Aula di Lettere

Aula di Lettere

Percorsi nel mondo umanistico

Sezioni
Accad(d)e che
Come te lo spiego
Interventi d'autore
Il passato ci parla
Sentieri di parole
Nuovo Cinema Paini
Storia di oggi
Le figure retoriche
Gli antichi e noi
Idee didattiche digitali
Le parole dei media
Dall'archivio
Tutti i temi del mese
Materie
Italiano
Lettere classiche
Storia e Geografia
Filosofia
Storia dell'arte
Scienze umane
Podcast
Chi siamo
Cerca
Storia e Geografia

2. LA CRISI NEGLI STATI UNITI

leggi

La data simbolo della crisi. È difficile individuare con precisione il «punto zero» della crisi. La data che ne costituisce il simbolo – come lo è per la Gran­de Depressione il 24 ottobre 1929, il «giovedì nero» del crollo della Borsa di Wall Street – è il 15 settembre 2008. È in quel giorno, infatti, che la Lehman Brothers, una delle più importanti banche di investimento degli Stati Uniti, con interessi e filiali in tutto il mondo, dichiarò fallimento, seminando il panico sui mercati finanziari dell’intero pianeta e dando quindi un poderoso impulso globale alla crisi. Alla «Grande Recessione», come l’ha ribattezzata l’eco­nomista Nouriel Roubini.

