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La “parentesi” della Shoah

La shoah non è purtroppo stata un unicum nella storia del popolo ebraico: i fenomeni di antisionismo e “cultura del disprezzo” hanno purtroppo radici molto antiche.

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Nel ricordare ogni 27 gennaio l’apertura dei cancelli di Auschwitz siamo abituati ad affrontare il tema della Shoah (“catastrofe” in ebraico) come “unicum” nella storia dell’umanità e, in quanto tale, come parentesi incancellabile dalla memoria collettiva. Una parentesi all’interno della quale, varcando le colonne d’Ercole della coscienza morale, l’essere umano ha rischiato di smarrirsi su un territorio sconosciuto e selvaggio, caratterizzato dal silenzio di Dio e da quella che il filosofo Max Horkeimer ha definito “l’eclissi della ragione”.

Per cercare di comprendere l’incomprensibile può essere d’aiuto “togliere le parentesi” alla Shoah, oppure dotarla di più ampie parentesi graffe per calarla nella storia della millenaria civiltà occidentale, all’interno della quale lo sterminio degli ebrei in Europa tra il 1941-1945 ha costituito uno snodo importante di un percorso la cui piena consapevolezza risulta tanto più agevole quanto più ci si concentra sul “prima” e sul “dopo” all’interno dei quali la Shoah risulta immersa. In tale prospettiva, l’antisemitismo che guidò l’Europa verso la Catastrofe, si pone in evidenza come l’anello di congiunzione tra l’antico antigiudaismo e il moderno antisionismo.

Ellenismo e cancel culture 

Il dizionario Oxford Languages definisce il termine genocidio come «Metodica distruzione di un gruppo etnico, razziale o religioso, compiuta attraverso lo sterminio degli individui e l'annullamento dei valori e dei documenti culturali». Accogliendo tale definizione, è possibile individuare le radici genocidarie della “questione ebraica” già nella diffusione della cultura ellenistica sui territori asiatici sottomessi da Alessandro Magno.

Il primo esempio di antigiudaismo e di persecuzione riferibile a una matrice chiaramente religiosa ha infatti origine nel processo di ellenizzazione forzata imposta nel II sec a. C. agli abitanti della Giudea dal sovrano seleucide Antioco Epifane (175-164 a. C.), con l’obiettivo di portare la civiltà tra un popolo giudicato superstizioso, chiuso a ogni contatto con l’esterno, ostinatamente fedele alle proprie tradizioni religiose ed espressione di una civiltà che non ha prodotto nulla di utile o grandioso. Dalla costruzione nei principali centri urbani della Giudea di teatri, palestre e bagni pubblici si passerà al divieto dei sacrifici rituali, del riposo settimanale, della pratica della circoncisione – nella tradizione ebraica segno del patto indissolubile con Dio – e infine, nel 167, alla collocazione di una statua di Zeus nel Tempio ebraico di Gerusalemme. I tentativi di resistenza verranno soffocati con massacri, deportazioni, riduzioni in schiavitù. Tra gli irriducibili oppositori alla politica di cancellazione culturale imposta dal sovrano seleucide si distinse il movimento dei chassidim (i pii)[1], inflessibili nel difendere la fedeltà alla Legge, ossia ai precetti e gli insegnamenti rivelati da Dio al popolo ebraico e contenuti nella Torah, il testo sacro al di sopra del quale nessun essere umano ha diritto di porsi.

La dominazione romana in Medio Oriente ereditò i pregiudizi nei confronti degli ebrei maturati nel periodo ellenistico, limitandosi tuttavia nel complesso all’adozione di misure repressive là dove la difesa dell’identità culturale del popolo ebraico assunse valenza politica, sfociando nell’aperta ribellione all’autorità imperiale. Se la prima guerra giudaica (66-70 d.C.) e la spietata repressione disposta dall’imperatore Tito è dunque inquadrabile nel novero delle numerose sollevazioni popolari che punteggiarono l’espansione di Roma, non mancarono tuttavia episodi in cui l’intervento venne condotto con finalità dichiaratamente assimilazioniste. Tra questi spicca la nuova guerra contro gli ebrei condotta da Adriano nel 133 d.C. e generata da una nuova ondata di persecuzione culturale, rivolta a cancellare la peculiarità ebraica rispetto alle altre componenti dell’impero.

Solo in tale ottica possono essere infatti giudicate le misure che diedero inizio alla rivolta, quali il ripristino del divieto della circoncisione e la fondazione di una nuova città dedicata a Zeus che avrebbe soppiantato Gerusalemme, lasciata in rovina dalla prima guerra giudaica. L’espulsione degli ebrei dalla loro città santa disposta al termine del conflitto e la stessa decisione di ribattezzare il territorio della Giudea con il nome di Palestina – dall’antica popolazione dei Filistei (Phylistiaioi in greco), antagonisti degli ebrei ed emigrati nella regione intorno al XII sec a.C. – ebbero l’effetto di colpire le stesse radici territoriali dell’identità ebraica e di intensificare la Grande Diaspora già iniziata al termine della prima guerra giudaica.

Sugli ebrei nell’antichità greca e romana:
https://www.youtube.com/watch?v=U8_oJ0z2J-E

Chi tace acconsente 

«Se Dio lo permette, significa che lo vuole» con queste parole il letterato egiziano Apione (I sec d.C) commentava le sventure del popolo ebraico, indicando la soggezione a molteplici dominazioni succedutesi nel corso dei secoli come evidente testimonianza dell’incapacità mostrata dagli ebrei nell’onorare adeguatamente la propria divinità. Tali considerazioni – giunte a noi grazie alla replica fornita dal suo contemporaneo ebreo Flavio Giuseppe nell’opera Contra Apionem – erano corredate da un sunto dei pregiudizi antigiudaici maturati in età ellenistica, quali la presunta adorazione da parte degli ebrei di una testa d’asino; l’abitudine a sacrificare uno straniero (possibilmente greco) dopo averlo fatto debitamente ingrassare per poi cibarsi della sua carne; l’odio verso gli stranieri posto a fondamento del giuramento con Dio; l’essere i discendenti di una comunità di lebbrosi cacciati dall’Egitto.

