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Storia dell'arte

Il cinema che racconta la Shoah

Prima, durante e dopo la Shoah: il cinema di oggi fornisce uno sguardo retrospettivo sulla tragedia, ma alcuni film l’hanno anticipata e anche favorita, come un film antisemita tedesco del 1940. 

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Prima, durante, dopo. La Shoah, lo sterminio di milioni di ebrei durante la Seconda guerra mondiale da parte dei nazisti e dei loro alleati, è stata una tragedia talmente grande da suscitare totale sgomento. Al di là delle assolutamente giustificate reazioni emotive, è però necessario tentare di metterci, ottant’anni dopo, nell’atteggiamento dello storico. E dunque chiederci: com’è stato possibile che tutto ciò sia stato messo in opera da uno dei popoli più civili del mondo (il “Prima”). E come è stata organizzata questa imponente, satanica “impresa ingegneristica” che aveva come unico scopo la morte di civili inermi? (il “Durante”). E infine, come è stato possibile ricostruire i fatti, visto che alla fine della guerra i nazisti hanno cercato in tutti i modi di nascondere l’enormità dei loro crimini? (il “Dopo”). Il cinema, per sua natura (emotiva) non è il mezzo migliore per fare storia: la propaganda se n’è impossessata fin dai primi anni della sua invenzione, e lo ha utilizzato per i suoi scopi. Tuttavia alcuni film ci permettono di osservare “attraverso” le immagini e le trame. Ad esempio, i film a soggetto promossi dai capi nazionalsocialisti ci possono far capire come la psiche dei comuni cittadini tedeschi sia stata deviata, rinforzando l’antisemitismo latente presente da secoli. I documentari ci presentano la crudezza intollerabile delle immagini, diventando (nonostante possibili manipolazioni, mai interamente da escludere) vere e proprie fonti. E poi c’è la Memoria, che a ottant’anni di distanza non deve cadere: e per questo ci possono essere d’aiuto i tanti film (di cui daremo solo due esempi) usciti negli ultimi decenni.

Il trionfo della volontà, di Leni Riefenstahl (Germania 1935)

Nazismo tedesco, fascismo italiano e comunismo sovietico almeno su un punto si sono sempre trovati d’accordo: la fondamentale importanza della propaganda. E tra i mezzi usati, uno di importanza primaria è stato proprio il cinema (insieme alla radio). Per capirne in pieno il motivo, è necessario immergersi nel clima di quegli anni. Il cinema rappresentava ancora una forma di espressione dalla forza travolgente: un’arte giovane, da “assorbire” in una sala buia, capace di penetrare nell’inconscio dello spettatore e di smuoverne le più profonde emozioni. Per quanto riguarda la Germania nazista, la regista Leni Riefenstahl, vicinissima a Hitler, fu l’interprete ideale di questo uso senza scrupoli del cinematografo. Artista dalle capacità tecniche straordinarie, si lanciò nel culto assoluto del Capo, nella fabbricazione della mitologia del nazismo, esaltandone la sua componente epica, eroica, classica. In questo documentario, dedicato al gigantesco Raduno del Partito nazionalsocialista dei lavoratori, organizzato a Norimberga dal 4 al 10 settembre 1934, vediamo all’opera la straordinaria forza dell’”immagine in movimento”. Il Capo Supremo che arriva in aereo dal cielo, come un novello dio pagano, le masse esultanti e adoranti, le migliaia e migliaia di persone in divisa, le coreografie perfette, l’uso delle luci. Immagini dal fascino perverso, che ci fanno capire come la macchina propagandistica di Hitler e dei suoi collaboratori non avesse praticamente nessuna possibilità di essere contrastata.
Ps: sempre di Leni Riefenstahl può essere molto istruttivo anche vedere alcune parti di Olympia, uscito nel 1938 e dedicato ai Giochi Olimpici di Berlino del 1936. La bellezza dello sport e il gigantismo dell’organizzazione ancora una volta magnificano la perfezione del regime hitleriano.

Süss l’ebreo, di Veit Harlan, Germania 1940

Mentre i documentari della Riefenstahl esaltano senza mezzi termini, e con grande perizia tecnica, le realizzazioni della Germania nazista, ci sono stati altri film che in maniera più subdola si sono rivolti agli spettatori per condizionarne le opinioni, manovrandole in modo potremmo dire subliminale. È il caso di questo film a soggetto, che ebbe un grandissimo successo di pubblico. In realtà, la vicenda si svolge nella Germania del  XVIII secolo, e dunque non sembrerebbe avere nulla da spartire con i tempi del nazismo. E invece, guarda caso, l’ebreo del titolo è un losco individuo che, dopo aver raggiunto posizioni di grande potere a Stoccarda, ne approfitta per arricchirsi smodatamente, sfruttando il popolo e macchiandosi di odiosi delitti. Ovvio, quindi, che alla fine i sudditi si ribellino, scacciandolo e facendolo condannare. Prendendo e stravolgendo ai propri fini una storia del passato, ecco dunque apparire il vero scopo del film: attizzare l’antisemitismo (da sempre presente in molti Paesi europei) presentando gli ebrei, tutti gli ebrei, come nemici della brava gente comune. Dal ’40 al ’43 il film venne visto nella sola Germania da circa venti milioni di persone: lo scopo di Goebbels, il potentissimo ministro della Propaganda del Terzo Reich che aveva chiesto di produrre pellicole dalle “forti connotazioni razziali”, era così raggiunto.
Ps: ovviamente, il film va visto SOLO DOPO un’accurata presentazione storica.

