Nei libri di scuola il 1989, anno della caduta del Muro di Berlino, coincide con la data in cui si fa iniziare la globalizzazione. L’inarrestabile corsa, messa in moto dall’apertura dei mercati, dalla circolazione delle informazioni e dalle innovazioni tecnologiche che hanno cambiato il mondo, conosce il proprio avvio alla fine degli anni Ottanta, con la crescita delle banche americane d’investimento e l’ascesa dell’oriente con Corea del Sud, Taiwan, Singapore e Hong Kong in prima linea, seguite dallo sviluppo dell’India e dall’incredibile trasformazione della Cina, il gigante che esce da quattro secoli di sonno. Nessuno aveva mai pensato di poter misurare con grandezze tanto imponenti i flussi di ricchezza che la globalizzazione riesce a muovere. Essa ha realizzato una sorta di corto circuito fra spazio e tempo, riducendoli entrambi a una dimensione piatta, assoggettata all’esclusiva logica di calcolo. In questo panorama di fine millennio si trovano, e si rinnovano completamente, i mezzi di comunicazione, i mercati e la produzione delle merci. Ma c’è un oggetto che ha caratteristiche così uniche che fa fatica ad assoggettarsi alle regole del nuovo mondo globalizzato, o meglio, che all’interno di esso trova regole nuove e proprie: l’oggetto “arte”. Proviamo quindi ad analizzare il rapporto tra arte e globalizzazione da tre punti di vista imprescindibili: la produzione dell’opera, la fruizione e il mercato.
La produzione artistica all’epoca della globalizzazione
I confini, ai nostri giorni, non sono più geografici. La globalizzazione non ha solo riscritto i limiti territoriali e commerciali del mondo, ma ha messo in discussione anche quelli mentali e creativi. Nel 1992 il critico e curatore Jeffrey Deitch inaugura una mostra dal titolo “Post Human” e con questa teorizza l’inizio di un nuovo capitolo dell’arte. Si legge in una sua intervista “Sento che stiamo cominciando una straordinaria rivoluzione nel modo in cui gli esseri umani vedono se stessi. La convergenza tra le rapide evoluzioni nella biotecnologia e nella scienza dei comupter e la rimessa in discussione dei ruoli sociali tradizionali potrebbe condurre a una nuova definizione della vita umana”. Le opere degli artisti che Deitch invita nella sua mostra aprono a nuove domande, si interrogano sui limiti del corpo e dell’essere, e tendono a darne una nuova descrizione nella direzione di una ricostruzione di quell’io che negli anni settanta gli artisti e le opere concettuali avevano distrutto. Raccontano di diversità, di integrazione, di violenza, di nuovi diritti, dell’esistenza insomma, in rapporto alle realtà che la condizionano. Esemplari in questo senso sono le opere del cubano Félix González-Torres, di Jeff Koons, di Nan Golding o di Maurizio Cattelan, per citarne soltanto alcuni.
Parallelamente a questi artisti lavorano altri creativi che della rete e delle nuove potenzialità della comunicazione globalizzata hanno fatto il loro terreno d’azione. La Net Art, che dalla metà degli anni ’90 cominciano a farsi strada, propone opere aperte alla partecipazione degli utenti, in continuo divenire, liberamente riproducibili. Essa è stata capace, prima dei social network, di originare reti creative di persone che si riuniscono intorno all’opera. La Net art ha naturalmente scardinato l’idea di museo come luogo della fruizione dell’opera ma ci sono, anche se sono ancora poche, istituzioni che creano centri di ricerca anche in questa direzione. Il Walker Art Center di Minneapolis, per esempio, ha dato vita nel 2000 al programma "Emerging artists/emergent medium" commissionando lavori di net art a diversi artisti fra cui anche i bolognesi 0100101110101101.org.
La Net art insomma mette in discussione il mondo dell’arte tradizionale a partire dall’autorialità e dal diritto d’autore per arrivare al collezionismo. Ci sono collezionisti che chiedono agli artisti l’esclusiva per alcuni lavori e parallelamente curatori di musei che rivedono il ruolo dell’istituzione nei confronti di queste opere teorizzandone l’importanza in qualità di intermediario culturale e non di custode o conservatore.
La rete ha davvero “democratizzato l’arte”?
