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La politica italiana 2008-2014 - Completo

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1. UNO SGUARDO GENERALE

Da «bipolare» a «tripolare». L’Italia politica del 2013. Negli ultimi cinque-sei anni il sistema politico italiano ha mutato radicalmente la pro­pria fisionomia. Al di là dei dettagli, le principali differenze tra l’Italia politica del 2008 e quella del 2013 sono riconducibili a un dato molto semplice ma estremamente problematico: alla crisi dell’asset­to «bipolare» che sin dal 1994, e ancora nel 2008, caratterizzava il sistema politico italiano e all’e­merge­re di un nuovo e assai complicato assetto «tripolare». A dare sostanza a questa trasformazione, manifestatasi in modo dirompente alle elezioni del 2013, sono stati per un verso il netto ridimensionamento dei due tradizionali poli di centrodestra e di centrosinistra e per un altro verso la straordinaria ascesa di una terza formazione politica dai caratteri molto particolari, il Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo.

Le cause della trasformazione del sistema politico italiano...Molteplici fattori hanno contribuito a determinare questa radicale ristrutturazione del nostro sistema politico. Il più importante è stato la grande crisi economica che dal 2007-2008, a partire dagli Stati Uniti, ha investito l’eurozona e, intorno al 2011, anche il nostro Paese, producendo acuto disagio sociale e fortissime tensioni in equilibri politici consolidati da tempo. Nello stesso senso hanno agito i vincoli sempre più stringenti imposti, proprio nel quadro della crisi, dall’Unio­ne europea ai singoli Stati nazionali europei, com­pre­so il nostro. Accanto a questi fattori esterni, hanno giocato un ruolo decisivo anche fattori interni. Tra i più rilevanti, la per­sisten­te instabilità del sistema politico; la sua incapacità di fornire risposte efficaci non solo all’e­mergen­za della crisi economica, ma anche all’esigenza di riforme strutturali da tempo all’ordine del giorno; e ancora, il dilagare di una corruzione di livello ormai patologico, che ha coinvolto una parte assai ampia della classe politica nazionale e locale.

... e i suoi effetti. Oggi la fase più acuta della crisi economica è ormai alle spalle, nonostante i pesanti strascichi che essa ha lasciato nel Paese. Nel frattempo, l’Italia politica è drasticamente cambiata. La disaffezione dei cittadini nei confronti della politica ha raggiunto livelli di guardia. Al tem­po stesso, il sistema politico, diviso fra tre grandi minoranze in ultima analisi incompatibili, appare per vari aspetti «bloccato», nonostante la relativa tenuta – almeno per ora – del «governo delle larghe intese». Se a tutto ciò aggiungiamo ancora le trasformazioni che nell’ul­timo scorcio del 2013 e al principio del 2014 hanno iniziato a prendere forma nel centrodestra, con la scissione del Popolo della libertà, e nel centrosinistra, con l’ascesa alla segreteria del Partito democratico di Matteo Renzi, è difficile sottrarsi all’impres­sione che si stia chiudendo una fase forse irripetibile della storia politica italiana. Non è però affatto chiaro che cosa ci attende: se un lungo e difficile periodo di transizione, una riedizione più o meno rinnovata della «seconda Repubblica» oppure, ancora, il passaggio a una nuova e per ora assai incerta «terza Repubblica».