Superstizione, odio verso il genere umano, omicidio rituale, impurità: nella sintesi fornita da Apione è possibile trovare i principali capi di accusa verso gli ebrei che popoleranno successivamente l’immaginario collettivo del mondo cristiano. Tali pregiudizi contribuiranno a dipingere lo sfondo culturale favorevole alla diffusione della “teologia della sostituzione” – frutto di un’interpretazione ideologica della Lettera a gli ebrei e di altri passi neotestamentari, rimasta dominante nella tradizione ecclesiastica fino al Concilio Vaticano II – in base alla quale Dio avrebbe stretto una nuova alleanza con i cristiani in sostituzione di quella precedentemente stipulata con il popolo ebraico, indicando nella Chiesa la nuova Israele.

Tale abbandono, comprovato secondo tale interpretazione dal silenzio di Dio di fronte alle sventure del popolo ebraico, avrebbe condotto gli ebrei tra le braccia di Satana fino a spingerli a rifiutare il Cristo e a favorirne la morte, colpa irredimibile per la quale l’unico modo per ottenere perdono prevedeva l’ingresso nel nuovo popolo di Dio attraverso il battesimo. La discriminazione dell’ebreo e l’adozione di ogni forma di pressione per ottenerne la conversione costituirono i cardini di una politica assimilazionista che dispiegò la sua ombra sul continente europeo fino alla prima metà del XIX secolo, quando la diffusione del concetto di razza trasformò l’antigiudaismo in antisemitismo e la colpa dell’ebreo, divenuto espressione di un’identità biologicamente immutabile e di conseguenza impermeabile alla salvezza, si estese dal credere all’essere.

La “cultura del disprezzo” 

Rispetto all’antigiudaismo di stampo greco-romano, certamente diffuso ma solo sporadicamente diretto dall’alto e, comunque, alternato da lunghi periodi di tranquillità se non di vero e proprio favore da parte delle autorità – a partire dalla considerazione verso i soldati ebrei nutrita da Alessandro Magno fino alla benevolenza mostrata da Giulio Cesare o Giuliano l’Apostata – l’antigiudaismo maturato nell’era cristiana presenta molte più differenze che analogie. Si tratta di differenze formali e sostanziali che trovano espressione nella sistematicità, nella coerenza e nell’ufficialità dell’odio anti ebraico sul quale si è formata nel corso dei secoli ciò che lo storico francese Jules Isaac ha definito «la cultura del disprezzo», la cui sedimentazione nella storia dell’Occidente cristiano ha spalancato le porte alla lunga catena di massacri, violenze, discriminazioni e umiliazioni che dai pogrom verificatisi durante la prima crociata (1096) si snoda fino ai pogrom che, nei paesi occupati dalla Germania durante la Seconda guerra mondiale, circondarono il compiersi della Shoah, per proseguire ancora nei numerosi pogrom verificatisi nell’immediato dopoguerra sui territori dell’Europa orientale ai danni dei sopravvissuti alla Catastrofe e che favorirono l’intensificazione dell’emigrazione in massa verso il territorio palestinese.

In tale assuefazione al massacro, i tradizionali pregiudizi religiosi si sono trovati via via affiancati a nuovi ben più secolari paradigmi, in base ai quali gli ebrei sono accusati da un lato di avere ordito il complotto socialista mondiale rivolto a cancellare le nazioni in nome dell’internazionalismo proletario e, allo stesso tempo, di essere i burattinai del sistema finanziario internazionale e dello sfruttamento del movimento operaio sul quale si regge il modello capitalista. A causa di questo diabolico ossimoro – a oggi ancora assai popolare e capace di impregnare generazione dopo generazione classi sociali e contesti culturali differenti – per le esigue minoranze ebraiche disseminate sul pianeta lo spazio franco da pregiudizi appare assai angusto, quanto la sottile striscia di territorio che forma lo Stato di Israele e sul quale, fin dalla sua nascita, si concentra lo sguardo accusatorio di larga parte della comunità internazionale. All’interno di quest’ultima, la proliferazione di gruppi dichiaratamente antisemiti risulta accompagnata dalla diffusione di movimenti antisionisti che, nel respingere i fondamenti del sionismo quale diritto all’autodeterminazione del popolo ebraico, sono caratterizzati dall’abusiva sovrapposizione concettuale tra gli ebrei e i governi israeliani. Una tendenza, questa, che pare volere ammantare di una veste apparentemente politico-democratica sentimenti di avversione di matrice antisemita, sedimentati attraverso i secoli negli strati più profondi della mentalità collettiva con, tra le altre cose, il rischio di fornire alla colpevole indifferenza e all’inverosimile silenzio nel quale si è consumata la Shoah un’interpretazione mal celatamente rassomigliante alle considerazioni di Apione.

Anche per questo motivo, è bene che il 27 gennaio, il Giorno della memoria, continui a conservare l’importante spazio che le è stato assegnato tra le date nefaste nel calendario dell’umanità.

[1] Da non confondere con il movimento culturale rivolto al rinnovamento dell’ebraismo, sviluppatosi nell’Europa centro-orientale a partire dal XVIII secolo per poi diffondersi su tutto il continente e al di là dell’Oceano


Crediti immagine: skoles, 123rf.com

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