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Cinema e follia

“Matti” da segregare lontano dai “normali” o persone da curare e, se possibile, reinserire nella società? Dalla vita reale al cinema, la domanda resta sempre aperta. Il grande schermo ha affrontato innumerevoli volte questa tematica: drammi e tragedie hanno il sopravvento, anche se non sono mancate incursioni nei territori del comico.

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Perdere il controllo della propria psiche. Una possibilità, terribile e spaventosa, a cui tutti siamo esposti. Come nel caso degli incubi, qualcosa che ci sfugge, che rende palpabile la nostra fragilità. E, come nel caso di incubi e sogni, un terreno fertilissimo per la “realtà aumentata” rappresentata dal cinema. Senza vincoli, oltre quelli imposti dalla fantasia degli autori e dai mezzi tecnici a disposizione (diventati peraltro ormai onnipotenti). Dalle immagini cupe e sghembe dei capolavori dell'espressionismo ai deliri psichedelici dei fantasy più sfrenati, il viaggio negli abissi della psiche si è sempre rivelato un territorio privilegiato per il grande schermo. Follia tema eterno, intrecciato a ogni momento della storia, individuale e collettiva. Il cinema, come la letteratura e tutte le altre arti, ne è stato e ne resta un testimone di primissimo piano.  

Un giorno di ordinaria follia, di Joel Schumacher (Usa 1993)

Il “matto” è tra noi. Anzi, è “in” noi. Bill Foster, uomo di mezz’età all'apparenza assolutamente normale, dà fuori di testa. Succede a Los Angeles, in un giorno qualunque. Caldo torrido, una fila interminabile sull’autostrada, la decisione improvvisa e irrazionale di abbandonare l’auto in mezzo alle altre e di andarsene a piedi. Bill non ne può più: dopo aver divorziato, ha problemi con la moglie per vedere la giovane figlia. E oggi è il compleanno della ragazza, che lui vuole incontrare costi quel che costi. Inizia a questo punto un crescendo di “ordinaria follia”, come suggerisce il titolo italiano (in originale era “Falling down”, con riferimento alla perdita della ragione). Prima il furioso litigio con il gestore coreano di un emporio, che si rifiuta di cambiargli una banconota per poter telefonare; poi il malaugurato incontro con due teppisti ispanici, di cui si libera bastonandoli con una mazza da baseball; segue una tremenda sfuriata in un fast food, dopo che i camerieri si sono rifiutati di servigli la colazione per questioni di orario; e ancora lo scontro violentissimo con il gestore nazista di un negozio di articoli sportivi. Sotto la superficie calma di una persona qualunque, ci dice il film, si nasconde il magma di un’eruzione vulcanica sempre possibile. Basta un nonnulla per innescare meccanismi incontrollabili. La nostra società, percorsa da micidiali tensioni, vive sull’orlo del baratro. Se tutto ciò era vero all’inizio degli anni 90 del secolo scorso, figuriamoci ora…

Shining, di Stanley Kubrick (Usa 1980)

Maneggiare con cura. Un film come “Shining” non può lasciare indifferenti. Scava come un tarlo, si infila nella psiche, scova e porta alla luce segreti che vorremmo tenere per sempre nascosti. Storia horror, ambientata in un sinistro hotel di alta montagna, isolato dal resto del mondo. Inquietudine profondissima fin dalla prima inquadratura, con quell’auto vista dall’alto, mentre su strade tortuose si dirige verso la sua meta. Kubrick, che in questo caso porta sullo schermo un romanzo di Stephen King, è stato uno degli indagatori più profondi dell’animo umano, in tutti i suoi film, sempre senza reticenze. È per questo che risulta così profondamente “insopportabile”. Ci mette di fronte a uno specchio, e lo fa in ogni situazione, dallo strazio delle trincee della Grande guerra in “Orizzonti di gloria”, all’angoscia degli astronauti nel lontano futuro di “2001: Odissea nello spazio”, alla violenza bestiale di “Arancia meccanica” e “Full metal jacket”, fino al suo ultimo capolavoro, l’enigmatico “Eyes wide shut”. Sempre uomini e donne sospesi sul Nulla, proprio come in “Shining”. Uno scrittore, la moglie, il giovanissimo figlio. E la follia, che in un crescendo agghiacciante si impossessa del protagonista. Una lunga notte, un lunghissimo inverno, un labirinto di stanze: tutti correlati oggettivi del “mostro” che divora la psiche del protagonista, emergendo dall’abisso. Molto si è scritto di questo film, moltissimo si scriverà ancora. Poche volte il cinema è stato in grado di “fotografare” in modo così accurato la devastazione della mente, insieme al terrore che questo crea nelle persone vicine alla persona colpita. L’alba arriverà, certo, e le luci in sala alla fine si accenderanno. Ma la notte attraversata non sarà più possibile da dimenticare.