2. L'ITALIA BIPOLARE. LE ELEZIONI DEL 13-14 APRILE 2008

Nuove forze in campo: il Partito democratico e il Popolo della libertà. Le elezioni del 13-14 aprile 2008 hanno segnato una svolta importante nella storia della «seconda Repubblica». Seguite alla caduta del governo Prodi (2006-2008) e alla fine anticipata della XV Legislatura, esse hanno prima sollecitato e poi registrato una rilevante ristrutturazione del sistema dei partiti che aveva preso forma sin dal 1994. Il cuore di questa ristrutturazione è stata la nascita, tra l’ottobre e il novembre 2007, di due nuove formazioni politiche: il Partito democratico (Pd) e il Popolo della libertà (Pdl). Il primo sorto dalla fusione delle due principali componenti del centrosinistra, i Democratici di sinistra (Ds) e la Margherita. Il secondo frutto della convergenza di Forza Italia di Silvio Berlusconi e di Alleanza nazionale di Gianfranco Fini in un unico soggetto politico. Sono stati questi due partiti, guidati rispettivamente da Walter Veltroni e da Berlusconi, i principali competitor delle elezioni del 2008. Le quali, come già quelle del 2006 e quelle del 2013, si sono svolte con una contestatissima legge elettorale, il cosiddetto Porcellum, che ne ha in qualche modo favorito gli esiti.

La vigilia e i risultati delle elezioni del 2008. Alla vigilia delle elezioni, facendo leva su quei dispositivi della legge elettorale che ponevano soglie di sbarramento alte per i partiti che correvano da soli, sia il Pd sia il Pdl provarono a forzare a proprio vantaggio la tradizionale frammentazione del sistema dei partiti con una politica di alleanze molto selettiva. Il Pd, in particolare, si presentò all’ap­puntamento elettorale con un unico alleato, l’Italia dei valori (Idv) di Antonio Di Pietro, prendendo le distanze dalla «sinistra radicale». Sul versante opposto, il Pdl si coalizzò con la Lega Nord di Umberto Bossi e con il Movimento per l’autonomia di Raffaele Lombardo. In tal modo, molte piccole e me­die formazioni politiche si trovarono a dover «correre da sole», rischiando di essere escluse dal Parlamento.
In questo quadro i risultati della consultazione elettorale furono molto netti. Essi diedero al centrodestra una forte maggioranza di voti: il 46,8% a fronte del 37,5% ottenuto dal centrosinistra. Parte non secondaria di questo successo fu dovuta alla prepotente ripresa della Lega Nord, che raddoppiò i suoi consensi (8,3%). Al di là di questo dato, tuttavia, lo scarto tra i due poli – 9,3%, circa 3,3 milioni di voti – era enorme: non soltanto rispetto alle consultazioni del 2006, ma rispetto a tutte le elezioni della seconda Repubblica, che non avevano mai dato un simile vantaggio alla coalizione risultata di volta in volta vincente.
A questo primo elemento di novità se ne deve aggiungere un secondo: l’uscita di scena di un gran numero di formazioni che avevano reso assai frammentato il quadro della politica italiana. Riuscirono infatti ad accedere alla Camera e al Senato soltanto sei forze politiche (circa la metà di quelle che erano presenti nel precedente Parlamento): i cinque partiti coalizzati nei due poli di centrodestra (Pdl, Lega, Movimento per l’autonomia) e di centrosinistra (Pd, Idv) e, unica eccezione tra i partiti non coalizzati, l’Udc di Casini, che ottenne il 5,6% dei voti. Si trattava di una drastica semplificazione del sistema dei partiti che, almeno per il momento, consolidava l’assetto «bipolare» della seconda Repubblica.

3. I GOVERNI DELLA XVI LEGISLATURA: BERLUSCONI (2008-2011) E MONTI (2011-2013)

Una legislatura, due governi, molte trasformazioni. La Legislatura inaugurata dalle elezioni del 2008 ha visto succedersi due governi: il governo Berlusconi (2008-2011) e il governo Monti (2011-2013). Al contempo, nel suo corso sono giunte a maturazione radicali trasformazioni della mappa dell’Italia politica, che dovevano poi emergere, dopo alcune avvisaglie, nelle elezioni del 2013.

