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Pandemia

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Il tratto sicuramente più caratteristico dell’«era globale» consiste nella sproporzione crescente tra la natura dei problemi che sfidano il genere umano e gli strumenti di cui esso dispone per risolverli. I primi hanno sempre più spesso dimensioni planetarie. Si pensi, per fare solo qualche esempio, al governo dell’economia, alle migrazioni, all’ambiente o al clima. I secondi, invece, sono ancora legati alla realtà tipicamente locale degli Stati-nazione, piccoli, medi o grandi che siano. Gli uni sono sempre più colossali. Gli altri sempre meno efficaci. Il risultato è un pericolosissimo circolo vizioso: si moltiplicano e si aggravano le turbolenze, le emergenze, le «crisi»; cresce l’incapacità di tenerle sotto controllo; e dilagano per reazione, in un quadro di disorientamento generale, le pulsioni «sovraniste», la tentazione di fortificare confini e frontiere e di fare da sé. In questo modo, i tentativi di risolvere i problemi finiscono per aggravarli ulteriormente. La recente pandemia di Covid-19 – o se si preferisce di Coronavirus o di SARS-CoV-2 – ha mostrato ancora una volta questo stato di cose, mettendo sotto crescente tensione, anche se in diversa misura, i governi di tutto il mondo.  

I dati del contagio

Conviene anzitutto partire dai numeri complessivi del contagio, che per mesi sono andati crescendo di giorno in giorno. Il sito dell’Organizzazione mondiale della sanità ne offre una rappresentazione imperfetta e sicuramente sottostimata – ma già così altamente drammatica – a partire dall’inizio di gennaio 2020. È allora che l’epidemia, iniziata sicuramente qualche mese prima, è venuta alla luce nella megalopoli cinese di Wuhan, nella provincia di Hubei, nella forma di una malattia respiratoria acuta e di eziologia ignota, una polmonite atipica e particolarmente aggressiva.
Crediti: Gautier Delecroix - flickr
Da allora al 18 maggio 2020 – quasi cinque mesi – sono stati «certificati» nel mondo 4.628.903 casi di Coronavirus, così distribuiti: 2.017.811 nelle Americhe, 1.890.467 in Europa, 346.276 nel Mediterraneo orientale, 168.724 nel Pacifico occidentale, 143.750 nell’Asia sud-orientale, 61.163 in Africa. I dieci paesi con il maggior numero di contagi accertati, sempre al 18 maggio 2020, erano gli Stati Uniti (1.432.265), la Federazione Russa (290.678), il Regno Unito (243.699), il Brasile (233.142), la Spagna (231.350), l’Italia (225.435), la Germania (174.697), la Turchia (149.435), la Francia (140.036) e l’Iran (122.492). La Cina, dalla quale tutto è partito, contava 84.494 casi. Si tratta, naturalmente, di una «classifica» che è andata mutando nel corso dei mesi e che per un certo periodo, dopo l’inziale primato della Cina, ha visto l’Italia ai vertici della graduatoria. Drammatico, e anche molto complesso, il conteggio dei morti. Esso considera insieme – ma con rilevazioni diverse da paese a paese – i decessi «per Covid» e «di Covid», molto difficili da distinguere in soggetti portatori di altre patologie gravi, soprattutto gli anziani, particolarmente colpiti. Al 18 maggio, comunque, le vittime «ufficiali» della pandemia erano complessivamente 312.009, così distribuite tra i dieci paesi maggiormente coinvolti: 87.180 negli Stati Uniti, 34.636 nel Regno Unito, 31.908 in Italia, 28.059 in Francia, 27.650 in Spagna, 15.633 in Brasile, 9.052 in Belgio, 7.935 in Germania, 7.057 in Iran, 5.702 in Canada. La Cina – se il dato corretto o quanto meno attendibile – ha certificato «soltanto» 4.645 morti. Si tratta di numeri molto importanti e in costante evoluzione. Almeno per ora, essi sono del tutto imparagonabili a quelli dell’influenza «spagnola» del 1918-1920, che causò probabilmente – ma il conteggio è incerto – 50 milioni di morti, nel contesto complicatissimo delle fasi finali della Grande Guerra e dell’immediato dopoguerra, in un contesto medico-sanitario molto diverso. Ma sono anche differenti da quelli assai meno elevati delle più recenti epidemie e pandemie di SARS nel 2002-2004 (circa 8.000 contagi e poco meno di 800 morti), di influenza suina nel 2009-2010 (oltre 1.630.000 casi e poco meno di 20.000 morti), di MERS nel 2012-2016 (1.132 casi e 668 morti) e di Ebola nel 2014-2016 (28.616 casi e 11.310 morti). Di fronte alla crescita esponenziale dei contagi e alla loro diffusione in più paesi, l’11 marzo 2020 l’Organizzazione mondiale della sanità, attraverso il suo Direttore Generale Tedros Adhanom Ghebreyesus, ha dichiarato lo stato di pandemia. Da quel momento il mondo intero è entrato, in parte bruscamente e in parte al rallentatore, in una specie di incubo da cui è assai difficile risvegliarsi.  

