Finali
«Mentre che io canto, o Dio redemptore,
Vedo la Italia tutta a fiama e a foco
Per questi Galli, che con gran valore
Vengon per disertar non sciò che loco:
Però vi lascio in questo vano amore
Di Fiordespina ardente a poco a poco.
Un’altra fiata, se mi fia concesso,
Raconterovi el tutto per espresso.»
(M.M. Boiardo, Orlando innamorato, III, 9, 26).
Nell'ultima ottava dell’ultimo grande poema cavalleresco del Quattrocento, l’Orlando Innamorato (o Inamoramento de Orlando) di Matteo Maria Boiardo, il poeta posa la penna e si guarda intorno: l’Italia, invasa da un esercito straniero, è un unico grande incendio e interi Stati rischiano di crollare. Non è più il tempo della poesia.
L’anno è il 1494 e i “Galli” sono le armate del re di Francia Carlo VIII, che hanno valicato le Alpi per rivendicare con le armi il possesso del Regno di Napoli. Boiardo, interrompendo la stesura del poema, si ripromette di raccontare il resto della storia se gli sarà concesso, ma non ne avrà mai l’occasione: morirà, infatti, nel dicembre di quell’anno. Poche settimane prima, a Firenze, è mancato Giovanni Pico della Mirandola: la “fenice degli ingegni”, interprete di un’irripetibile stagione di speculazione filosofica, si spegne il 17 novembre, nel giorno stesso dell’entrata dell’esercito francese a Firenze. Come a suggerire un collegamento fra il dilagare delle armate straniere nella città di Lorenzo il Magnifico e la fine di quella stagione di libertà intellettuale.
Le guerre d’Italia
È l’inizio di quelle che passeranno alla storia come guerre d’Italia.
La calata di Carlo VIII trasforma la penisola nel campo di battaglia in cui gli eserciti di tutta l’Europa – francesi, spagnoli, imperiali, papali oltre ai mercenari di ogni nazione – si scontreranno per oltre sessant’anni per stabilire la supremazia sul continente: sessant'anni di guerra quasi permanente che cambieranno profondamente il volto dell’Italia segnando la fine della sua indipendenza.
Francesco Guicciardini, testimone diretto e acuto osservatore di questa drammatica stagione, apre la sua Storia d’Italia rievocando con toni idilliaci il mondo travolto dalla tempesta della guerra: un’Italia «ridotta tutta in somma pace e tranquillità, coltivata non meno ne’ luoghi più montuosi e più sterili che nelle pianure e regioni sue più fertili, né sottoposta a altro imperio che de’ suoi medesimi». È l’Italia libera e fiorente disegnata dalla pace di Lodi, che nel 1454 ha messo fine allo scontro fra Venezia e Milano inaugurando un quarantennio di relativa armonia fra gli Stati che compongono il mosaico della penisola. L’Italia di Lorenzo il Magnifico, capace con la sua sensibilità e la sua lungimiranza di orchestrare il delicato equilibrio fra principi sempre pronti a sacrificare la pace in nome della propria ambizione.
Proprio nella prematura morte di Lorenzo, avvenuta nel 1492, e nel conseguente prevalere dell’ingordigia dei principi italiani Guicciardini individua le cause principali della fine dell’idillio quattrocentesco.
I semi della crisi
In realtà, ben prima dello scoppio della guerra i semi della crisi sono già presenti nella politica italiana.
Nel corso del Quattrocento i maggiori Stati europei si sono rafforzati consolidando i propri confini, la propria struttura amministrativa e la stessa percezione del potere regale: la Francia è uscita dalla Guerra dei cent’anni (1453) e ha finalmente inglobato il Ducato di Borgogna (1477), in Spagna le corone di Castiglia e Aragona si sono unite – di fatto anche se non formalmente – grazie al matrimonio fra Ferdinando e Isabella (1469), l’Impero è cresciuto territorialmente e politicamente grazie all’intelligente strategia matrimoniale di Massimiliano d’Asburgo.
I principi e governanti italiani, al contrario, si sono limitati a conservare il fragile equilibrio fotografato dalla pace di Lodi senza creare un solido sistema di alleanze ma coltivando, al contrario, le proprie ambizioni dinastiche.
Politicamente deboli e strategicamente miopi, allo scoppio della guerra gli Stati italiani vengono relegati al margine dello scacchiere internazionale: un processo di demolizione delle grandi esperienze politiche della penisola iniziato con la crisi di Firenze seguita alla morte del Magnifico e che si può considerare già inarrestabile all’indomani della sconfitta di Venezia da parte della Lega di Cambrai (1509). Guicciardini stesso ne dà conto nelle pagine della Storia d’Italia: già nel discorso di Massimiliano d’Asburgo alla Dieta di Costanza del 1507 (VII, 7) l’Italia è solamente lo scenario dello scontro fra le grandi potenze europee, gli Asburgo e la Francia.
«Abominosi ordigni»
Gli antichi Stati italiani si rivelano subito inadeguati anche dal punto di vista bellico.