IIl governo Berlusconi. Il governo Berlusconi fu ancora del tutto simile ai precedenti governi di centrodestra della «seconda Repubblica». Dotato inizialmente di una solida maggioranza alla Camera e al Senato, esso si insediò proprio mentre la crisi economica iniziata negli Stati Uniti nel 2007-2008 stava cominciando ad affacciarsi in Europa. Da allora, tuttavia, dovevano trascorrere quasi tre anni prima che la crisi investisse in modo diretto il nostro Paese. Tre anni in cui il centrodestra riprese le sue tradizionali ricette di governo. A partire dal 2011, quando – lo vedremo – l’esecutivo era già stato indebolito da clamorosi dissidi interni al Pdl, la crisi divenne invece l’emergenza primaria. Nell’estate di quell’anno, infatti, l’Italia cominciò a entrare nel mirino delle agenzie internazionali di rating come paese sostanzialmente inaffidabile. A luglio lo spread cominciò a impennarsi, rendendo sempre più spuntata l’arma del debito pubblico come strumento per finanziare il deficit e porre un argine alla crisi che, dal canto suo, aveva ormai investito l’econo­mia reale. Com’era accaduto anche in altri paesi dell’eurozo­na, l’Unione europea prese allora a esercitare fortissime pressioni affinché il Paese varasse politiche di rigore, manifestando il suo scetticismo nei confronti dell’ese­cutivo in carica. Una lettera della Banca centrale europea (Bce) inviata il 5 agosto, in via riservata, al governo italiano, a firma di Jean-Claude Trichet e Mario Draghi, indicava con estrema durezza quali misure il Paese avrebbe dovuto adottare «immediatamente» per uscire dalla crisi. Era l’inizio di un commissariamento di fatto del governo e dei suoi ultimi convulsi «cento giorni». In questo quadro Berlusconi, con una maggioranza ormai vacillante, dopo il varo della Legge di stabilità diede le dimissioni il 12 novembre 2011. Gli subentrò, per iniziativa del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, un governo «tecnico» guidato da Mario Monti.

Il governo Monti. Entrato in carica con uno spread fuori controllo, il governo Monti mise in atto le dure «direttive» dell’Eu­ropa con una serie di provvedimenti blindati da continue richieste di fiducia a un Parlamento di fatto ridotto all’impo­ten­za. Furono quattro le sue principali linee di intervento: un significativo aumento della pressione fiscale, una altrettanto rilevante riduzione della spesa pubblica, una controversa riforma del sistema pensionistico e una ancor più contestata riforma del mercato del lavoro, entrambe legate al nome del ministro del Welfare Elsa Fornero. Le riforme permisero di rimettere un qualche ordine nei conti pubblici e di ristabilire la fiducia dei mercati e dell’Ue nell’Italia. Al tempo stesso, però, esse non riuscirono ad attivare significative spinte alla crescita. Al contrario, strinsero il Paese in una spirale di austerità e recessione dai pesantissimi costi sociali. Sul piano politico il governo Monti, anche per le modalità del suo operare, contribuì ad acuire la disaffezione dei cittadini per la politica e il risentimento verso l’Europa e le sue istituzioni, a partire dalla moneta unica, coinvolgendo in questo clima di sfiducia gli stessi partiti che lo avevano sostenuto, il Pd e il Pdl. Non è quindi un caso che, alla vigilia delle elezioni, abbia iniziato a consumarsi il divorzio tra i tecnici e la politica.

Le dimissioni del governo Monti. Fu il Pdl, il 6 dicembre 2012, a togliere il proprio sostegno al governo. Dopo l’approvazione della Legge di stabilità, dunque, il premier il 21 dicembre diede le dimissioni, rimanendo in carica sino alle elezioni per la nuova Legislatura. Il 28 dicembre, egli annunciò la propria decisione di candidarsi alle elezioni. E il 4 gennaio 2013 presentò il proprio movimento, Scelta civica. Si chiudeva in questo modo l’anomala avventura del «governo tecnico».

4. VERSO L'ITALIA TRIPOLARE. IL RIDIMENSIONAMENTO DEL CENTRODESTRA E DEL CENTROSINISTRA E L'ASCESA DEL MOVIMENTO 5 STELLE

L’Italia politica dopo le dimissioni del governo Monti. Al momento delle dimissioni del governo Monti la mappa dell’Italia politica era già molto diversa da quella del 2008.