Il pianeta stretto

Non sono chiare le cause che hanno scatenato i primi focolai endemici in Cina, poi l’epidemia e infine la pandemia vera e propria. Sul punto sono circolate le ipotesi più diverse e anche più fantasiose. È invece evidente che il vettore della diffusione planetaria del virus è stata, insieme alla sua elevata contagiosità, l’incredibile mobilità delle persone che caratterizza l’era globale. Eravamo abituati a pensare che la strepitosa interconnessione del mondo riguardasse anzitutto bit, informazioni, merci, denaro. Ci era anche ben noto che nel cosiddetto «pianeta stretto» si spostano in modo continuo anche le persone. Nel nostro immaginario, però, collegavamo questa mobilità a ristrettissime élites di «globali» a proprio agio in qualsiasi angolo del pianeta e, soprattutto, ai consistenti flussi migratori dal Sud al Nord del mondo che sono letteralmente esplosi negli ultimi decenni. Sulla traccia del virus e dei danni che esso ha inflitto, abbiamo invece scoperto che siamo pressoché tutti in contatto con tutti, a ogni latitudine e longitudine. E che frontiere e confini, almeno in questo caso, semplicemente non esistono. Sicché quanto accade in un mercato di animali vivi di una grande città della Cina orientale impatta quasi immediatamente sulla salute di milioni di persone che vivono a migliaia di chilometri di distanza, da Milano a Madrid, da Parigi a Londra, da New York a Rio de Janeiro. È una lezione sonora – il cosiddetto «effetto farfalla» – che ci aveva già dato l’incidente nucleare di Chernobyl nel 1986 e che ci viene ribadita quotidianamente dagli allarmi crescenti sulla questione ambientale e sul riscaldamento climatico.  

