"La figlia bastarda abbandonata dalla scienza sulla soglia dell'arte" (definizione di fine 800)
I detrattori della fotografia furono tanti fra gli artisti in ogni campo. Fra i pittori ci furono anche degli insospettabili che si opposero con forza alla possibilità di accettare l’immagine fotografica come opera d’arte, fra questi anche Boccioni, il fautore del movimento che più di ogni altro inneggiava al progresso e alla tecnologia, alla macchina e alla velocità. Probabilmente però il progresso cui alludeva il futurismo teneva ben distinti i due mondi della cultura umanistica e di quella scientifica ed era ancora legato ad una “antica” visione dell’arte. Nel 1911, commentando il suo stesso dipinto “La strada entra nella casa”, Boccioni si esprime così: “La sensazione dominante è quella che si può avere aprendo una finestra: tutta la vita, i rumori della strada, irrompono contemporaneamente come il movimento e la realtà degli oggetti fuori. Il pittore non si deve limitare a ciò che vede nel riquadro della finestra, come farebbe un semplice fotografo, ma riproduce ciò che può vedere fuori, in ogni direzione, dal balcone”.
Umberto Boccioni, La strada entra nella casa, 1911, Sprengel Museum, Hannover (Wikimedia Commons)
Nelle parole di Boccioni sembra quindi che la fotografia abbia due limiti principali, la possibilità di inquadrare solo una porzione di spazio e la mancanza di interpretazione da parte di chi esegue l’opera, la fotografia si limita a vedere nel riquadro della finestra, il pittore può spaziare da diversi punti di vista e aggiungere particolari e interpretazioni dettate da una più ampia visione.
Questa seconda osservazione si rifà alla critica del maggiore detrattore della fotografia come arte, Charles Baudelaire, che nel suo commento al Salon del 1859 espose le sue ragioni in due motivazioni.
L’arte vera, egli sostiene, è negazione assoluta della naturalità, la fotografia che imita la natura, la ritrae esattamente come è, non può essere arte. La fotografia, sostiene, è la palestra dei pittori mancati, di chi non ha mai avuto talento e di chi non ha avuto costanza negli studi.
La fotografia non può essere arte in quanto non richiede quelle capacità, ideali e mentali, che identificano il vero artista. “È troppo facile come tecnica, troppo realistica nell’effetto e troppo connessa all’industria nella produzione”.
“Da quel momento – quello della nascita della fotografia, scrive nella sua aspra critica alla nuova arte – l’immonda compagnia si precipitò, come un solo Narciso, a contemplare la propria triviale immagine sul metallo.”.
Ma non si può negare che, essendo lui un uomo moderno, subì il fascino di questa novità e non poté esimersi dal farsi ritrarre dai primi noti fotografi fra cui anche Nadar, colui che organizzò e ospitò la prima mostra degli impressionisti nel 1874.
Baudelaire fotografato da Nadar, 1855 (Wikimedia Commons)
Artisticità intrinseca della fotografia
È evidente come questa critica possa avere un valore solo negli anni in cui è stata espressa e come oggi possa far sorridere visto che appena mezzo secolo dopo tutta l’arte prenderà un’altra direzione nel momento in cui Marcel Duchamp nel 1913 proporrà la sua “Ruota di bicicletta” e comincerà a lavorare con il ready made, il “già fatto” che non necessita di un intervento manuale o di una abilità dell’artista ma solo di una idea, di un concetto. È proprio in questo senso che Claudio Marra, docente di fotografia al Dams di Bologna, sostiene che essa sia intrinsecamente già dadaista. “La fotografia – scrive in Fotografia e pittura nel Novecento. Una storia “senza combattimento” – è estranea al sistema tradizionale delle belle arti; la fotografia non è uno sviluppo della pittura ma anzi a essa si contrappone in modo netto, la fotografia riesce ad interpretare perfettamente quella tipica ansia dadaista tesa a sostituire l’arte con la vita o a rendere arte la vita stessa”. Marra, insomma, analizzando i punti qualificanti la rivoluzione che il dadaismo portò nel mondo dell’arte, sostiene che essi fossero già impliciti nella fotografia. “Il superamento della manualità come verifica e controllo dell’artisticità, l’esibizione diretta del reale senza nessuna manipolazione dell’autore, la convinzione che sia l’atto mentale della scelta a fondare il principio dell’artisticità”. Ecco quindi che quelli che Baudelaire poneva come critiche alla fotografia come arte, qui diventano punti a favore per fondare la sua intrinseca artisticità. Si potrebbe forse sostenere quindi che un secolo prima di Duchamp, Joseph Niépce avesse posto le basi per l’arte concettuale?