La crisi del centrodestra. Tre scosse di terremoto. Le trasformazioni più evidenti si manifestarono nel centrodestra. Dopo la vittoria alle elezioni del 2008, il Pdl e la Lega continuarono a mantenere un significativo vantaggio sul centrosinistra alle europee del 2009 e alle regionali del 2010. Fu tuttavia dopo le regionali che il centrodestra cominciò a essere investito da vere e proprie scosse di terremoto. La prima fu la rottura tra Fini e Berlusconi, che si consumò tra l’aprile e il luglio del 2010, quando l’ex leader di An uscì dal gruppo parlamentare del Pdl dando vita a un gruppo parlamentare indipendente, Futuro e libertà (Fli), trasformatosi poi in un partito vero e proprio. La seconda scossa fu la caduta del governo. Essa non sanciva soltanto il fallimento dell’esperienza di governo di Berlusconi, costellata tra l’altro da una serie ininterrotta di scandali che coinvolgevano lo stesso premier e molte figure di primo piano del Pdl e da un duro scontro con la magistratura. Essa segnalava anche che le strade di ciò che rimaneva del centrodestra del 2008 stavano cominciando a dividersi sul serio. Mentre infatti il Pdl continuò a sostenere in Parlamento il governo Monti, la Lega passò all’opposi­zione, rispolverando parole d’ordine radicali e le vecchie minacce secessioniste. Fu proprio la Lega, però, a essere travolta da una terza violenta scossa di terremoto tra la fine del 2011 e l’aprile del 2012. I suoi vertici, il suo stesso leader e la sua famiglia, furono infatti coinvolti in una serie di scan­dali legati all’uso privato dei fondi del partito, derivanti a loro volta da una sempre più odiata legislazione sul finanziamento pubblico dei partiti. Bossi rassegnò le dimissioni da segretario il 5 aprile del 2012. Gli subentrò Roberto Maroni, in una situazione di profondo disorientamento. L’a­scesa irresistibile della Lega tra il 2008 e il 2010 doveva così rovesciarsi in un rovinoso declino.

Lo stallo del centrosinistra. Anche il centrosinistra non godeva di ottima salute. Il Pd riuscì però a evitare clamorose spaccature, cercando di trovare un equilibrio tra le sue due principali anime, quella socialdemocratica e quella cristiano-so­ciale, tra le sue molteplici correnti e, ancora, tra le sue spinte centriste e quelle più radicali. I tre segretari che si avvicendarono alla sua guida fino all’inizio del 2013 – Walter Veltroni (2007-2009), Dario Franceschini (2009) e poi Pier Luigi Bersani (2009-2013) – presero atto della crisi in cui versava il partito, aggravata dal suo coinvolgimento in svariati episodi di corruzione soprattutto a livello locale. Con Bersani, diventato segretario il 25 ottobre 2009 in seguito alle primarie, il Pd riuscì a risollevare parzialmente le proprie sorti. Sicché alla fine del 2012 poté disporsi con un cauto ottimismo alle ormai imminenti elezioni politiche. Lo stesso Bersani, alle primarie per la premiership, risultò vincente sul suo principale antagonista, il sindaco di Firenze Matteo Renzi.
Al di là del Pd, la vecchia sinistra radicale continuava a versare in una situazione di crisi, anche se era nel frattempo sorta, nel 2009, una nuova e più dinamica formazione politica, Sinistra ecologia libertà (Sel), che doveva allearsi con il Pd per le elezioni del 2013. L’Idv di Antonio Di Pietro, dopo aver raccolto ancora significativi consensi tra il 2009 e il 2011, entrò anch’essa in crisi. Il suo stesso leader, il magistrato simbolo di «Mani pulite», fu accusato da ultimo, nel corso di un’inchiesta giornalistica dell’ot­tobre 2012, di aver fatto un uso disinvolto dei fondi del partito a scopo di arricchimento personale.