Gli effetti della pandemia: l’emergenza sanitaria e la crisi economica

Sono in parte certi e in parte molto incerti gli effetti che la pandemia ha prodotto nel presente e continuerà a produrre nel futuro. Il primo, il più immediato, è stata l’emergenza sanitaria, con il collasso quasi completo delle strutture ospedaliere e di cura di molti dei paesi coinvolti nel contagio, che sono poi – almeno per il momento – i paesi più avanzati del mondo quanto a risorse economiche, sviluppo scientifico, expertise medica e sistemi sanitari. È semplicemente inimmaginabile cosa potrebbe accadere se il virus atterrasse in forme massicce nelle regioni del mondo meno fortunate, che pure hanno già più volte sperimentato fenomeni del genere. Nel contempo la moderna scienza medica ha mostrato tutti i suoi limiti, invero ben chiari da sempre in primo luogo agli scienziati e ai medici stessi. Beninteso: essa ha strappato svariate centinaia di migliaia di donne e uomini a morte certa, spesso con costi personali altissimi. Ma ha dovuto giocare in difesa, con sistemi sanitari avanzati ed efficienti ma inadeguati per un’emergenza di questo tipo, e senza riuscire per ora a sconfiggere il virus. Lo faranno – prima o poi – i più attrezzati laboratori del mondo, scoprendo e sperimentando farmaci o vaccini efficaci che dovranno quindi essere prodotti in massa e fatti circolare dappertutto. Nel frattempo, però, le uniche armi che la medicina del XXI secolo ha potuto mettere in campo contro la diffusione di un nemico invisibile e insidiosissimo sono state, insieme alle caratteristiche mascherine, le ricette antiche del «distanziamento sociale» e le pratiche, un po’ meno antiche, dell’igiene personale.
Roma, serrande abbassate in Italia durante il lockdown. Crediti foto: nicola - flickr
L’emergenza sanitaria, tuttavia, non è stato l’unico effetto della pandemia. Accanto ad essa – e in significativa tensione con i suoi imperativi – è esplosa una seconda e altrettanto drammatica emergenza socioeconomica, i cui effetti si protrarranno per chissà quanto tempo e con chissà quali ulteriori conseguenze. A detta di tutti, questa seconda emergenza ha già superato di gran lunga, per gravità, quella prodotta dalla Grande Recessione, la tremenda crisi finanziaria e poi economica che a partire dagli Stati Uniti nel 2007-2008 si è sviluppata su scala planetaria. Ben più di quella crisi invero mai terminata del tutto, il Covid e poi le misure di confinamento (il «lockdown») imposte dal contagio hanno infatti quasi paralizzato l’intera economia mondiale: non soltanto quella delle grandi imprese multinazionali e delle reti del traffico internazionale – si pensi ad esempio al mercato dell’auto e, a cascata, a tutto ciò che gira intorno ad esso, petrolio compreso, oppure alle compagnie aeree – ma anche milioni di piccole e medie aziende, di piccoli e talora piccolissimi esercizi commerciali, attività professionali, ditte artigianali, per non parlare del comparto del turismo. Il tutto nel quadro di spettacolari turbolenze dei mercati finanziari, che aggravano ulteriormente la situazione.
Viaggiatori all'aeroporto di Atlanta, 6 marzo 2020 (Crediti foto: Chad Davies - flickr)
Gli analisti del Fondo Monetario Internazionale stimano per il 2020 un impatto molto severo della pandemia sulle prospettive di crescita dell’economia mondiale, con deboli proiezioni di ripresa nel 2021. Essi calcolano una caduta del Pil mondiale di -3 punti percentuali, che salgono a -5,9 negli Stati Uniti e a -7,5 nell’eurozona, con la Germania a -7,0, la Francia a -7,2, la Spagna a -8,0, l’Italia a -9,1. Sempre restando nel campo delle economie avanzate, ma fuori dall’area euro, Regno Unito, Canada e Giappone si attesterebbero rispettivamente a -6,5, -6,2 e -5,2. Tra i cosiddetti mercati emergenti e le economie in via di sviluppo, si oscilla tra il significativo rallentamento dell’economia cinese (dal 6,1 del 2019 all’1,2 del 2020) e di quella indiana (dal 4,2 del 2019 all’1,9 del 2020) e le percentuali negative di Russia (-5,5), Brasile (-5,3), Messico (-6,6), Nigeria (-3,4) e Sudafrica (-5,8). Il tutto accompagnato da una flessione assai consistente del commercio mondiale, pari a -12 punti percentuali. Sono numeri freddi e terribili, che si traducono in vere e proprie catastrofi sociali e personali se guardiamo al mondo del lavoro. L’International Labour Organization ha stimato in prospettiva un incremento stabile della disoccupazione mondiale di quasi 25 milioni di persone, che si andrebbero ad aggiungere ai quasi 190 milioni di disoccupati del 2019. Intanto nei soli Stati Uniti, nell’immediatezza dell’emergenza, a causa di chiusure e licenziamenti i disoccupati sarebbero saliti tra marzo e aprile di oltre 20 milioni di unità, con un drammatico accumularsi di richieste di sussidio. In Europa la stima è di 12 milioni di posti di lavoro perduti. È dunque tornata a crescere la povertà relativa e quella assoluta, che rappresentano una vera e propria bomba sociale. A fronte di queste cifre e proiezioni i governi di gran parte del mondo hanno dovuto mettere in campo misure massicce a sostegno della produzione e del commercio e intervenire con tutti i dispositivi possibili di protezione sociale a favore di coloro che hanno interrotto o addirittura chiuso le proprie attività e che hanno perso il lavoro. In questo modo, gli Stati si stanno indebitando in misura eccezionale, con costi che ricadranno sulle generazioni future e che sarà ben difficile assorbire – soprattutto per quelli già ampiamente indebitati come ad esempio il nostro – senza una pronta e possente ripresa nel dopo emergenza.  

