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Storia dell'arte

L’arte della Memoria. La Shoah nell’arte e nell’architettura contemporanea

Esiste l'arte dopo Auschwitz? In questo percorso vediamo alcuni esempi di arte (sculture e architetture in particolare) sorti da una profonda riflessione sui drammatici eventi della Seconda Guerra Mondiale: il Museo Ebraico di Berlino, i Monumenti alle vittime ebraiche di Vienna e Berlino, l'installazione "Personnes" di Parigi

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Il 27 gennaio il mondo si ferma per ricordare l’Olocausto, uno dei peggiori crimini nella storia dell’uomo. Secondo il filosofo tedesco di origine ebraica Theodor Wiesengrund Adorno, «dopo Auschwitz, nessuna poesia, nessuna forma d’arte, nessuna affermazione creatrice è più possibile»: troppo grande è stato l’orrore della Shoah per poterlo dire con le parole dell’arte. In realtà questo tema ha continuato a interrogare gli artisti – di tutte le confessioni e provenienze – fino a oggi. Di fronte alla manifestazione assoluta del male dell’uomo, l’arte e l’architettura hanno cercato risposte lontane dalla retorica. Il Museo Ebraico di Berlino Nel dopoguerra la Germania ha avviato un doloroso processo di riflessione storica, che ha interessato soprattutto il capitolo oscuro del nazismo. Da questo dibattito, che è ancora in atto, sono nati in particolare due episodi di rilevanza pubblica. Il primo è la realizzazione del nuovo Museo Ebraico, completato nel 1999 e inaugurato due anni dopo. Lo spettacolare edificio – il più grande museo del genere in Europa – si deve all'architetto polacco naturalizzato americano Daniel Libeskind (Łódź, 1946). La costruzione si congiunge all'adiacente palazzo settecentesco del Berlin Museum, al quale è collegato con un tunnel sotterraneo. L’autore ha definito il progetto «tra le linee», in quanto la sua pianta a zig-zag deriva dall’intersezione di due linee: una retta frammentata in molti segmenti e una tortuosa che prosegue in maniera indefinita. La singolare planimetria – che esemplifica i moduli dell’architettura decostruttivista in cui Libeskind è stato inquadrato – si è prestata a molteplici associazioni, come la forma di una stella di David spezzata. Lastre di zinco ricoprono la scintillante superficie esterna, su cui si aprono finestre dalle forme irregolari, quasi delle feritoie che proiettano una luce drammatica all'interno. L’intera architettura è concepita per agire sul piano emozionale dello spettatore. Il corpo sotterraneo si struttura intorno a tre direttrici, dal significato simbolico per la storia degli ebrei: l’asse dell’Esilio termina in un giardino esterno (Giardino dell’esilio) composto di 49 pilastri in cemento (numero dato dalla somma dell’anno della fondazione di Israele – 1948 – più 1, la città di Berlino) di sei metri, all'interno dei quali si trovano piante di olivagno; l’asse dell’Olocausto conduce a uno spazio chiuso e vuoto, rivolto alla meditazione (Torre dell’Olocausto); l’asse della continuità attraversa i due precedenti, mostrando come questi eventi tragici non abbiano arrestato il cammino dell’ebraismo. I duemila anni di storia degli ebrei in Germania sono appunto illustrati dalla collezione permanente del museo attraverso materiali assai diversi: opere d’arte ma anche oggetti quotidiani e documenti (lettere, fotografie). Il visitatore è chiamato continuamente a interagire, esplorando contenuti multimediali (video, audio) o dedicandosi a varie attività. A questa raccolta si affiancano anche mostre temporanee sugli argomenti più diversi: dalla letteratura all'alimentazione alla cultura in senso più ampio.