«Tutti a casa». Il Movimento 5 Stelle. È in questo quadro che prese il volo una nuova formazione politica: il Movimento 5 Stelle dell’ex comico Beppe Grillo e di Gianroberto Casaleggio. L’avventura politica del movimento era già iniziata nel 2005, con la creazione del blog beppegrillo.it. La Rete e il blog divennero poco per volta il punto di riferimento del movimento e lo strumento per consolidare online e poi offline, soprattutto a livello locale, i rapporti tra gli attivisti. Nel 2007, con l’organizzazione dei primi V-Day – durante i quali Grillo lanciava i suoi strali contro la classe politica – e la creazione delle Liste civiche certificate, il movimento passò dalla Rete alla Piazza, tentando i primi esperimenti di partecipazione alle elezioni locali. Seguì, nel 2009, la vera e propria fondazione del Movimento 5 Stelle, che riportò crescenti successi elettorali nelle regionali del 2010, nelle amministrative del 2011 e del 2012 e, ancora, nelle regionali siciliane dell’ot­tobre 2012, nelle quali il M5S divenne il primo partito dell’isola. Attraverso queste esperienze, il Movimento assunse una fisionomia complessa. Sia dal punto di vista del suo progetto politico, in continua oscillazione tra l’esal­tazione di un modello di democrazia dal basso, diretta e partecipativa, resa possibile dalle potenzialità della Rete, e l’emergere di forti pulsioni leaderistiche e populistiche. Sia dal punto di vista della sua composizione politica, caratterizzata da un nucleo originario di centro-sinistra e di sinistra libertaria, a cui però si aggiunsero poi elettori e attivisti provenienti dal centrodestra e dall’area del non voto. Al di là degli interrogativi sulla sua natura, una cosa era certa alla fine del 2012: che il M5S avrebbe giocato un ruolo di tutto rilievo alle elezioni del 2013.

5. DALLE ELEZIONI DEL 2013 AL GOVERNO DELLE «LARGHE INTESE»

Quattro competitor. Furono dunque quattro i principali competitor che si affrontarono nelle elezioni del 2013. Il primo era il Pdl, che riuscì ancora una volta a ottenere il sostegno della Lega e di alcuni frammenti della destra che aveva preso le distanze da Fini, Fratelli d’Italia e la Destra. Il secondo era il Pd, alleato con Sel e il Centro democratico, una piccola formazione derivata in parte da una costola dell’Idv e in parte dall’Udc. Il terzo era il M5S, rigorosamente senza alleati. Il quarto, infine, era Scelta civica di Monti, che si coalizzò con l’Udc di Casini e Fli di Fini. Accanto a queste forze, tentarono una corsa senza prospettive altre liste, delle quali quasi nessuna riuscì a ottenere l’1% dei voti. Unica eccezione fu Rivoluzione civile di Antonio Ingroia, che raccoglieva l’eredità dell’Idv e di alcuni pezzi della sinistra radicale. Con un modesto 2,25% essa non riuscì tuttavia a entrare in Parlamento.

I risultati elettorali. Il verdetto delle urne andò oltre ogni previsione. Risultò vincente il centrosinistra, che ottenne – se facciamo riferimento per semplicità ai risultati della Camera senza considerare la circoscrizione «estero» e la Valle d’Aosta – il 29,55% dei voti (e i 340 seggi previsti dal Porcellum come premio di maggioranza). Il centrodestra ottenne il 29,18% dei voti – circa 125.000 voti in meno del centrosinistra – e 124 seggi. Il M5S conquistò uno strepitoso 25,56%, e 108 seggi. Deludente rispetto alle aspettative, ma comunque significativo, fu il risultato della coalizione guidata da Monti, che ottenne il 10,56% e 45 seggi. Se guardiamo agli stessi risultati con riferimento ai singoli partiti emergeva un quadro di estremo interesse. Fermo restando il 25,56% del M5S, il Pd ottenne il 25,43%, il Pdl il 21,56%, Scelta civica l’8,30%. La Lega Nord precipitò al 4,09%. I due alleati di Monti, Udc e Fli, si attestarono rispettivamente all’1,79% e allo 0,47%. Il Movimento 5 Stelle era dunque diventato il primo partito italiano (il secondo per poche decine di migliaia di voti se contiamo anche i risultati della circoscrizione estero). E i due poli di centrodestra e di centrosinistra, che nel 2008 rappresentavano insieme circa l’84% dei votanti, rappresentavano adesso poco meno del 59%. L’Italia politica, insomma, da «bipolare» era diventata «tripolare». Poiché però uno di questi tre poli si dichiarava del tutto indisponibile a qualsiasi accordo con uno degli altri due, doveva derivarne un vero e proprio «blocco» del sistema politico.

