Sono passati ormai quasi otto mesi dalla strage del 7 ottobre 2023 perpetrata da Hamas in Israele e dall’inizio della campagna militare israeliana nella Striscia di Gaza e ancora non si vede all’orizzonte una qualche prospettiva di conclusione negoziata del conflitto. Un gran numero di ostaggi israeliani – non si sa se vivi o morti – sono ancora nelle mani di Hamas. Nel contempo, il numero delle vittime palestinesi è andato crescendo esponenzialmente, nel quadro di una gravissima crisi umanitaria. Una crisi che si andrà sicuramente aggravando se vi sarà l’annunciato assalto dell’esercito israeliano alla città di Rafah, nel sud della Striscia al confine con l’Egitto, dove pare siano concentrati i miliziani di Hamas e dove sicuramente sono ammassati circa un milione e mezzo di profughi, costretti ancora una volta a fuggire non si sa dove.
Come se non bastasse, il conflitto ha travalicato pericolosamente i suoi già porosissimi confini: ha fin da subito coinvolto il Libano, dove opera Hezbollah; si è esteso al Mar Rosso, con gli assalti dei miliziani yemeniti Houthi alle navi mercantili di mezzo mondo; e ha coinvolto direttamente l’Iran, sia pure per pochi giorni. La comunità internazionale, a sua volta, appare profondamente spaccata. Gli stessi rapporti tra Stati Uniti e Israele – storicamente saldissimi da oltre settant’anni – sono estremamente tesi, al limite della rottura. In più, in ampia parte del mondo occidentale, soprattutto nei campus universitari e tra i giovani, va crescendo un’onda di simpatie per la causa della «Palestina libera dal fiume al mare», che in alcuni casi sembra tradursi in rigurgiti di antisionismo se non addirittura di antisemitismo, quasi sempre conditi da pesanti dosi di antioccidentalismo. Il tutto, mentre continua con crescente ferocia il conflitto russo-ucraino e alla vigilia di decisivi appuntamenti elettorali, che potrebbero pesare in modo significativo sugli assetti della politica internazionale: le elezioni del Parlamento europeo, che si terranno agli inizi di giugno 2024, e soprattutto le elezioni presidenziali degli Stati Uniti, che si svolgeranno nel novembre successivo e vedranno nuovamente sfidarsi Donald Trump e il presidente in carica Joe Biden.
Come andrà a finire? Difficile a dirsi. Possiamo intanto provare a ricostruire i fatti salienti di questi ultimi turbolentissimi mesi.
La guerra nella Striscia di Gaza
Abbiamo già raccontato in un precedente articolo gli eventi del 7 ottobre 2023 e la successiva risposta di Israele fino agli inizi di dicembre: la dichiarazione dello stato di guerra (8 ottobre), l’assedio della Striscia, i primi raid aerei e missilistici, i bombardamenti indiscriminati e poi gli inizi di un massiccio attacco di terra (27 ottobre), con un’unica fragilissima tregua durata pochissimi giorni, dal 24 novembre al 1° dicembre. Da quel giorno l’offensiva israeliana e i lanci di razzi da parte di Hamas e dei loro alleati (in primo luogo Hezbollah in Libano) sono continuati senza sosta, in un clima di crescente irrigidimento delle parti. Tra ipotesi di cessate il fuoco e liberazione di ostaggi ripetutamente annunciate e poi sistematicamente fallite.