Dal punto di vista della rivoluzione che le comunicazioni globali hanno apportato rispetto alla diffusione e fruizione dell’arte, c’è chi parala di “democratizzazione”. Certo tutte le gallerie hanno un sito, così come molti artisti (anche se non ancora proprio tutti), e sicuramente non serve più visitare musei, frequentare gallerie o leggere libri e riviste di settore per venire a contatto con le opere, ma forse non si può parlare di una democratizzazione dell’arte. Per prima cosa perché l’arte non è mai stata oligarchica o elitaria in sé: anche se un certo tipo di collezionismo è appannaggio di chi può permettersi acquisti da milioni di euro, i musei non si sono mai chiusi a nessuno. Certamente ora l’accesso alle opere è più facile, si possono fare visite virtuali al Moma, così come si può fare un safari in Africa dal divano, ma l’emozione di vedere i leoni dal vero è altra cosa. La possibilità di vedere da uno schermo l’opera, leggerne le origini e trovare notizia sull’autore dalla rete, ne facilita l’accesso e forse accresce l’interesse e la curiosità del pubblico verso l’arte. Tuttavia esistono gallerie che hanno “sede” solo sulla rete, un esempio illustre è la saathciart.com, galleria commerciale di proprietà del grande magnate dell’arte Charles Saatchi, scopritore degli Young British Artists e di moltissimi altri nomi che oggi toccano le vette del mercato con prezzi inarrivabili. Esistono poi piattaforme come S[edition] che non si limitano a usare il web come canale di distribuzione di oggetti d’arte fisici. Al contrario, qui il mondo online diventa la destinazione finale: i collezionisti possono acquistare opere d’arte pensate appositamente per essere visualizzate sullo schermo e su diversi device. La scoperta di un artista, le private views, gli acquisti, le vendite e la visualizzazione delle opere: tutto avviene online. Le opinioni di critici e curatori sono ancora molto divise come mostra un bel servizio di Artribune, realizzato nel 2014 (http://www.artribune.com/attualita/2014/07/lopera-darte-nellera-del-commercio-online/). Domenico Quaranta, critico d’arte e curatore, sostiene per esempio che la rete stessa abbia cambiato l’esperienza dell’arte, rendendo la fruizione mediata prevalente su quella diretta. “Anche se non possiamo spiegare con certezza in che modo, è evidente che il ruolo sociale dell’arte sta cambiando grazie alla sua circolazione in forma di codice binario”. Caroline Corbetta, critico e curatrice del Padiglione Crepaccio at yoox.com alla 55esima Biennale di Venezia, sostiene tuttavia che l’arte continui a essere fatta in gran parte di “oggetti specialissimi, dotati di un’aura e di cui, tutto sommato, è sempre meglio fare esperienza dal vivo, piuttosto che vederli su una pagina di un sito o di una rivista”. O ancora Laura Barreca, storica dell’arte e curatrice, riflette su come trasformazioni e criticità intervenute nel mercato dell’arte nell’ultimo decennio siano legate a due questioni fondamentali, la messa in crisi del concetto di autenticità e unicità dell’opera e il venir meno del diritto d’autore. Il risultato, sostiene, è un collezionismo, pubblico e privato, non ancora del tutto fiducioso nel mercato virtuale.
Circolazione e mercato
Se l’avvento di Internet e la globalizzazione delle comunicazioni hanno modificato la fruizione dell’arte, ora dobbiamo chiederci se anche il mercato abbia subito gli stessi cambiamenti, se anche il collezionismo abbia beneficiato delle infinite possibilità dei nuovi media. Certo lo scetticismo all’inizio è stato forte e, se il mercato di altri ambiti della cultura, come per esempio dell’editoria, è stato veramente stravolto dall’ingresso della rete nelle nostre vite, quello dell’arte forse è più duro da scalfire. Sarà perché l’opera d’arte resta un oggetto da vedere, toccare, osservare dal vero, sarà perché “parla” a un senso che non è solo la vista, sarà perché l’opera d’arte va sentita, esperita, amata. Il Sole 24 Ore ha monitorato le grandi case d’asta tradizionale e osservato che hanno investito molto nello sviluppo del web, tanto da portare Sotheby’s, Christie’s ed Heritage Auctions a generare, nel 2016, vendite online aggregate per 720 milioni di dollari. Gli operatori tradizionali si sono quindi velocemente attrezzati per contrastare l’avanzata dei rivali online ma nonostante questo, da un sondaggio di mercato effettuato fra art buyers, galleristi e operatori di piattaforme online, è emerso che una vera e propria migrazione degli acquirenti d’arte verso la modalità online non si è ancora verificata. Perché? Oltre la metà degli intervistati è ancora preoccupato d’incorrere in falsi a causa dell’assenza della verifica materiale dell’oggetto. E così il mercato dell’arte sul web resta attaccato ad una fascia più bassa e funziona come incubatore per nuovi collezionisti che si approcciano al mondo dell’arte e sono disposti a spendere cifre molto piccole, dai 5 mila € in giù. Ecco quindi che online si acquistano soprattutto stampe e lavori in edizione e in misura molto minore dipinti e fotografia. Nella nostra indagine dei rapporti tra arte e globalizzazione è da tenere in considerazione anche il più recente ingresso dei social media, usati come strumenti di sensibilizzazione dalle case d’asta. Se fino al 2016 Facebook e Twitter erano i due canali dominanti, ora è Instagram il preferito. Sotheby’s ha dichiarato che il suo account Instagram è cresciuto del 102% tra il 2016 e il 2017 e oggi conta più di 430mila follower, mentre Christie’s ne ha oltre 267mila. Insomma, il mercato dell’arte si sta adeguando, anche se con regole diverse da quelle delle altre “merci” scambiate online, e nuovi collezionisti e nuovi pubblici possono ora accedere ai luoghi del dibattito artistico ufficiale, ma sarà vero che “esistere” è diventato sinonimo di “esistere online”?