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La speranza, motore della storia

Secondo lo storico inglese Peter Burke, la storia della speranza si snoda tra quelli che definisce “momenti di euforia”. Partendo dal saggio di Burke, Aldo Carioli spiega il ruolo della speranza come motore inesauribile della storia e spesso delle rivoluzioni, tra le aspettative dei popoli e quelle dei singoli individui.

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Negli ultimi tempi l’umanità sembra avere esaurito le scorte di speranza: riscaldamento globale ed emergenza climatica, crisi economiche, energetiche e sociali, pandemia e guerre non lasciano molto spazio all’ottimismo. Eppure la speranza è stata un potente “motore della storia”, dando a tanti la forza di resistere in tempi durissimi e lottare per un futuro migliore.

Perché di questo parliamo quando parliamo di speranza: un’aspettativa di cambiamento che ci spinge ad agire per trasformare in realtà aspirazioni individuali o collettive. Del resto, la parola “speranza” nelle lingue romanze deriva dal latino spes, a sua volta da una radice indoeuropea che significava “tendere verso qualcosa”. In modo simile, l’inglese hope e il tedesco Hoffnung discendono dall’anglo-sassone hopian, che esprimeva l’attesa di un evento positivo.

Momenti di euforia

Lo storico sociale britannico Peter Burke, in un suo articolo pubblicato dall’Università di San Paolo (Brasile), si chiede: Does Hope Has a History? La risposta è sì. Nella ricostruzione di Burke la storia della speranza si snoda tra quelli che definisce “momenti di euforia”. Momenti che nella nostra visione eurocentrica coincidono con alcune date cruciali: 1776 (guerra d’indipendenza americana), 1789 (rivoluzione francese), 1848 (moti liberali europei), 1917 (rivoluzione russa), 1968 (movimenti studenteschi negli Stati Uniti e in Europa, rivoluzione culturale e del costume), 1989 (caduta del Muro di Berlino), per citarne alcuni.

«Chi ha studiato le rivoluzioni ha dimostrato che esse avvengono generalmente a causa di aspettative crescenti e speranze che, frustrate, scatenano la protesta», scrive Burke. «A loro volta, questi “momenti magici” di azione collettiva influenzano l’immaginario sociale, dando a chi vi prende parte la sensazione che tutto sia possibile». Doveva pensarlo anche l’anonimo manifestante che nel 1968, a Parigi, scrisse su un muro “L’imagination au pouvoir”, dando voce ai sentimenti di un’intera generazione.

Le grandi speranze alimentate dai movimenti collettivi hanno caratteristiche comuni: sono contagiose, si diffondono facilmente da un Paese all’altro e tendono a persistere. La Francia rivoluzionaria, la Russia sovietica e la Cina maoista, per esempio, furono a lungo società-modello per chi viveva fuori dai loro confini. È l’onda lunga che tiene accesa la speranza per decenni o persino per secoli.

La difficile conquista dei diritti civili da parte degli afroamericani ne è un esempio. Nella Dichiarazione d’indipendenza (1776) la “ricerca della felicità” è un diritto inalienabile, insieme alla vita e alla libertà. Ma soltanto con l’“euforia” degli anni Sessanta del Novecento la lotta per i diritti civili trasformò in realtà, per gli afroamericani, enunciazioni di principio che per loro erano rimaste lettera morta durante tre secoli. Il passaggio dalla speranza all’azione avvenne quando la misura della discriminazione fu colma e, nello stesso tempo, tra afroamericani e progressisti bianchi, si diffuse la consapevolezza di poter trasformare la società attraverso la mobilitazione. La speranza richiede pazienza e condizioni favorevoli, per dare i suoi frutti.

Una forza utopica

La dinamica di lungo periodo è al centro della riflessione di un altro “teorico della speranza”, lo scrittore e filosofo tedesco Ernst Bloch (1885-1977). Marxista, pacifista, esule dalla Germania nazista prima e dalla Repubblica democratica tedesca poi, Bloch vede nella speranza una “forza utopica” che chiama Principio speranza. Il Principio speranza può prendere forma nelle religioni, nei movimenti politici, più in generale ovunque sia presente un elemento “messianico”. Nascono così le “grandi speranze” offerte dalle fedi monoteiste: il riscatto futuro di chi oggi è oppresso (gli Ebrei durante la deportazione a Babilonia), la ricompensa eterna dopo la morte per chi in vita soffre ai margini della società (Gesù nei Vangeli promette agli ultimi “il Regno dei cieli”). Ma anche la fine del ciclo delle reincarnazioni nel buddismo.

In un ambito più mondano, spiega ancora Burke, le grandi speranze confluirono nel socialismo utopico. Tra Settecento e inizio Ottocento questo ideale convinse migliaia di persone a formare comunità come quella fondata in Scozia da Robert Owen a New Lanark. New Lanark, nata grazie alle aspettative suscitate dalla Prima rivoluzione industriale, rappresentava un modello di comunità che mirava a migliorare le condizioni di vita, liberando l’umanità dalla fatica del lavoro. Tuttavia, se per i suoi abitanti (circa 2.500 persone), l’esperimento funzionò (la cittadina-fabbrica rimase in attività fino al 1968), per milioni di britannici, soprattutto minori vittime dello sfruttamento durante la Rivoluzione industriale, quel sogno rimase irrealizzato.

Piccole grandi speranze

Nonostante le delusioni di metà Ottocento, i giovani dell’Età vittoriana continuarono a coltivare le stesse Great Expectations (Grandi speranze, nella versione italiana) del tenace Pip, protagonista nel romanzo omonimo di Charles Dickens (1860-61). Accanto alle grandi speranze collettive ci sono infatti le “piccole speranze” di ciascuno di noi.

Burke cita il caso dei lavoratori del settore automobilistico americano negli anni Cinquanta, molto studiato dai sociologi. L’ideale “sogno americano” di libertà si trasformò, nella classe lavoratrice bianca del secondo dopoguerra, in più modeste aspirazioni materiali: la casa di proprietà, l’automobile, le vacanze.

In condizioni opposte, quando una vita dignitosa è soltanto un miraggio, la speranza individuale mostra la sua forza più grande: spinge gli individui a resistere dove non c’è libertà, a lasciare la propria terra in cerca di una vita migliore, a lottare per emanciparsi e ottenere giustizia.

Viktor Frankl (1905-1997), psicologo viennese deportato nei campi di sterminio nazisti, sopravvisse – come spiegò lui stesso – concentrandosi sul significato di quella sofferenza e su ciò che avrebbe fatto se fosse uscito vivo dal lager. Finita la guerra, Frankl tradusse in teoria della mente la propria esperienza: cercò di capire come la speranza e il significato che ciascuno di noi dà al proprio vissuto possano aiutare a superare le peggiori avversità. La disciplina che fondò, la logoterapia, cerca una via di uscita dalla sofferenza dando un senso (logos) all’esistenza, partendo dall’idea che ognuno di noi è unico e irripetibile.

Il film Io capitano (2023) di Matteo Garrone racconta una vicenda simile: la speranza di ritrovare l’amico fraterno e compagno di viaggio Moussa, scomparso nei campi di prigionia libici, e il desiderio di riscattare i tanti che non ce l’hanno fatta durante la traversata del deserto, dà al migrante Seydou la forza di andare avanti, fino ad approdare sulle coste italiane. Come scriveva Dante Alighieri, dove finisce la speranza finisce tutto. E per non farcelo dimenticare lo immaginò scritto sulla porta dell’Inferno.


Crediti immagine: Horace Vernet, Barricate in rue de Soufflot nel 1848. Berlino, Deutsches Historisches Museum.

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