L’attacco di terra israeliano, finalizzato a liberare gli ostaggi e a eliminare le milizie di Hamas, si è sviluppato in modo almeno relativamente geometrico: dapprima nel Nord della Striscia, poi a Gaza City e nella parte centrale del territorio palestinese, quindi nella zona meridionale, nelle città di Khan Yunis e da ultimo di Rafah, al confine con l’Egitto. Le forze di difesa israeliane (Israel Defense Forces, IDF) hanno di regola adottato la seguente strategia di attacco: ordini pressoché immediati di evacuazione alla popolazione civile palestinese, costretta dunque a spostarsi in massa soprattutto verso il Sud della Striscia; bombardamenti aerei e missilistici con elevato numero di vittime civili e distruzione dei centri abitati; quindi combattimenti strada per strada e casa per casa sul terreno, resi particolarmente complicati dall’articolato sistema di tunnel sotterranei – sotto edifici civili, scuole, ospedali, etc. – costruiti da Hamas nel corso degli anni e utilizzati in questi mesi come rifugi per i miliziani, come depositi di armi e come nascondigli per la detenzione degli ostaggi israeliani.
I risultati di questa strategia, perseguita duramente dal governo ultranazionalista di Benjamin Netanyahu, sono sotto gli occhi del mondo intero: se all’inizio di dicembre le vittime palestinesi ammontavano a 17.000 unità circa, oggi (18 maggio 2024), sempre secondo le stime del Ministero della Sanità di Gaza, sono più che raddoppiate: oltre 35.000 morti, tra cui un elevatissimo numero di bambini, a cui devono aggiungersi decine di migliaia di feriti, mutilati e persone bisognose di cure. Fonti delle IDF hanno precisato qualche tempo fa che almeno un terzo delle vittime sarebbero miliziani di Hamas: un miliziano, dunque, per ogni due civili palestinesi. Il che rappresenterebbe, sempre secondo quelle fonti, in un contesto complicatissimo di urban warfare in cui i civili vengono di fatto usati da Hamas come scudi umani, un risultato «positivo» in termini militari, almeno se confrontato con situazioni in qualche modo simili.
Ammesso però che queste stime siano davvero accurate – cosa assai difficile da accertare – resta il fatto che la guerra di Gaza sta producendo una vera e propria crisi umanitaria che attanaglia ormai una massa enorme di sfollati costretti ad accamparsi in precari campi profughi, molto spesso ridotti alla fame, senza acqua, senza medicine, senza possibilità di curarsi in ospedali rasi al suolo o gravemente danneggiati, raggiunti poco e male dagli aiuti umanitari (più volte bloccati da Israele), terrorizzati quotidianamente da martellanti bombardamenti.
Da qui il crescente isolamento internazionale di Israele e la sempre più aperta opposizione dell’opinione pubblica mondiale all’operato del suo governo. Un governo che non ha chiarito fino in fondo – dato cruciale – cosa ne sarà di Gaza dopo la fine del conflitto, se ci sarà cioè un’occupazione israeliana (militare o civile) del suo territorio. Che non è riuscito inoltre a liberare gli ostaggi, alcuni dei quali sono anzi rimasti vittime delle incursioni delle IDF e dei bombardamenti. E che non è riuscito a far cessare gli attacchi di Hamas e dei suoi alleati, i quali si stanno anzi robustamente riorganizzando nel Nord della Striscia. Le recenti tensioni all’interno dell’esecutivo tra il ministro della Difesa Yoav Gallant, contrario all’occupazione di Gaza dopo la guerra, e lo stesso Netanyahu e gli ultraconservatori, assai ambigui sul punto, mostrano che le fibrillazioni della classe dirigente israeliana si stanno spostando all’interno del governo, con esiti imprevedibili. Il tutto, però, mentre l’opposizione interna al governo ultranazionalista, molto forte tra i parenti degli ostaggi, stenta in verità a decollare per il senso di insicurezza che ha pervaso gli israeliani dopo il trauma del 7 ottobre.
È impossibile seguire nel dettaglio lo sviluppo delle operazioni militari delle IDF nella Striscia, con il loro stillicidio quotidiano di evacuazioni, bombardamenti a tappeto, combattimenti sul terreno, talora – pare – affidati con significativi margini di errore alla profilazione di nemici e target mediante l’intelligenza artificiale. Va invece sottolineato che il conflitto ha ampiamente travalicato la Striscia, rischiando in più occasioni di incendiare l’intero Medio Oriente.