Gli effetti collaterali: l’infodemia e il ritorno (temporaneo) degli esperti

Accanto all’emergenza sanitaria e a quella socio-economica, il Covid-19 ha prodotto altri effetti di grande rilievo. Alcuni di essi li potremo valutare nella loro portata sul medio-lungo periodo. Mi riferisco, ad esempio, alle conseguenze psicosociali delle «misure di confinamento», che hanno imprigionato in una asocialità forzata milioni di famiglie e singole persone e che, anche se allentate o rimosse del tutto, lasceranno probabilmente tracce profonde nei comportamenti collettivi, anche nei gesti più semplici: prendere un treno o un aereo, andare al cinema o allo stadio, bere una birra nei locali della movida, abbracciare gli amici. Mi riferisco poi – ed è un altro esempio – alla pressoché completa paralisi del mondo della scuola e dell’università, che si nutre per definizione della socialità concreta delle classi e delle aule e del rapporto tra allievi e insegnanti: una socialità che solo assai imperfettamente può essere recuperata anche con le migliori piattaforme, videolezioni, slides e test a risposta multipla. E mi riferisco, ancora, all’improvviso successo del cosiddetto «smart working», il lavoro agile. Si è trattato di un trionfo sicuramente provvidenziale nell’emergenza. Quale sarà, però, il suo lascito dopo la sua fine non è chiaro. Il rischio è che attraverso le sue indubitabili meraviglie passino – insieme alle ben note politiche di «razionalizzazione», e cioè di riduzione del personale – modalità di vita in cui crolla la separazione tra il tempo di lavoro e il tempo libero e in cui siamo tutti strepitosamente interconnessi con tutti gli altri ma altrettanto strepitosamente soli sulle nostre tastiere. Uno scenario distopico.
Screenshoot della sezione del sito del Ministero della Salute dedicata alla smentita delle bufale legate al Covid-19
Due altri effetti della pandemia si sono invece manifestati in tutta la loro pienezza. Il primo è la cosiddetta «infodemia»: la circolazione incontrollata, soprattutto attraverso la Rete, di una quantità mostruosa di notizie talora vere, spesso solo verosimili, in molti casi poco attendibili e, con frequenza crescente, del tutto false. Sappiamo da molto tempo quanto siano fragili e manipolabili i meccanismi di formazione dell’«opinione pubblica» nell’epoca della comunicazione di massa e quanto essi incidano sulla qualità dei regimi politici, in particolare di quelli democratici. Walter Lippmann lo aveva mostrato in modo esemplare nel 1922 nel suo L’opinione pubblica, avendo come riferimento i giornali e la carta stampata. E Giovanni Sartori, molti anni dopo, aveva aggiornato i suoi argomenti all’epoca della televisione e della videopolitica in Homo videns (1997). Con la Rete e i social è tutto ulteriormente cambiato. Si è chiusa l’epoca della «intermediazione». Chiunque scrive su qualunque cosa: racconta fatti talora per nulla accertati o del tutto immaginari, diffonde opinioni, giudizi, paure, sospetti molto spesso privi di fondamento, sparge o costruisce ad arte fake news. E viene tanto più letto, ascoltato e in molti casi creduto quanto più riporta notizie sensazionali, incredibili, spregevoli. È in questo nuovo e spesso fangoso «pseudoambiente» – l’espressione è di Lippmann – che nuotano i cittadini del XXI secolo. La pandemia ne ha segnato il trionfo, con il moltiplicarsi di teorie complottiste di ogni genere circa le origini, la natura e la diffusione del virus, di volta in volta riferite a laboratori scientifici cinesi o a una vera e propria guerra biologica scatenata dagli americani contro la Cina; oppure sulla sua strepitosa capacità di trasmettersi attraverso ogni mezzo, mosche, zecche, zanzare, pozzanghere, acqua potabile compresa. Per non parlare, naturalmente, della sua possibile cura, bevendo metanolo, lavandosi con la candeggina, mangiando peperoncino, etc. A quest’ultimo proposito, e a testimonianza della diffusione del fenomeno, il sito del Ministero della Salute elenca almeno 70 «bufale» di ampia circolazione. In evidente contrasto con l’infodemia, l’emergenza Covid-19 ha altresì riportato alla ribalta gli «esperti». All’epoca della Grande Recessione erano stati gli economisti, in molti paesi, a trionfare e a prendere in mano la situazione, talora mettendo nell’angolo i «politici» e in ginocchio le società. Oggi sta accadendo qualcosa di simile. Con la differenza che adesso gli esperti sono medici e virologi, ai cui consigli in linea di massima, anche se recalcitranti, ci si piega con maggiore fiducia. Il fenomeno è di tutto rilievo, perché riaccende il dibattito sul tema del governo delle società complesse e sul ruolo che in esso possono e devono avere i «tecnici» e più in generale coloro che sanno: un tema che, almeno fino a un certo punto, risulta urticante per le democrazie pienamente sviluppate, allergiche a tutto ciò che non è la voce onnipotente del demos. Anche gli esperti sbagliano, naturalmente. E hanno spesso opinioni molto diverse tra loro. Forse, però, l’ora dell’«era dell’incompetenza» – annunciata in un interessantissimo libro di Tom Nichols, La conoscenza e i suoi nemici (2017) – non è ancora definitivamente suonata e c’è ancora spazio per riflettere sulle difficili relazioni tra democrazia e competenza: nonostante il declino del giornalismo contemporaneo, delle università e degli istituti di formazione superiore e l’onnipotenza dei motori di ricerca («Certo che è sicuro – recita uno dei capitoli del libro di Nichols – L’ho trovato su Google»).  