Joseph Nicéphore Niépce, Veduta della finestra a Le Gras, 1826 (Wikimedia Commons)
Le critiche di oggi
Elencando le motivazioni che hanno spinto tanti a screditare la fotografia come arte e che ancora oggi risultano nodi intorno ai quali il mercato si trova a girare, non si può non citare la riproducibilità. Di questo tema si occupava già Walter Benjamin nel saggio del 1936 “L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica” Secondo Benjamin, tecniche come il cinema, il fonografo o la fotografia rendono non più applicabile la concezione tradizionale di “autenticità” dell'opera d'arte. A causa di questa mancanza si realizza ciò che Benjamin chiama la “perdita dell'aura” dell'opera d'arte. L'aura (concetto che per altro Benjamin elabora partendo da un'intuizione di Baudelaire) è una sorta di sensazione di carattere mistico suscitata nello spettatore di fronte all’originale di un’opera d’arte. Con la perdita dell'aura, e quindi del suo carattere di sacralità (o, per usare l'espressione di Benjamin, il suo aspetto “cultuale”), l'arte del ‘900 si pone come nuovo obiettivo di cambiare la vita quotidiana delle persone, influenzando il loro comportamento. L’arte avrebbe in questo senso quindi un ruolo politico e non più estetico nella società contemporanea e questo potrebbe spiegare la sensazione diffusa per cui alla fotografia viene dato un valore diverso e spesso inferiore rispetto alle arti più tradizionali come pittura e scultura. Infine oggi si pone anche un nuovo interrogativo che spiega bene Roberta Valtorta, direttrice del Museo di Fotografia Contemporanea di Cinisello Balsamo, in un’intervista alla rivista Multiverso. “Forse siamo davvero di fronte a un nuovo modo di comunicare, non strutturato, né organizzato e né soggetto alle regole alle quali ci siamo abituati nei secoli. Quello che ha fatto la fotografia fino a vent’anni fa non è altro che la continuazione di quello che faceva l’arte precedente, salvo episodi. Adesso, invece, c’è una reale spaccatura, c’è la possibilità di parlare attraverso l’immagine continuamente, in ogni luogo, condividendo ogni tipo di comunicazione, utilizzando l’immagine in ogni modo, rilanciandola in tutte le vesti. È un fenomeno tutto nuovo, sconcertante. Non so se riusciremo a costruire un nuovo alfabeto, sicuramente il rischio di annegare in questo mare c’è. Non penso nemmeno che si possano utilizzare le regole che abbiamo studiato per capire le immagini, c’è davvero la necessità di un’altra dimensione per analizzare il fenomeno”. La contemporaneità dell’immagine, spiega ancora, non sta più nella sua fisicità, e la fotografia non avrà forse più bisogno di abitare in un luogo specifico quale il museo. Oggi poi anche la figura del fotografo viene piano piano cancellata. Nasce una sorta di operatore dell’immagine che si muove tra fotografia digitale, video e tecnologie, sia in campo artistico che professionale che non sono più così separati fra loro. Insomma l’interrogativo che si pone oggi è “siamo di fronte ad una nuova estetica o di fronte alla perdita dell’organizzazione formale della comunicazione?” E che ruolo ha la fotografia e l’utilizzo che dell’immagine fotografica si fa attraverso tutti i mezzi di comunicazione offerti dalla rete e dalle nuove tecnologie? Parallelamente, e forse proprio a causa di questo uso allargatissimo dell’immagine e della fotografia, c’è anche chi obbietta che essa non sia un’arte in sé stessa ma semplicemente un mezzo per l’arte perché la tecnica fotografica può essere padroneggiata da tutti ma non tutti coloro che possono padroneggiare la tecnica sono artisti. Ma questo, si può obiettare, è evidente e perde completamente di significato sempre a patire dallo stesso 1913 quando, appunto, Duchamp espose come opera d’arte una ruota di bicicletta. È certo che da quel momento in poi l’artisticità non risiede nella tecnica, nella capacità o nel mezzo, che non vada perciò ricercata nell’esito formale ma nell’idea e nella persona. In questo senso che si tratti di fotografia, pittura, scultura, video sono tutti alla pari linguaggi per l’arte e non arte essi stessi. L’affermazione che facevano i detrattori della fotografia a metà ottocento quando sostenevano che non necessitando di abilità e capacità particolari non potesse essere considerata arte non appare quindi molto distante da quella che in tanti fanno oggi davanti a gran parte dell’arte contemporanea “lo potevo fare anch’io!”.
Per approfondire il ruolo della fotografia nella società contemporanea qui si trovano le videointerviste a Roberta Valtorta, direttrice del Museo di Fotografia Contemporanea di Cinisello Balsamo
www.multiversoweb.it/incontri/la-fotografia-nell%E2%80%99arte-e-nella-societa-contemporanea-3652/