Family life, di Ken Loach (Gran Bretagna 1971)

Perché una persona arriva a perdere la ragione? Qual è l’influenza dell’ambiente, della famiglia, della società? Ken Loach ha sostenuto in ogni suo film le ragioni degli ultimi, i diseredati a cui di solito nessuno pensa (tanto nella vita quanto sul grande schermo). Quasi mezzo secolo fa, sull’onda delle nuove idee legate alla rivolta giovanile degli anni 60, dirige questo film di denuncia, con l’intento di demolire un luogo comune sulla follia: i “matti”, differentemente da quanto si pensa, non sono “oggetti” da segregare lontano dai “normali”, da guardare con pregiudizio, da trattare spesso con violenza. Sono persone come noi, donne e uomini le cui vite meritano rispetto e comprensione. Come è il caso della giovane protagonista, desiderosa di uscire dalla grettezza della sua famiglia. Gente povera, che vive del suo modesto lavoro, che ha assorbito dal resto della società una totale mancanza di apertura mentale. I ruoli sono definiti, maschi e femmine si devono comportare diversamente gli uni dalle altre, guai a uscire dai canoni. E così Janice, da ragazza semplicemente “difficile”, inizia un terribile viaggio senza ritorno, che la porterà a essere rinchiusa nell’orrore di un manicomio, come allora si chiamavano gli ospedali psichiatrici. Dopo 50 anni, il film conserva in pieno la sua attualità. Ispirato alle teorie “antipsichiatriche” di Ronald Laing, allora molto dibattute, ci comunica ancora oggi orrore e tenerezza. Orrore per la chiusura mentale che impedisce di capire i meccanismi psicologici della protagonista, chiudendola a poco a poco in una prigione insuperabile; tenerezza per la sua fragilità, che quasi nessuno riesce a comprendere e, soprattutto, a rispettare. Loach, nel frattempo, non ha mai cambiato idea: i suoi film continuano ad avere sempre e soltanto gli “ultimi” come protagonisti.

Matti da slegare – Nessuno o tutti, di Marco Bellocchio, Silvano Agosti, Sandro Petraglia, Stefano Rulli (Italia 1976)

Paolo, Angelo, Marco e tutti gli altri “ospiti” del manicomio di Colorno, in provincia di Parma. Persone di tutte le età, dai bambini agli anziani, uomini e donne, segregate tra le mura del grande Palazzo Ducale, che per decenni ha svolto questo ingrato compito. Ma negli anni 70 del secolo scorso si fanno avanti nuove teorie psicologiche: si è fatto cenno per il film precedente a Ronald Laing; in Italia, particolare rilievo prendono il pensiero e l’opera dello psichiatra Franco Basaglia (1924-1980), impegnato sul campo a trovare nuove vie per curare i malati di mente. Un’opera che ebbe in diversi luoghi il sostegno delle amministrazioni pubbliche. Caso emblematico Parma, la cui Provincia finanziò questo lungo documentario, proprio per far conoscere a un pubblico più vasto la realtà della malattia e degli ospedali in cui veniva trattata. Ne esce un quadro sconvolgente, ma anche una grande speranza. Certo, queste persone incutono timore, se ne vorrebbe stare lontani. Nello stesso tempo, scorgiamo dietro la loro maschera il racconto di vite estremamente tribolate, di esclusioni senza appello, decretate fin dai primi sintomi del disagio psichico. Un documento di umanità estrema, molto legato ai tempi in cui fu realizzato (la grande ricerca di ogni forma di libertà di quegli anni, successivi al movimento del ’68); e tuttavia sempre attuale, in quanto il problema del trattamento della malattia mentale resta sempre aperto. L’importante, sottolineano gli autori, è non dimenticare mai il rispetto per chi si trova a vivere un a situazione simile. Non è mai facile, ma è fondamentale provarci.

Il medico dei pazzi, di Mario Mattoli (Italia 1954)

Sì, è permesso anche ridere. Con Totò anche i temi più difficili possono diventare oggetto di “frizzi e lazzi”, senza cadere nella volgarità. Il grandissimo comico napoletano porta al cinema una delle tante commedie di Eduardo Scarpetta, con situazioni e personaggi tipici delle sue irresistibili farse: il giovane scapestrato, il parente benestante che lo mantiene senza accorgersi di esserne gabbato, un’infinita sequela di buffi equivoci. Dunque, il giovane Ciccillo ha fatto credere allo zio di avere portato a termine con profitto i suoi studi psichiatrici all’Università di Napoli e di essere diventato il direttore di una clinica “per matti”. E quando lo zio, sindaco della lontana cittadina di Roccasecca, arriva sotto il Vesuvio per trovare il nipote, c’è il concretissimo rischio che l’inganno venga svelato. Non c’è che una soluzione: far passare la pensione in cui soggiorna il giovane scioperato per un ospedale vero e proprio. Senza però, e qui sta tutta la sostanza comica, avvertire i veri ospiti dell’inghippo. La matassa si ingarbuglia a livelli inverosimili, con una morale che salta ben presto agli occhi: ognuno, fra tic e manie, ha molto in comune con quelli che di solito vengono considerati “fuori di zucca”. Insomma, il limite tra follia e normalità non è poi così netto. E nessuno, meglio di Totò con la sua straordinaria maschera, può “danzare” sul sottile confine che separa questi due mondi.

Crediti immagini: Peter Zurek - Shutterstock

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