L’inizio della crisi: la bolla immobiliare. All’epoca della bancarotta della Lehman Brothers, tuttavia, la crisi era già iniziata da oltre un anno. E come quasi tutte le grandi crisi economiche del passato, essa aveva preso avvio dallo scoppio di una gigantesca bolla speculativa. Vale a dire, dalla contrazione più o meno improvvisa di un mercato che per qualche tempo aveva promesso guadagni facili e sicuri, scatenando una spericolata «febbre speculativa».
Gli Stati Uniti avevano già sperimentato negli anni Novanta un fenomeno del genere con la bolla delle «dot.com», che non aveva però prodotto conseguenze sistemiche. Al principio del nuovo millennio, invece, una seconda bolla speculativa ebbe effetti devastanti. Fu questa seconda bolla il detonatore – anche se non certo la causa – della «grande crisi». In questo caso a far crescere la febbre speculativa fu il mercato immobiliare: una corsa generalizzata all’acquisto della casa, considerata come un bene di prima necessità per chi ne era privo e come un investimento sicuro per chi voleva far fruttare il proprio denaro. Nonché per le imprese edili e un’ampia schiera di intermediatori finanziari in vario modo legati al mercato immobiliare.
A rendere possibile questa corsa al mattone, ben comprensibile in un paese che stava cercando di riprendersi dal trauma anche economico dell’11 settembre 2001, contribuirono diversi fattori che dovevano finire per avvelenare la finanza mondiale. O, meglio, che dovevano mostrare quanto essa fosse già avvelenata da tempo per effetto di una deregulation radicale che aveva preso corpo negli ultimi due decenni del secolo scorso, in no­me di una fiducia illimitata nelle capacità autoregolative del mercato.
I mutui subprime. Tra questi fattori ha giocato un ruolo determinante – accanto agli incentivi del governo per l’acquisto della prima casa e ai bassissimi tassi di interesse fissati per diversi anni dalla Federal Reserve (Fed), la banca centrale statunitense – la vera e propria proliferazione dei «mutui subprime». Vale a dire, di mutui concessi con estrema facilità a soggetti a elevato rischio di insolvenza.
Tali mutui, garantiti da un’ipoteca sulla casa che veniva acquistata, prevedevano di regola un pagamento a tasso fisso per due o tre anni che diventava variabile negli anni successivi, adeguandosi ai tassi di interesse definiti dalla banca centrale. In base a questo meccanismo, l’estrema facilità di accesso al credito aveva il suo corrispettivo, dopo poco tempo, in una crescita consistente delle rate che i debitori dovevano pagare per i successivi due o tre decenni. E tuttavia il costante aumento del valore delle case, prodotta dall’euforia del mattone, sem­brava in grado di cancellare ogni preoccupazione. Nella peggiore delle ipotesi, infatti, i mutuatari ritenevano di poter mettere in vendita il proprio immobile e ricavarne ancora dei vantaggi. Molto spesso, anzi, i nuovi proprietari, vedendo rivalutarsi il prezzo della propria casa, chiedevano e ottenevano ulteriori prestiti, garantiti dal valore accresciuto degli immobili, per pagare le tasse universitarie ai figli o acquistare una nuova auto. In diversi casi, essi si spinsero a comprare nuove case come forma sicura di investimento. Il risultato fu un indebitamento vertiginoso delle famiglie e degli investitori.
Anche le banche e gli istituti finanziari ritenevano di non correre grandi pericoli nell’e­sporsi alla concessione di tali prestiti. Non tanto perché, in ultima istanza, potevano entrare in possesso delle case degli eventuali mutuatari insolventi e rimetterle in vendita a un prezzo superiore. Ma soprattutto perché avevano trovato il modo di «scaricare» sul mercato, attraverso alchimie finanziarie sempre più sofisticate, il rischio dei mutui subprime.
La cartolarizzazione dei mutui. La formula magica di questa distribuzione del rischio è stata la «cartolarizzazione». Applicabile a svariate fattispecie di crediti, essa consisteva nel trasformare i prestiti immobiliari delle banche in titoli (in «carta») da vendere in pacchetti ad altri investitori privati o istituzionali (banche di investimento, fondi pensioni, etc.) e aventi come garanzia i mutui stessi. In questo modo, «impacchettando» in forme sempre più articolate tali titoli, banche e istituti finanziari potevano liberarsi del rischio legato ai mutui e rientrare in possesso di una liquidità tale da permettere l’emissione di ulteriori mutui, che venivano dunque concessi con crescente larghezza. Gli investitori che acquistavano tali titoli, per parte loro, ritenevano di accedere a un investimento sicuro perché era impensabile l’ipotesi di una insolvenza di massa sui mutui casa. Tanto più in una fase di boom immobiliare. L’impac­chettamento di questi titoli assunse – come è stato detto – forme sempre più «fantasiose» ed «esoteriche», intrecciandosi con la diffusione di strumenti finanziari di copertura del rischio come i Cds («Credit default swap»), che, al di fuori di qualsiasi regolamentazione, si prestavano a spericolate manovre speculative. Divenne così estremamente difficile valutare l’effettivo livello di rischio di una gigantesca massa di titoli circolanti non soltanto sul mercato statunitense ma, data la stretta interdipendenza della finanza mondiale, sui mercati finanziari globali.
