Un secondo “sezionato” in 24 immagini. Sta in gran parte qui la ragione dell’amore a prima vista tra cinema e sport: la possibilità di far vedere “ciò che l’occhio non vede”. La scomposizione del gesto atletico, la possibilità inusitata di osservare particolari nascosti, la meraviglia di fronte alla bellezza dei muscoli in movimento. E poi le storie: nulla è affascinante, intrigante, coinvolgente come la competizione sportiva, contro gli altri e contro se stessi. E dunque, dai vagiti dei fratelli Lumière fino al diluvio di megapixel dei nostri giorni, lo sport è stato protagonista sul grande schermo. In forma diretta (documentari, cinegiornali, cronache olimpiche) ma anche come “sfondo” ideale su cui inserire altri racconti, compresi quelli che s’intrecciano con la Grande Storia.
College – tuo per sempre, di Buster Keaton e James W. Horne (Usa 1927) Il biglietto d’ingresso al cinema muto lo stacca Buster Keaton. È senz’altro un’impresa non banale convincere gli studenti a vedere un film in bianco e nero, e per di più senza parole. Ma Buster è tra i pochi che possono aiutare i docenti nell’impresa. Scavezzacollo, corpo di gomma, faccia imperturbabile: è talmente “fuori” da essere in qualche modo sempre “dentro”, perennemente attuale. Vedere e rivedere, per credere, le sue performance allo stadio, prima con il baseball e poi con le varie discipline dell’atletica leggera, tutte finalizzate a far bella figura davanti ai compagni del college e, soprattutto, all’amata da conquistare. Buster unisce l’estrema agilità con il massimo dell’imbranatezza, i desideri d’onnipotenza con la realtà di una totale, scoraggiante sprovvedutezza. Raramente fa ridere a crepapelle, ma costantemente riesce a far sorridere. È un tenerone da amare, da difendere contro i pericoli del mondo. È quel noi nascosto di cui temiamo in ogni momento la (disastrosa) epifania. È il più moderno degli attori-registi del muto, capace di usare lo sport come strumento ideale per mostrare la scoraggiante complicazione del mondo.
Momenti di gloria, di Hugh Hudson (Gran Bretagna 1981) Ancora un college, questa volta nella prestigiosa Cambridge, all’inizio degli anni Venti del secolo scorso. Da lì a poco, nel 1924, si disputeranno le Olimpiadi di Parigi, una straordinaria occasione per mostrare al mondo l’eccellenza sportiva degli studenti-atleti. Due in particolare sono al centro del film, entrambi con una motivazione specifica che li spinge ad eccellere nella propria disciplina: uno è un giovane ebreo, animato dal desiderio di rispondere a tutte le umiliazioni subite a causa della sua origine; l’altro un protestante scozzese, fervido credente, convinto che Dio voglia da lui il meglio in ogni campo, compresa la corsa. Sport e fede, sport e razzismo, sport ed emancipazione. Se è vero che una volta arrivati sul campo di gara solo i risultati contano, è altrettanto vero che il cammino individuale per raggiungerli permette di ampliare lo sguardo oltre la mera competizione. Fascino spettacolare delle gare e matura profondità della riflessione: l’amalgama è perfetto.
Quando eravamo re, di Leon Gast (Usa 1996) Un eroe moderno di nome Muhammad Alì. Un pugile favoloso, uno dei più grandi eroi sportivi di ogni tempo, degno di un’ode di Pindaro. Nato povero con il nome di Cassius Clay, bello come un Dio dell’Olimpo, costretto fin da bambino a difendersi con i pugni da chi gli rinfacciava la sua pelle nera. Il documentario di Leon Gast ricorda questi inizi difficili, facendo parlare la madre del campione. Ma è solo un’informazione aggiuntiva, rispetto al vero centro di gravità del film: l’indimenticabile incontro pugilistico di Kinshasa, il 30 ottobre del 1974, fra lo stesso Alì e il campione del mondo in carica dei pesi massimi, il possente George Foreman. Molto, molto più di un match: sul ring della capitale dello Zaire si scontrano due concezioni dello sport, e anche della vita e del mondo, antitetiche. Foreman è il campione riconosciuto, il pugile di colore che rispetta le regole; Alì è il “pazzo” che ha passato anni in prigione e che è stato privato del titolo mondiale per essersi rifiutato di andare a combattere in Vietnam. E la folla africana lo elegge subito a suo eroe: vede in lui il simbolo del riscatto contro i simboli del colonialismo, la metafora di una rinascita attesa da sempre. Poi arriva l’incontro, uno dei più spettacolari mai combattuti, con Alì per molti round alle corde, a un passo dall’essere messo al tappeto. Ma gli dei non perdono: con un guizzo prodigioso, quando tutti lo danno per sconfitto, prende il sopravvento, mettendo knock out l’avversario. E mandando in delirio la folla.
