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La violenza di genere raccontata nel cinema

Luigi Paini propone una rassegna di cinque film che hanno saputo raccontare la violenza sulle donne mantenendo un grande rispetto per le vittime di quelle violenze. Si parte da un film recente, Vermiglio di Laura Delpero e si arriva a Spielberg, passando anche per un classico del neorealismo e per due film girati quando il cinema non era ancora sonoro.

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Ecco un tema fondamentale che attraversa tutta, ma proprio tutta la storia del cinema. Ma attenzione:  il grande schermo molte volte privilegia il lato puramente spettacolare, quando non brutale, delle storie che racconta. E dunque, nella scelta dei titoli dobbiamo fare estrema attenzione, privilegiando gli autori che hanno mostrato profondo rispetto per le vittime, riuscendo spesso a creare veri capolavori. Partiamo dal presente, dal bellissimo Vermiglio di Laura Delpero; non indichiamo C’è ancora domani solo perché lo abbiamo inserito nel precedente numero di Aula di Lettere, dedicato alla speranza, ma ovviamente merita un posto d’onore anche in questo caso.

E ne approfittiamo per andare a ritrovare due pellicole di importanza capitale, girate nella remota epoca del muto. Per vederle occorre prepararsi, sapersi aprire a una vera e propria scoperta. Giglio infranto e La passione di Giovanna d’Arco dimostrano come il cinema, già nei suoi primi anni, sapesse sperimentare nuove forme espressive, suscitando profondissime emozioni. E chiudiamo con un inno alla speranza, Il colore viola di Steven Spielberg.

Vermiglio, di Laura Delpero, Italia 2024

Iniziamo da un film recentissimo. E subito ci troviamo spiazzati: la violenza contro le donne, in questa meravigliosa pellicola, non è esplicita, gridata, “spettacolarizzata”. Si tratta in realtà di una oppressione quotidiana, vissuta come “naturale” nella società contadina descritta dalla regista. Una società e una cultura che possedevano anche, e in alto grado, elementi positivi: un forte senso di comunità, l’aiuto reciproco, il senso del dovere e della fatica quotidiana. Ambientato nel villaggio trentino del titolo, verso la fine della Seconda guerra mondiale, il film riesce però a scavare sotto la superficie, mostrando come il ruolo della donna, in quel mondo, fosse in molti casi schiacciato, considerato di “serie B” (vedi la moglie del maestro, sempre incinta e costretta all’obbedienza). Ma poi avviene un fatto nuovo, che smaschera definitivamente questa subordinarietà femminile. Un soldato siciliano in fuga nasconde di avere già una moglie, sposa la giovane protagonista che lo ha aiutato e si è innamorata di lui, abbandonandola incinta. La colpa è dell’uomo, ma le conseguenze ricadono sulla ragazza. Sarà lei a pagare il prezzo, benché del tutto innocente. Le regole del gioco, allora, erano queste. E adesso?

La ciociara, di Vittorio De Sica, Italia 1960

Qui si racconta una storia atroce. Impossibile trattenere le lacrime, impossibile resistere alle emozioni suscitate dalla vicenda e dall’interpretazione di Sophia Loren. Siamo anche in questo caso durante la Seconda guerra mondiale, ma questa volta nel Lazio. Una giovane donna sfollata da Roma con la figlia, per allontanarsi dai pericoli rappresentati dai bombardamenti degli aerei alleati. Non sa, non può sapere che la sua decisione avrà conseguenze terribili. I tedeschi sono in ritirata, stanno arrivando i soldati liberatori, e tutto dunque sembra volgere, finalmente!, per il meglio. Ma i soldati marocchini aggregati all’esercito francese sono assetati di vendetta, nessuno può (o vuole…) arrestare la loro furia. Le due donne vengono dunque prese e violentate proprio da chi doveva portare la pace. Una beffa atroce, un destino tragico raccontato, prima del film, dal celebre romanzo omonimo di Alberto Moravia. Il merito straordinario di De Sica è di non spettacolarizzare mai la violenza, di riuscire a farne provare ribrezzo negli spettatori. Non ci sono insistenze morbose: sulle tragedie non si gioca, non si può fare della retorica. De Sica, maestro del neorealismo, tratta con rispetto e pietà una materia così angosciante. E Sophia Loren qui non è più la “maggiorata” di tante commedie all’italiana: è una donna vera, travolta insieme alla figlia da una violenza insensata.