 Il Museo Ebraico di Berlino (via Wikimedia Commons – Studio Daniel Libeskind (Architecture New Building); Guenter Schneider (photography))

Clicca qui per visitare il sito del museo e qui per leggere le informazioni sul museo in italiano Per una galleria d’immagini sul museo clicca quie qui Qui trovi un video sul museo

Due monumenti all'Olocausto: Vienna e Berlino L’anno successivo al completamento del museo di Libeskind, un’altra nazione di lingua tedesca – l’Austria – inaugura il primo memoriale dedicato ai 65.000 ebrei del paese uccisi nella Shoah. La proposta che la scultrice Rachel Whiteread (Londra, 1963) elabora per Judenplatz (nel vecchio quartiere ebraico di Vienna) testimonia il processo di radicale ripensamento del concetto di monumento che si svolge nell’arte del XX secolo: il distacco dalle forme tradizionali e il rifiuto dell’enfasi celebrativa solitamente associata alle manifestazioni di arte pubblica. In questa occasione l’artista inglese ripropone il suo caratteristico metodo scultoreo, basato sul calco. Whiteread infatti è solita eseguire le sue opere – realizzate con materiali come resine, gomme, gesso, cemento – a partire da impronte dello spazio che circonda o si trova all’interno di oggetti quotidiani (come sedie, materassi, vasche da bagno, fino ad arrivare a una stanza o un’intera casa). Questo procedimento inverte quello tipico della scultura, trasformando il negativo (lo spazio) in positivo (la massa). L’operazione è applicata qui a una libreria. Quello che vediamo è dunque un parallelepipedo in cemento (misura 10 x 7 m e un’altezza di 3,5 m) che “solidifica” lo spazio interno di una stanza tappezzata di libri: i quattro lati sono scanditi dagli scaffali che lasciano alla vista le parti interne dei volumi; il ritmo uniforme – di matrice minimalista – è rotto soltanto su un lato, al centro del quale si trova una porta. Sul basamento sono riportati in ordine alfabetico i nomi dei campi di concentramento, da Auschwitz a Zamość. Attraverso il tema del libro, l’autrice fa riferimento a uno dei principali appellativi con cui gli ebrei sono conosciuti, quello di “Popolo del libro”. L’intento di questa “Libreria senza nome” è – nelle parole dell’artista – quello di «invertire la percezione del mondo da parte delle persone e rivelare l’inaspettato».

Il progetto è stato accompagnato da polemiche: commissionato nel 1996, è stato inaugurato dopo quattro anni perché durante i lavori di realizzazione sono state rinvenute le fondamenta di una sinagoga distrutta nel 1421. Alla fine si è scelta la soluzione di compromesso di far coesistere i resti del vecchio tempio con il nuovo monumento.

Clicca qui per vedere una galleria di foto del monumento Clicca qui per visitare la pagina ufficiale dedicata al monumento (in tedesco) Clicca qui per ascoltare un’intervista all’artista (in inglese)

Più recentemente, un altro monumento dedicato all’Olocausto ha guadagnato l’attenzione del mondo, fino a diventare una delle principali attrazioni della città di Berlino. Il Memoriale agli ebrei d’Europa assassinati è opera dell’architetto ebreo americano Peter Eisenman (Newark, NJ, 1932). L’autore afferma di aver rifiutato ogni tipo di rappresentazione con mezzi tradizionali, che l’enormità dell’evento storico avrebbe reso inadeguata. Il suo intento è piuttosto quello di «presentare una nuova idea di memoria distinta dalla nostalgia. […] Oggi possiamo conoscere il passato soltanto attraverso una manifestazione nel presente». Egli pertanto desidera che il monumento sia «parte della vita quotidiana e […] parte della coscienza e del subconscio della Germania». Su una superficie di 19.000 mq sono disposte – secondo una griglia ortogonale – 2711 steli di cemento grigio scuro. Le dimensioni di queste ultime sono costanti per lunghezza e larghezza ma variabili in altezza (da 0,2 a 4,7 m). Il terreno su cui sorgono è irregolare, e presenta diverse quote di elevazione. Ciò produce nel visitatore che si addentra in questa foresta di cemento un senso d’instabilità e disagio. L’architetto vuole provocare «una sensazione di essere nel presente» e «un’esperienza mai avuta prima, […] diversa e leggermente inquietante. Il mondo è troppo pieno d’informazioni e qui è un luogo senza informazione». L’idea su cui si fonda il progetto è quella di un sistema ordinato e razionale che, cresciuto fuori misura, perde il contatto con la ragione umana: dentro un ordine apparente si cela sempre il caos.