Invictus, di Clint Eastwood (Usa 2009) Dallo scontro alla collaborazione. Dall’odio al rispetto reciproco. Il Sudafrica dei primi anni 90 del secolo scorso è un Paese assolutamente in bilico: la maggioranza nera ha finalmente potuto eleggere il “suo” presidente, Nelson Mandela, sconfiggendo l’odiato apartheid, ma i rischi di uno scontro totale non sono affatto scongiurati: anzi, sono in molti fra i neri a desiderare la rivalsa, mentre la minoranza bianca si sente minacciata ed è intenzionata a difendersi fino alla morte. Solo Mandela può avere l’idea giusta, solo lui può permettere al “Sudafrica arcobaleno” di prendere la strada della riconciliazione. Inopinatamente, questa strada passa proprio per lo sport: i neri adorano il pallone, mentre i bianchi vanno pazzi per il rugby. E visto che si sta per disputare, proprio in Sudafrica, la Coppa del mondo di rugby, perché non sfruttare l’occasione suscitando un corale sentimento di appartenenza per la propria Nazionale? Impresa sulla carta impossibile, perché i neri il rugby lo odiano, visto che questo sport è diventato nei decenni uno dei simboli dell’apartheid. Il film di Eastwood è la storia di un’alleanza sulla carta impossibile, quella fra l’anziano presidente nero e il giovane capitano bianco della Nazionale, che comprende subito l’importanza cruciale della posta in gioco. Vincere la Coppa sembra un progetto temerario, vista la forza degli avversari. Mai dire mai, chioserebbe James Bond: e mentre la squadra, passo dopo passo, si avvia alla finale contro i mitici All Blacks neozelandesi, tutto il Paese, bianchi e neri, si unisce intorno ai giocatori. Lo sport, per una volta, è riuscito a diventare il motore della (buona) politica.
Rush, di Ron Howard (Gran Bretagna, Germania 2013) Ancora un duello, ancora una rivalità sfrenata, che travalica i confini dello sport. James Hunt contro Niki Lauda, due grandissimi piloti che hanno segnato la storia della Formula 1. Il primo, inglese, bello come un eroe omerico, è tutto genio e sregolatezza: al volante dà sempre il massimo, sfidando la morte letteralmente ad ogni curva, mentre nella vita di tutti i giorni si abbandona con assoluta, giovanile incoscienza ad ogni sorta di piacere. Il secondo, austriaco di ricchissima famiglia, guida altrettanto bene, ma ha fatto della regolarità e del dovere i suoi principi base. Ha inoltre un asso nella manica: sa “lavorare” sulle macchine, migliorandone in modo stupefacente le prestazioni. Il film racconta vite private ed epiche corse in macchina, concentrandosi soprattutto sul 1976, l’anno in cui Lauda rimane vittima di un gravissimo incidente, che gli deturpa per sempre il volto. Nessuno scommetterebbe più niente sul suo futuro agonistico e invece, dopo poco più di un mese, eccolo di nuovo in gara. Il duello si ripete ogni volta, fino all’ultimo Gran Premio della stagione: gli spettatori sanno come andò a finire, eppure la suspense è altissima, come se quella gara si ripetesse ex novo davanti ai nostri occhi. Lauda-Hunt, vita e sport, gioventù, amori e rabbia di vivere, ragionevolezza e incoscienza. La Formula 1 come metafora di due modi antitetici di intendere l’esistenza.
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