Shoah, di Claude Lanzmann, Francia 1985

Ci siamo dedicati al “Prima”, ora dobbiamo guardare in faccia l’orrore: è il momento del “Durante”. Il documentario del regista francese Claude Lanzmann è un’opera assolutamente unica e gigantesca. Non mostra immagini di morte, ma fa rivivere il meccanismo infernale dei campi di sterminio attraverso decine e decine di testimonianze. Ma non solo di sopravvissuti, come sarebbe normale aspettarsi: parlano anche i carnefici, a partire dalle SS, insieme a semplici “spettatori”, come ad esempio i contadini polacchi che vedevano passare vicino alle loro fattorie i treni carichi di ebrei provenienti da tutta Europa, incrociando i loro sguardi con quelli dei deportati. Incredibilmente l’effetto è di gran lunga superiore a quello delle semplici immagini: le testimonianze raccolte da Lanzmann (che, di origine ebraica, fu un protagonista della Resistenza francese) ci fanno davvero conoscere l’indicibile “normalità quotidiana” di quello che è potuto accadere nel cuore della nostra civilissima Europa. In realtà, vedere tutto il documentario è impresa difficile, vista la sua durata di quasi 10 ore. Ma può bastare anche soffermarsi su alcune parti, riflettere sui racconti, discutere insieme delle cose terrificanti che si sentono. Insomma, Shoah è davvero il film “definitivo” sullo sterminio degli ebrei da parte dei nazisti e dei loro complici. Considerata la sua importanza, il film è stato iscritto lo scorso anno nel Registro Mondiale della Memoria dell’Unesco.

Il pianista, di Roman Polanski, Gran Bretagna, Francia, Polonia, Germania 2002

Ancora un “Durante”: la storia (incredibile ma vera) di un giovane e talentuoso pianista ebreo polacco che, allo scoppio della Seconda guerra mondiale, vede di giorno in giorno aumentare le persecuzioni nei confronti del suo popolo. Prima la coercizione all’interno del Ghetto di Varsavia, dove le condizioni di vita diventano sempre più impossibili, poi la deportazione verso i campi di sterminio di conoscenti e famigliari. Ma lui, per una serie di casi fortuiti, riesce sempre a nascondersi e a salvarsi, aggirandosi come uno zombie per le strade del Ghetto, alla ricerca di qualcosa da mangiare. Il film di Polanski, che sperimentò in prima persona gli orrori della persecuzione nazista (nella città di Cracovia), resta come sospeso tra questa “cascata di orrori” e il potere salvifico dell’arte. Il protagonista non smette mai di credere nella musica, non smette mai di affidare al pianoforte e agli amatissimi brani classici i suoi sentimenti, anche quando sembra davvero che ogni via d’uscita sia sbarrata. E sarà proprio la musica a salvarlo: perché anche un ufficiale nazista verrà conquistato dalle sue note, permettendogli di salvarsi. Ma il ricordo delle sofferenze subite non potrà mai essere cancellato, così com’è stato nella vita di Polanski, che perse la madre ad Auschwitz, mentre il padre riuscì miracolosamente a sfuggire alla morte nel lager di Mauthausen.

La verità negata, di Mick Jackson, Gran Bretagna, Usa 2016

È il momento del “Dopo”. In questo caso, però, ci riferiamo a una problematica estremamente inquietante che si è sviluppata negli ultimi decenni, a mano a mano che gli eventi storici stanno diventando più lontani: la messa in discussione, in vari termini e in vari gradi, della Shoah. Per spiegarci: alcuni autori, fra i quali lo storico britannico David Irving, in certi momenti della loro produzione libraria, sono giunti a mettere in dubbio l’esistenza delle camere a gas e il numero delle vittime. E proprio a un processo relativo a Irving è dedicato il film di Jackson. La storia, oltre che inquietante, è curiosa. Perché in realtà a sentirsi “offeso” fu proprio Irving, che nel 1996 accusò la storica ebrea americana Deborah Lipstadt di averlo diffamato definendolo “negazionista”. Nel 2000 si arrivò in tribunale, a Londra, per un procedimento legale che durò quattro mesi e fu, ovviamente, molto seguito dai mass media. Alla fine, Lipstadt vinse su tutta la linea: al suo libro che racconta le varie fasi del dibattimento si attiene il regista, spinto dalla volontà di non lasciare alcuno spazio a chi vuole “negare la verità”, come sottolinea il titolo italiano. Nel frattempo, il 30 luglio 2021, il Presidente americano Joe Biden ha nominato Deborah Lipstadt Inviato speciale degli Stati Uniti con il compito di monitorare e combattere l’antisemitismo.


Crediti immagine: Peter Zurek – Shutterstock

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