Lungo e complesso è stato l’iter di realizzazione del monumento, che si completa con un centro informazioni sotterraneo: la prima proposta nel 1989 è stata seguita da intense discussioni, voti parlamentari, modifiche progettuali, conclusi finalmente con l’inaugurazione nel 2005. L’opera, costata in totale 25 milioni di dollari, ha ricevuto numerosi riconoscimenti ma ha provocato altrettante polemiche.

Sito del monumento (in inglese) lo puoi vedere cliccando qui. Cliccando qui puoi leggere una brochure informativa in italiano In questo video è ricostruita l’esperienza di attraversamento di questo campo di stele

L’Olocausto evocato: Christian Boltanski Non è invece dedicata esplicitamente all’Olocausto la grande installazione creata nel 2010 per il Grand Palais di Parigi da Christian Boltanski (Parigi, 1944). Figlio di padre ebreo e madre cattolica, l’artista francese ha formulato attraverso il suo lavoro un’incessante interrogazione sulla memoria. In questa recente realizzazione, come spesso accade nella sua opera, numerosi elementi concorrono a evocare la Shoah, aprendosi allo stesso tempo anche ad altre interpretazioni. Il visitatore è accolto all’ingresso da un alto muro formato da scatole di biscotti arrugginite e numerate. Oltrepassatolo, si aprono alla vista le monumentali navate in ferro e vetro dell’edificio costruito nel 1900: il pavimento è scandito in modo regolare da 69 moduli rettangolari composti di vecchi abiti, ciascuno dei quali delimitato da quattro pali che sostengono una luce al neon. Al termine della navata s’innalza un’enorme piramide, costituita anch’essa di vestiti; sopra di essa si muove il braccio meccanico di una gru, che solleva casualmente alcuni capi dal mucchio per poi lasciarli cadere. Nella gelida aria invernale – volutamente priva di riscaldamento – echeggia il suono martellante di cuori che battono (dal 2005 Boltanski sta componendo un immenso archivio di questi suoni, raccolti dai visitatori). L’artista crea uno spazio d’immersione che vuole coinvolgere lo spettatore con tutti i sensi, dove tutto è architettato per generare un sentimento di oppressione. L’uso del vestiario, materiale ricorrente nell’opera dell’autore, suggerisce l’associazione con l’Olocausto: fra le immagini più impressionanti che hanno documentato lo sterminio vi sono infatti quelle dei cumuli di abiti ed effetti personali di cui gli ebrei venivano spogliati. Questo riferimento più immediato non è tuttavia l’unico. Gli abiti sono per Boltanski «l’equivalente di un corpo», e alludono più in generale alla vita umana: un’esistenza esposta alla casualità di un destino indifferente. Secondo l’artista «la gru è come la mano di Dio, che, cieco, prende le persone a caso. Man mano che si invecchia ci si chiede perché muore qualcuno al posto di qualcun altro o di se stessi. Ti fai quindi l’idea che non esistono ragioni vere per cui qualcuno vive e qualcun altro muore. E naturalmente non ci sono risposte. Personnes è un'opera sulla casualità della morte». Il titolo gioca sull’ambiguità del termine francese Personnes, che al singolare significa “nessuno”, al plurale “persone”.

Guarda una galleria di immagini dell’installazione cliccando qui L’esperienza del visitatore dell’installazione è ben rappresentata in un video che puoi vedere cliccando qui

Immagine di apertura: Il Museo Ebraico di Berlino (via Wikimedia Commons – Studio Daniel Libeskind (Architecture New Building); Guenter Schneider (photography) – This file is licensed under the Creative Commons Attribution 3.0 Unported license.)

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