Un sistema bloccato. Alle elezioni seguì una fase convulsa. Lo si vide in occasione dell’elezione del presidente della Repubblica, che riportò per la seconda volta al Quirinale Napolitano, fatto inedito nella storia repubblicana. Fallì poi l’ipotesi di un governo Bersani, per la decisione del M5S di non fornire alcun sostegno alla sua candidatura. Si venne così a creare una situazione di stallo, osservata con crescente apprensione dai mercati, dalle agenzie di rating e dai vertici dell’Ue.

La formazione del governo Letta. È in questo quadro che prese vita il 28 aprile il governo delle «larghe intese» guidato da Enrico Letta. Si trattava di un governo a guida Pd, ma sostenuto da una maggioranza che comprendeva, in un’alleanza che suonava del tutto innaturale, i due antagonisti storici della seconda Repubblica, il Pd e il Pdl, e Scelta civica. Restavano fuori dall’alleanza, oltre ai «grillini», Sel, Fratelli d’Italia e la Lega Nord. Ancora una volta, come nel caso del governo Monti, l’im­pulso alla formazione del governo provenne dal presidente della Repubblica. E ancora una volta il governo ebbe una natura emergenziale. Due dati fondamentali, tuttavia, rendevano profondamente diversa l’esperienza del «governo dei professori» da quella del «governo delle larghe intese». Il primo è che, questa volta, l’esecuti­vo aveva una natura e una composizione «politica» e non più «tecnica». Il secondo è che esso non rispondeva più, almeno non direttamente, a un’e­mergenza economica, ma a un’emer­genza squisitamente politica.

L’ulteriore evoluzione del quadro politico. In un quadro del genere, il nuovo governo doveva avere una vita estremamente difficile. Esso iniziò a mettere in campo importanti misure in materia di tasse, di sviluppo economico e di riforme politiche e istituzionali, avviando anche – sotto il pungolo del M5S e dell’antipo­litica dilagante – una prima significativa riforma sul terreno dei «costi della politica». È tuttavia ancora troppo presto per valutare gli effetti di questi primi provvedimenti, che giungevano in una fase di relativa fuoriuscita dagli anni più bui della crisi. Di certo, però, dal momento dell’insediamento del nuovo esecutivo, il quadro della politica italiana si è ulteriormente complicato. Per due sviluppi che hanno reso, se possibile, ancora più fragile l’esperienza delle larghe intese e più incerto il profilo dell’Italia politica.

La fine del Pdl e la «decadenza» di Berlusconi. Il primo sviluppo fu la fine dell’espe­rienza del Pdl e la nascita, sulle sue ceneri, nel novembre 2013, di una nuova «Forza Italia», fortemente voluta da Berlusconi, e del «Nuovo Centrodestra» di Angelino Alfano, ex delfino del Cavaliere e vicepresidente del Consiglio nel governo Letta. Si trattava, in pratica, di una scissione del vecchio Pdl, aggravata nei suoi effetti, sempre nel novembre, dalla decadenza di Berlusconi da senatore della Repubblica in seguito alla sua condanna definitiva per frode fiscale nel processo Mediaset. La conseguenza di questi terremoti fu che a fine novembre, in concomitanza con l’appro­vazione della Legge di stabilità e il voto del Senato sulla «decadenza» di Berlusconi, Forza Italia tolse il proprio sostegno al governo delle «larghe intese», che divennero così assai più «strette», nonostante il sostegno del Nuovo Centrodestra.