Più in generale: la deregulation del mercato finanziario. L’incredibile proliferazione di questi titoli fu resa possibile anche da altri importanti fattori, derivanti sempre dalla deregulation degli scambi finanziari degli anni Ottanta e Novanta. Tra essi ebbe un ruolo cruciale il progressivo venir meno della barriera di separazione tra banche commerciali (che raccolgono depositi ed emettono prestiti) e banche d’investimento o d’affari (che si occupano invece della compravendita dei titoli). Questa separazione, introdotta nel 1933, venne definitivamente a cadere nel 1999, durante la presidenza Clinton, con il Financial Modernization Act, che rendeva possibile la fusione tra i due tipi di banca nonché tra esse e altre istituzioni finanziarie quali ad esempio le società assicurative. Sorsero in tal modo enormi holding finanziarie «too big to fail», troppo grandi per poter fallire, le quali potevano esporre i depositi dei risparmiatori ai rischi del gioco della finanza. Nello stesso tempo vennero meno anche le regole che fissavano limiti ai debiti che le banche d’affari potevano contrarre in relazione alle proprie riserve, le quali costituivano una importante garanzia contro le perdite derivanti da investimenti a rischio. Il tutto, sullo sfondo di uno sviluppo assai consistente del cosiddetto «sistema bancario ombra». Vale a dire, di un sistema di istituti finanziari che funzionavano come banche, ma senza la regolamentazione e le garanzie delle banche convenzionali: l’assicurazione sui depositi e la possibilità di accedere a un prestito di ultima istanza da parte della banca centrale. Due garanzie che implicavano una qualche sorveglianza sull’ope­rato delle banche normali. Potendo offrire condizioni migliori, il sistema bancario ombra entrò in concorrenza con il sistema bancario tradizionale, inondando il mercato di titoli ad alto rischio. Esso divenne rapidamente il punto debole della crisi che stava per esplodere.
Gli altri fattori della crisi. Le ragioni del boom immobiliare risultano ancora più chiare se a quanto detto aggiungiamo ancora l’interesse delle agenzie di rating a sovrastimare i titoli cartolarizzati, peraltro oggettivamente assai difficili da valutare; il sistema dei bonus milionari di cui potevano beneficiare, ai vari livelli del business delle cartolarizzazioni, i mediatori finanziari, spinti per questo a premere l’accele­ratore sull’inte­ro processo; il senso di sicurezza di istituti finanziari «too big to fail» e dunque quasi certi di poter attingere in casi di estrema necessità alle risorse della Fed e del governo; e ancora l’enorme massa di denaro liquido con cui i paesi stranieri – fiduciosi nella locomotiva Usa – hanno finanziato il debito degli Stati Uniti acquistando una gran massa di prodotti cartolarizzati.
Dal boom alla catastrofe. In un contesto del genere il mercato immobiliare conobbe per alcuni anni una straordinaria espansione. Quando, tuttavia, l’offerta di immobili cominciò a superare la domanda, la tendenza prese a invertirsi con conseguenze catastrofiche, che dovevano andare ben al di là del mercato della casa e degli stessi confini degli Stati Uniti.
Questa inversione di tendenza cominciò a manifestarsi intorno al 2005-2006. Fu allora che, in un mercato ormai saturo, i prezzi delle case dapprima si stabilizzarono e poi iniziarono a scendere. Ciò avvenne proprio mentre la Fed aveva iniziato ad aumentare i tassi di interesse e i mutuatari dovevano cominciare a far fronte alla forte crescita delle rate dei propri mutui, passati dal tasso fisso al tasso variabile. Famiglie e investitori si ritrovarono allora indebitati al di sopra delle proprie possibilità per beni che stavano perdendo il loro valore. E in breve tempo smisero di pagare i propri mutui. Ebbe così inizio una vera e propria catena di pignoramenti, che rimetteva in circolazione beni in gran parte deprezzati e difficilmente ricollocabili sul mercato. La contrazione del mercato immobiliare finì a sua volta per far crollare il valore dei titoli cartolarizzati e per rimbalzare sulle banche e gli istituti finanziari che negli Stati Uniti e in tutto il mondo li avevano acquistati in quantità massicce. Oltre che su moltissimi investitori privati che si erano giocati i risparmi di una vita. Fu così che il panico si impadronì dei mercati, amplificato dal fatto che nessuno era ormai più in grado di capire – data la complessità dei prodotti finanziari cartolarizzati – il valore reale dei titoli e, con esso, le misure reali dell’esposizione di banche e istituzioni finanziarie.
In tale quadro la crisi di diversi istituti di credito nel corso del 2007 portò a una brusca contrazione del credito e dei prestiti interbancari e al rapido esaurirsi del flusso delle cartolarizzazioni. Il tutto, in un clima di sfiducia reciproca, mentre le agenzie di rating iniziavano a declassare un’ampia serie di titoli apparsi improvvisamente «tossici» e sullo sfondo del rischio di una generalizzata corsa agli sportelli.
La conseguenza fu che molti giganti finanziari giunsero al collasso, rendendo necessari ripetuti interventi della Fed e del governo. Il caso più spettacolare – come si è già detto – fu quello della Lehman Brothers, che dovette dichiarare fallimento il 15 settembre 2008, alimentando un’ondata di panico di scala planetaria.

Devi completare il CAPTCHA per poter pubblicare il tuo commento