La guerra fuori dalla Striscia di Gaza
Fin dal 7-8 ottobre 2023 la «guerra di Gaza» – come viene spesso definita - è stata combattuta ben oltre i confini della Striscia.
Tensioni e violenti scontri hanno ovviamente investito il secondo grande e assai complicato frammento dei territori palestinesi: la Cisgiordania. Si tratta di un territorio diviso in tre aree: l’area A, sotto il controllo dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP); l’area B, amministrata congiuntamente dall’ANP e dagli israeliani; e l’area C, sotto il controllo israeliano. In questo territorio i coloni israeliani continuano da decenni a espandersi illegalmente e con la violenza ai danni dei residenti palestinesi, teorizzando nelle loro frange più estremiste l’esatto opposto di quanto vorrebbe Hamas: la costruzione di uno Stato ebraico «dal fiume al mare». Come era prevedibile, dopo il 7 ottobre il livello dello scontro tra le due comunità si è andato innalzando, questa volta alla luce del sole e spesso con la complicità delle autorità israeliane. In particolare, un’unità dell’esercito di Israele, il battaglione Netzah Yehuda, composto da militari nazionalisti e ultraortodossi, si è distinta per il suo fanatismo e le sue violenze, al punto da essere stata recentemente colpita da formali sanzioni da parte degli Stati Uniti e di vari governi europei. In Cisgiordania, insomma, la temperatura è elevatissima.
Alle tensioni e alle violenze in Cisgiordania si deve poi aggiungere la guerra vera e propria tra Israele e il cosiddetto «asse della resistenza»: la vasta e articolata rete di gruppi armati sciiti che affianca Hamas con il sostegno aperto e talora la regia diretta dell’Iran. Tale rete si estende tra il Libano, la Siria, l’Iraq e lo Yemen e ha le sue forze più attive e intraprendenti nelle milizie di Hezbollah in Libano e nei combattenti Huthi dello Yemen.
Hezbollah si è schierato fin dal 7-8 ottobre 2023 con Hamas, dichiarandosi pronto alla «guerra totale» con Israele e i suoi alleati e accusando esplicitamente gli Stati Uniti – che nel frattempo avevano inviato proprie navi nel Mediterraneo – di essere responsabili della guerra a Gaza. Gli scontri sulla linea di confine tra Libano e Israele e i bombardamenti sono stati da allora costanti, si sono estesi anche in territorio siriano e iracheno, e sono andati crescendo di intensità soprattutto dopo gli inizi di gennaio, in seguito all’uccisione a Beirut di uno dei capi di Hamas, Saleh al Arouri (2 gennaio), e qualche giorno dopo (8 gennaio) di uno dei leader militari di Hezbollah, Wissam Tawil, in un villaggio libanese situato a ridosso del confine con Israele. Una vera e propria «guerra totale», tuttavia, non ancora è scoppiata, forse perché – affermano alcuni osservatori – al di là delle retoriche della resistenza, la priorità di Hezbollah è ormai consolidare le proprie posizioni in Libano, senza lanciarsi in avventure troppo rischiose. La situazione sarebbe diversa se fosse Israele – come alcuni analisti paventano – a lanciare un attacco massiccio contro il Libano, anche con un’incursione di terra, per mettere in sicurezza la frontiera nord del paese. Gli esiti di un passo del genere, avversato dagli Stati Uniti e da diversi paesi europei, rinsalderebbero tuttavia l’asse della resistenza e sarebbero del tutto imprevedibili. Si tratta dunque di una partita complessa e ancora aperta, che non ha impedito a Israele e Hezbollah di colpirsi di fatto senza sosta.
