pittore Cardone, interpretato dall’impareggiabile caratterista Giacomo Furia) sono in realtà troppo brave persone per avere davvero il fegato di spacciare soldi fasulli. Ovviamente, nessuno dei tre trova la forza di dirlo agli altri, temendo di passare per pusillanime. E la trama si complica ancora di più perché, sul mercato, è attiva una “vera” banda, le cui attività finiscono per intrecciarsi con quelle (in realtà solo progettate e mai attuate) dei tre. Soldi falsi, fifa vera: di solito la paura fa 90, questa volta si prende la soddisfazione di fare restare onesti… gli onesti!
F come Falso – Verità e menzogna, di Orson Welles (Francia, Iran, Germania Occidentale 1973)
Un titolo, un programma. Ci voleva il genio di Orson Welles per affrontare la questione senza giri di parole, a partire dal titolo (in originale “F for Fake”). La forma cinematografica scelta dal regista è quella del documentario: il film racconta vita e carriera di un pittore specializzato in falsi d’autore. Volete un Picasso o un Matisse “veri”? In pochi minuti, eccoli apparire sul foglio bianco. E il bello è che alcuni dei migliori critici d’arte del mondo, chiamati a giudicarli, li hanno giudicati autentici! Dunque il confine tra vero e falso è quanto di più labile si possa pensare. Welles si diverte, anche attraverso un montaggio “nervoso”, estremamente spezzettato, a giocare con questo continuo gioco di specchi, con questa infinita impossibilità di tracciare un confine netto tra verità e menzogna. E tuttavia, questa impossibilità non viene vissuta come un limite, come una barriera che impedisce la conoscenza. Si direbbe che per Welles è proprio qui che si nasconde il bello dell’arte, il suo fascino insondabile e insopprimibile: dire il vero attraverso il falso, cogliere l’essenza delle cose mischiando le apparenze. Come un colpo di pennello che, visto da vicino, non significa niente e che invece, se guardato a distanza, si rivela un riflesso, un fiore, un sorriso sul volto di una modella. Così la pittura, così il cinema: spezzoni di realtà mischiati e confusi, che con il ritmo del montaggio e sotto la guida dell’autore diventano realtà altra, verità vera, significato e senso. Un film che fa girare la testa, tante sono le stimolazione che offre ai nostri sensi, le divagazioni apparentemente inessenziali, i fuochi d’artificio di una tecnica registica di livello eccelso. Ma, mentre la testa gira, il cervello lavora: e Orson ci conquista, ci rapisce, ci fa intuire segreti che un attimo dopo diventano di nuovo inafferrabili. Ovvero, per dirla con Picasso, “l’arte è una menzogna che ci fa capire la verità”.
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