La passione di Giovanna d’Arco, di Carl Theodor Dreyer, Francia 1928

Un “film monumento”. Siete pronti per la visione di una pellicola che ha cambiato la storia del cinema? Per avvicinarsi a un’opera come questa occorrono pazienza e rispetto. Pazienza perché siamo di fronte a immagini in bianco e nero e a ritmi narrativi  totalmente “fuori scala” rispetto ai nostri punti di riferimento; rispetto perché Dreyer ci conduce nel territorio del Sacro, un universo di una profondità quasi insondabile. Giovanna d’Arco è una fanciulla qualunque, che gli avvenimenti storici portano ad azioni che mai avrebbe pensato di essere in grado di sostenere. Lei, fragile adolescente, si trova alla guida di un esercito; lei, svillaneggiata e schiacciata da un potere senza misericordia, trova la forza di resistere e di affrontare il rogo. Il regista insiste in una serie di straordinari primi piani, “imponendo” sul grande schermo il suo volto e quello dei carnefici. Angosciata ma mai vinta lei, sadici e perversi gli altri. Uomini senza pietà, spinti da un furore religioso che ricorda, purtroppo, quello di molte vicende a noi contemporanee. E dunque la visione attenta (e attentamente preparata) di un film come questo risulta illuminante anche sul tempo presente. Dietro il paravento di ideologie ammantate dei migliori principi può nascondersi spesso la peggiore intolleranza: Giovanna subisce la violenza degli uomini, ne viene uccisa in modo barbaro. Ma è lei, nella nostra coscienza, a uscirne per sempre vincitrice.

Giglio infranto, di David W. Griffith, Usa 1919

Ancora un “tuffo archeologico” nel cinema muto. Griffith è addirittura il regista che, più di chiunque altro, ha “creato” il linguaggio cinematografico: le sue storie sono sempre avvincenti, riesce a intrecciare vicende che si svolgono in momenti diversi, senza che lo spettatore perda il filo della narrazione (sembra facile…), sa costruire finali “all’ultimo respiro”, ponendo l’eroe/eroina in situazioni di pericolo e facendoci aspettare spasmodicamente un’azione salvifica da parte dei “buoni” (in termini tecnici si chiama “last minute rescue”). Tutte queste meravigliose tecniche sono impiegate dal regista per farci immedesimare nelle peripezie della protagonista: una povera ragazza oppressa da un padre alcolizzato, un vero e proprio bruto. Siamo a Londra, nei primi anni del ‘900, e la vicenda è ambientata nei quartieri più miseri della capitale britannica. Per i poveri non c’è speranza, e ancora di meno per una donna povera. Un immigrato cinese, di religione buddista, cerca di offrire un destino diverso alla ragazza, ma inutilmente. Griffith non confeziona nessun happy end. Allo spettatore resta solo il dolore per la sorte del “giglio infranto” del titolo, interpretato da una grandissima attrice del “muto”: Lillian Gish, figura mitica del cinema di quegli anni.

Il colore viola, di Steven Spielberg, Usa 1985

Dopo tante tragedie, concludiamo con la riscossa di una donna (e con tutta la potenza della regia di Steven Spielberg: colore, ritmo, colonna sonora, grandi protagonisti). Seguiamo la vita durissima di Celie, da quando ragazzina afroamericana viene maltrattata all’estremo dalla brutalità dei maschi, negli Stati Uniti dei primo Novecento, fino a quando, ormai adulta, ritrova la vita e la serenità grazie all’amicizia e alla complicità di un’altra donna di colore. Tratto da un romanzo di grande successo di Alice Walker, il film ha tutte le caratteristiche di un grande film made in Hollywood. Le peripezie sono continue, le possibilità di salvezza molte volte si riducono praticamente a zero, eppure la vitalità di Celie finisce sempre per avere la meglio. Sullo sfondo un’America gretta, pervasa dal razzismo contro i neri e dalla cultura prevaricatrice dei maschi: padri, fratelli, mariti, amanti, non se ne salva davvero praticamente nessuno. Ma al cinema tutto è possibile, e Spielberg è un maestro nel farci credere l’impossibile. Una cosa importante, quando il messaggio veicolato è quello della speranza: è stato così per tanto, troppo tempo, ma non è affatto detto che debba essere sempre così. Se ce l’ha fatta Celie, allora tutte, ma proprio tutte le donne ce la possono fare.


Crediti immagine: Peter Zurek – Shutterstock

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