Altrettanto complessa la minaccia dei miliziani sciiti Huthi, sostenuti sempre dall’Iran e protagonisti da anni di una terribile guerra civile che ha lacerato e continua a lacerare lo Yemen. Anch’essi sono scesi platealmente in campo a fianco di Hamas nella guerra per Gaza, aprendo così, da Sud, un secondo fronte di guerra contro Israele accanto a quello libanese. Dotati di un significativo arsenale di provenienza iraniana, gli Huthi hanno prima bombardato il porto israeliano di Eilat, che si affaccia sul Mar Rosso, e poi hanno ripetutamente preso di mira le grandi navi mercantili (per lo più dirette in Israele) che transitano nel Golfo di Aden, nel Mar Rosso e poi nel Canale di Suez, colpite soprattutto con droni e razzi o direttamente assaltate con vere e proprie azioni di pirateria. Trattandosi di uno snodo commerciale cruciale – vi transita quasi il 40% del commercio marittimo mondiale – le loro azioni hanno inflitto una ferita profonda alla libertà di navigazione e gravissimi danni economici, spingendo molti colossi del trasporto via mare a percorrere la rotta ben più lunga e costosa che circumnaviga l’Africa. Il che ha spinto per reazione gli Stati Uniti e diversi altri paesi, tra cui il Regno Unito, a lanciare l’operazione «Prosperity Guardian» con l’obiettivo di neutralizzare e rispondere alle minacce Huthi. L’Unione Europea, dal canto suo, ha avviato contro gli Huthi l’operazione «Aspides», di carattere più propriamente difensivo, guidata per ciò che riguarda le forze navali da un ammiraglio italiano.
Lo scontro diretto tra Israele e Iran
Nel mese di aprile il conflitto ha rischiato di deflagrare in una guerra di dimensioni assai più vaste, con il coinvolgimento diretto – e non più solo per procura – dell’Iran. Ad accendere la miccia è stata, il 1° aprile, un’«esecuzione mirata» delle forze militari israeliane. Quel giorno, aerei da combattimento F-35 delle IDF, alzatisi in volo dal Golan, hanno lanciato 6 missili contro il consolato iraniano a Damasco, in Siria. La sede diplomatica è stata distrutta e nell’attacco hanno perso la vita undici persone, tra cui due alti ufficiali iraniani della «Forza Quds», gruppo di élite dei Guardiani della Rivoluzione iraniani, allora operativi in funzione antisraeliana tra Siria, Libano e Palestina: il generale Mohammad Reza Zahedi e Mohammad Hadi Haji Rahimi. Un attacco così scoperto, per di più a una sede diplomatica protetta in quanto tale dal diritto internazionale, e con vittime così eccellenti non poteva restare senza conseguenze. E così è stato.
Dopo svariate minacce di rappresaglia, nella notte tra il 13 e il 14 aprile uno sciame di centinaia di droni e una pioggia di missili sono stati lanciati dall’Iran (a duemila chilometri di distanza) su Israele. Secondo Tel Aviv l’attacco non avrebbe sortito danni rilevanti né fatto vittime: la gran parte dei droni e dei missili sarebbero stati abbattuti fuori dallo spazio aereo israeliano, grazie al sistema di difesa missilistica Iron Dome e alla collaborazione di caccia statunitensi, britannici e anche di alcuni paesi arabi (sunniti e anti-iraniani), in primo luogo la Giordania e forse la stessa Arabia Saudita (quanto meno per il supporto logistico). Non è chiaro se l’attacco iraniano, sicuramente massiccio, ma preannunciato da tempo e, almeno per quanto riguarda i droni, «al rallentatore» (data la loro bassa velocità: circa 200 km/h su una distanza di 2000 km circa) sia stato concepito per fare vittime e danni reali oppure come un chiaro e robusto avvertimento. Fatto sta che all’indomani dei bombardamenti l’Iran ha dichiarato «chiuso» l’incidente di Damasco, salvo un’ulteriore ritorsione israeliana. Israele, dal canto suo, ha considerato l’inefficacia dell’attacco come una «vittoria», riservandosi la possibilità di ulteriori ritorsioni. Grazie alla pressione internazionale, soprattutto degli Stati Uniti, la risposta di Israele c’è stata, ma di entità poco chiara e sicuramente modesta: Tel Aviv ha colpito – non si sa se con droni o missili – il territorio iraniano, probabilmente una base militare nel centro del paese, dimostrando così di essere in grado di farlo. Ma senza provocare vittime e danni di rilievo. Il che ha consentito ai due contendenti di chiudere almeno per il momento l’«incidente» e di procedere a una graduale de-escalation e all’intero Medio Oriente di non precipitare in un conflitto su vasta scala, tale da coinvolgere le grandi potenze e in particolare gli stessi Stati Uniti.