L’ascesa alla segreteria del Pd di Matteo Renzi. Anche nel Pd si produssero grandi sommovimenti. Dopo le elezioni del 2013 e la crisi che ne era seguita, Bersani aveva rassegnato le dimissioni (20 aprile). Gli subentrò alla guida del partito Guglielmo Epifani, con un incarico di transizione in vista delle primarie per l’elezione del nuovo segretario, che si tennero infine l’8 dicembre 2013. In esse prevalse con un’ampia maggioranza Matteo Renzi. Si trattava, anche in questo caso, di un vero e proprio terremoto politico, che doveva ridisegnare la mappa del potere e delle correnti all’interno del Pd e mettere sotto pressione lo stesso governo delle larghe intese. Un governo ormai espressione di un Pdl che non esisteva più e di un Pd in via di radicale rinnovamento. Un governo, inoltre, assediato da tre leader dalle forti capacità demagogiche: l’osti­lissimo Beppe Grillo, l’ostile Silvio Berlusconi e il relativamente ostile Matteo Renzi. Un governo, infine, messo alla prova da un aspro dibattito sulla futura legge elettorale da dare al Paese dopo la sentenza della Consulta che, nel dicembre 2013, aveva decretato l’incostituzionalità del Porcellum.

6. QUALI PROSPETTIVE?

La scomparsa dell’Italia politica del 2008. Fin qui i principali sviluppi della politica italiana più recente. Se prendiamo come punto di riferimento l’Italia politica del 2008, possiamo dire che quasi nulla di quell’Italia esiste più. Il Pdl è scomparso e, almeno in parte, ha visto il suo storico leader uscire (forse) di scena. La Lega è tramontata insieme al suo mitico «Capo», sostituito prima da Maroni e poi sbaragliato dal neosegretario Matteo Salvini alle primarie del partito tenutesi nel dicembre 2013. Il Pd continua a esistere, ma è un arcipelago in movimento, forse prossimo all’implosione, che potrebbe però trasformarsi – com’è è stato per tutti i partiti della seconda Repubblica e come avviene nelle cosiddette «democrazie del pubblico» – in un nuovo «partito personale» che gioca le sue fortune in televisione e sui giornali più che nelle sue sezioni territoriali. L’Udc e An sono tramontate. E così l’Italia dei valori. Uno dei pochi dati stabili è che la sinistra radicale sembra essere scomparsa. Per il resto, con l’ascesa del Movimento 5 Stelle, l’Italia non ha soltanto cessato di essere bipolare. Si è anche bloccato quel meccanismo proprio di tutte le democrazie avanzate che è l’alternanza al governo di maggioranza e opposizione.

  Prospettive future? Il fatto che l’Italia politica del 2008 sia scomparsa non significa che la cosiddetta «seconda Repubblica» – come la si definisce ormai abitualmente nel linguaggio giornalistico – sia giunta al suo crepuscolo e che sia ormai all’orizzonte una qualche, ancora indefinita, «terza Repubblica». Molto dipende dall’evoluzione del centrodestra dopo la scissione e del centrosinistra nell’era Renzi. Moltissimo, però, dipende dalle sorti future del M5S, al momento poco prevedibili. Com’è già accaduto in altri momenti difficili della nostra storia repubblicana, ad esempio nel dopoguerra con l’Uomo qualunque, il successo del M5S potrebbe essere il frutto di un’e­splo­sione temporanea di disagio sociale e politico, destinata a esaurirsi nell’ar­co di poco tempo: s’inten­de: nelle sue ricadute politiche più che nella sua sostanza. Se così fosse, i futuri sviluppi della politica italiana potrebbero restituirci, più o meno rinnovata, la vecchia «seconda Repubblica». Se invece così non fosse, se l’Italia politica dovesse cioè mantenere il suo attuale e anomalo profilo «tripolare», dovremo invece aspettarci, con ogni probabilità, un lento e forse pericoloso avvitamento in una transizione senza fine, dalla quale però non è affatto detto che possa emergere una nuova «terza Repubblica».

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