L’esercito francese introduce strutturalmente nella guerra una terribile innovazione tecnologica: le artiglierie, che in pochi anni cambieranno il modo di combattere e – con la necessità di nuove fortificazioni capaci di resistere ai colpi di cannone – il volto stesso delle città.
Ma non si tratta solo di uno scarto tecnologico: se fino a quel momento la guerra è stata condotta soprattutto attraverso lunghi assedi, i francesi adottano una modalità d’azione rapida, fatta di battaglie campali che puntano ad annientare in poco tempo la forza avversaria. Contemporaneamente, mettono in atto una strategia di scontro sistematico con la popolazione civile che ha lo scopo di terrorizzare gli abitanti delle terre poste sotto attacco.
Questo nuovo modo di fare la guerra, tanto cruento ed estraneo alla mentalità cavalleresca anacronisticamente celebrata nei poemi epici, suscita naturalmente il biasimo degli intellettuali. Nell’Orlando furioso, scritto nel pieno della tempesta della guerra, Ludovico Ariosto immagina che l’archibugio, «abominoso ordigno» inventato da Belzebù in persona e usato dal malvagio Cimosco re di Frisia, sia rimasto relegato in fondo al mare per secoli grazie al paladino Orlando, ma solo per ritornare a portare la morte sui campi di battaglia proprio nell’età e nella patria del poeta.
Ariosto si rivolge allora direttamente all’odiata arma:
«Per te son giti et anderan sotterra
tanti signori e cavallieri tanti,
prima che sia finita questa guerra,
che ‘l mondo, ma più Italia ha messo in pianti.»
(L. Ariosto, Orlando furioso, XI, 27)
L’esortazione di Machiavelli
In difesa di un’Italia messa a ferro e fuoco da eserciti stranieri, piagata dalle pestilenze, umiliata sulla scena politica internazionale si leva fra le altre la voce di Niccolò Machiavelli, che nell’ultimo capitolo del Principe esorta i Medici a creare un esercito moderno ed efficiente, prendere possesso dell’Italia e «liberarla dalle mani dei barbari» (N. Machiavelli, Il principe, XXVI). Gli italiani «superiori con le forze, con la destrezza, con lo ingegno» esprimono singole personalità straordinarie ammirate in tutto il mondo, ma sono incapaci di unirsi e di consegnare il proprio destino nelle mani di un principe dotato di «virtù» e «fortuna».
L’appello del segretario fiorentino rimarrà inascoltato. Già con l’incoronazione imperiale di Carlo V d’Asburgo, avvenuta a Bologna il 24 febbraio 1530 per mano del papa Clemente VII – al secolo Giulio de’ Medici – si profila all’orizzonte quello che sarà l’esito della guerra: la pace di Cateau-Cambrésis, che nel 1559 metterà fine alle guerre d’Italia affermando un predominio asburgico sulla penisola che durerà fino alle campagne napoleoniche.
La saggezza dello storico
La consapevolezza di questo imminente tramonto della libertà italiana ispira al solito Francesco Guicciardini, conterraneo e amico di Machiavelli, un pessimismo che appartiene a un’intera generazione: «Tutte le città, tutti gli stati, tutti e’ regni», osserva il fiorentino nei Ricordi, «sono mortali; ogni cosa o per natura o per accidente termina e finisce qualche volta» (F. Guicciardini, Ricordi, 189).
«O per natura o per accidente»: la caduta è presente in nuce nello stesso sorgere delle città e dei regni ed è il caso a dominare le vicende umane. Eppure, proprio la storia insegna al saggio a sopportare le avversità preservando intatta la propria dignità anche nella sconfitta: impotente davanti al destino avverso, l’essere umano è sovrano nel proprio regno, quello dell'intelletto.
Anselmi G.M., La Storia d’Italia tra saggezza dello storico e dramma della storia, in Bologna nell’età di Carlo V e Guicciardini, a cura di E. Pasquini, P. Prodi, Bologna, Il Mulino 2002, pp. 41-52.
Ariosto L., Orlando furioso, a cura di L. Caretti, 2 voll., Torino, Einaudi 2015.
Bacchelli F., L'esecrazione dell'arma da fuoco nell'Orlando Furioso (IX 28-94 e XI 21-28), in «In partibus Clius». Scritti in onore di Giovanni Pugliese Carratelli, a cura di G. Fiaccadori, Napoli, Vivarium 2006, pp. 259-330.
Boiardo M.M., Orlando innamorato. L’inamoramento de Orlando, a cura di A. Canova, 2 voll., Milano, BUR 2011.
Gardini N., Rinascimento, Torino, Einaudi 2010.
Guicciardini F., Ricordi, a cura di V. De Caprio, Roma, Salerno Editrice 1990.
Guicciardini F., Storia d’Italia, a cura di S. Seidel Menchi, Torino, Einaudi 1971, 3 voll.
Machiavelli N., Il Principe, a cura di G. Inglese, Torino, Einaudi 2013.
Pellegrini M., Le guerre d’Italia (1494-1530), Bologna Il Mulino 2017.
Crediti immagine: Entrata di Carlo VIII a Firenze, Francesco Granacci, 1518 (Wikimedia Commons)