In questo modo, almeno per il momento, la guerra è tornata a concentrarsi nella Striscia di Gaza, in particolare a Rafah, e alla frontiera con il Libano, dunque con Hamas e Hezbollah. La prospettiva di uno scontro aperto con l’Iran, che non è ancora (ma forse per poco) una potenza nucleare, rimane tuttavia sullo sfondo. Il che getta molte ombre sul futuro della politica mondiale se solo si considera che la repubblica islamica è a sua volta saldamente legata, anche sul piano militare, alla Russia (in piena offensiva in Ucraina) e alla Corea del Nord. La partita, dunque, è molto delicata. Ed è resa ancora più complessa dalla conclamata impotenza della diplomazia e delle organizzazioni internazionali, in primo luogo delle Nazioni Unite.
La guerra, la diplomazia e l’ONU
Intrappolata tra gli opposti estremismi della destra israeliana e di Hamas con i suoi alleati dell’«asse della resistenza», la guerra di Gaza sembra impermeabile a qualsiasi soluzione diplomatica, anche sul piano del diritto internazionale umanitario.
Gli sforzi degli Stati Uniti di tenere a freno il governo Netanyahu non hanno sortito effetti di sorta, tranne forse – lo abbiamo visto – nel contenere la risposta israeliana all’attacco dell’Iran del 13-14 aprile. Le esortazioni a non commettere gli stessi errori compiuti dagli americani dopo l’11 settembre 2001 sono semplicemente cadute nel vuoto. Anche la minaccia di sospendere la fornitura di armi a Tel Aviv, ribadita e in parte messa in atto nelle ultime settimane di fronte alla catastrofe annunciata di un’incursione di ampia scala nella città di Rafah, ormai allo stremo, sembra molto spuntata. Netanyahu sa bene che se gli Stati Uniti voltassero le spalle per davvero a Israele ne deriverebbero mutamenti geopolitici di enorme rilievo in tutto il Medio Oriente e forse nel mondo intero. Mutamenti inaccettabili per gli USA e probabilmente assai pericolosi, in prospettiva, per la pace mondiale. Il primo ministro israeliano può così tenere in scacco – almeno per ora – il suo alleato assai riluttante, deciso sì a stroncare la minaccia di Hamas e alleati, ma ostilissimo alla catastrofe che la guerra sta provocando tra la popolazione civile palestinese. Lo dimostra la politica di aiuti umanitari che gli USA hanno tentato di implementare, ovviamente con tutti i limiti del caso. Da ultimo con la costruzione di un molo mobile che proprio in questi giorni sta portando, via mare, tonnellate di aiuti nella Striscia.
La diplomazia europea è ancora meno efficace e incisiva. L’Europa è al solito divisa, è più preoccupata del conflitto russo-ucraino ai suoi confini e non ha in ogni caso strumenti concreti di pressione da giocare sul tavolo di una soluzione negoziata del conflitto. A parte le scontate invocazioni alla tregua, alla liberazione degli ostaggi e alla pace, al di là qualche estemporaneo intervento di questo o quel governo nazionale (in particolare della Francia) e a prescindere dalla pur impegnativa operazione «Aspides» contro gli Huthi, il suo peso negoziale è praticamente nullo.
Anche l’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU) sta mostrando ancora una volta tutta la sua impotenza. Diversi tentativi di votare una risoluzione per una «tregua immediata» a Gaza e il rilascio degli ostaggi sono stati bloccati dal veto degli Stati Uniti in Consiglio di sicurezza, con l’argomento che la tregua avrebbe permesso ad Hamas di riorganizzarsi. Il 22 marzo una proposta USA per il cessate il fuoco è stata invece affossata dal veto congiunto di Russia e Cina. Il 25 marzo, tuttavia, una tregua per il mese di Ramadan da intendersi come «preludio» di un cessate il fuoco più duraturo è stata infine approvata, con il voto favorevole di Russia e Cina e l’astensione degli Stati Uniti. Ma è caduta subito dopo nel vuoto. L’attacco israeliano a Damasco il 1° aprile, con l’uccisione del generale iraniano Mohammad Reza Zahedi, la rappresaglia iraniana e la contro-rappresaglia di Israele hanno ancora una volta rimesso tutto in gioco. Le difficoltà in cui si muove l’ONU sono nuovamente emerse nel controverso dibattito che si è recentemente aperto sulla piena adesione dello Stato palestinese alle Nazioni Unite.
In questo modo, le sorti della continuazione della guerra e degli ostaggi sono state da ultimo affidate a sfibranti trattative tra Israele e Hamas svoltesi in Egitto con la mediazione di vari attori quali il Qatar e gli Stati Uniti. Anch’esse, tuttavia, sono per ora finite nel nulla. Il risultato è che – salvo nuove sorprese – è ormai imminente l’attacco alla città di Rafah, che produrrà ulteriori stragi e disastri umanitari, oltre a un isolamento sempre più pericoloso di Israele nel resto del mondo.
Un isolamento che – sia pure in modo ambiguo – si sta manifestando nelle continue e sempre più intense proteste che dilagano ormai da mesi nelle università americane ed europee. Con le stesse impressionanti parole d’ordine di Hamas: «Palestina libera dal fiume al mare», che significano semplicemente l’eliminazione dello Stato ebraico. È senz’altro possibile che in queste proteste si annidino, più o meno espliciti, pericolosi elementi di antisemitismo o di antisionismo, sicuramente conditi da una buona dose di antiamericanismo e antioccidentalismo. Di certo, però, la strategia del governo Netanyahu, il cui personale destino politico dipende dal corso della guerra, non fa che alimentarle ulteriormente. Il che non farà bene a nessuno.
Non sappiamo se si arriverà in tempi ragionevoli a una tregua e alla liberazione degli ostaggi ancora vivi. Sappiamo ancor meno se sarà mai possibile trovare una soluzione stabile e consensuale al dramma ormai incancrenito della questione israelo-palestinese: sia essa l’ormai nota soluzione dei «due popoli due Stati», sia essa quella assai più utopistica, da alcuni caldeggiata, di «due popoli uno Stato». Nel frattempo, è sempre più evidente che la «piccola» e sicuramente terribile guerra di Gaza, connessa ad altri più grandi e pericolosi scenari di crisi, rischia di incendiare il mondo intero.
Crediti immagine banner: Gaza City. Foto pubblicata su iStockPhoto il 13 settembre 2023. Crediti: Nidal Alwaheidi / iStockPhoto
Ismail Abdel Salam Ahmed Haniyeh, uno dei leader di Hamas, in un incontro a Mosca con Konstantin Kosachev il 3 marzo 2020. Crediti: council.gov.ru – Wikipedia
Alture del Golan, Israele: bunker e trincee che si affacciano sul confine israelo-siriano a Tel Saki. Foto pubblicata su iStockPhoto il 20 ottobre 2023. Crediti: barbaraaaa / iStockPhoto
Veduta aerea di Gaza City. Foto pubblicata su iStockPhoto il 31 marzo 2022. Crediti: Soliman Hijjy – iStockPhoto
Il Presidente americano Joe Biden a colloquio con il presidente israeliano Netanyahu. Foto del 15 maggio 2021. Crediti: The White House – Wikipedia