Le reazioni al contagio e le prospettive future

Infodemia e ritorno degli esperti introducono l’ultimo tema che vorrei brevemente toccare: quello delle riposte che la politica ha dato all’emergenza Covid-19 nei paesi più colpiti. Come si è detto, il contagio si è diffuso con tempi e ritmi molto diversi. All’inizio è sembrata a molti una malattia tipicamente «asiatica», frutto di arretratezza, norme igieniche assai precarie e di orrende abitudini alimentari. Poi si è capito che quella malattia, non importa se «cinese» nel suo punto di partenza, poteva arrivare anche altrove. È stato quello il momento «italiano» dell’epidemia. Un momento drammatico. Infine, si è realizzato che in verità il Coronavirus poteva giungere semplicemente dappertutto, a prescindere dalle frontiere politiche e geografiche, dal colore della pelle, dal benessere o dalla povertà. Qualche manciata di settimane – tra gennaio e marzo 2020 – è stata sufficiente per arrivare a questa conclusione. Un tempo troppo breve per prendere decisioni, ma più che sufficiente perché il virus dilagasse in ogni dove.
Il Presidente del Consiglio dei Ministri Giuseppe Conte a Piacenza, una delle province più colpite dall'emergenza (video pubblicato sulla pagina Facebook del Presidente del Consiglio)
Già in quelle poche settimane, però, si è manifestata una significativa diffidenza per l’«altro», che in molti paesi si è tradotta, oltre che in atti di intolleranza, nell’impacciato e vano tentativo di chiudere frontiere, aeroporti, strade ferrate, valichi. Lo ha fatto il governo italiano, cancellando tutti i voli diretti dalla Cina (ma non quelli indiretti). Lo ha fatto poi Donald Trump, interrompendo tutti i voli dall’Europa (Gran Bretagna esclusa): una misura da 11 settembre 2001. E lo hanno fatto molti altri Stati. Un riflesso quasi pavloviano. Fino a un certo punto – bisogna aggiungere – anche comprensibile. Poi ci si è resi conto che il virus poteva ormai annidarsi ovunque: tra i medici, gli infermieri e i pazienti dei nostri ospedali, tra i partecipanti di una qualsiasi gara podistica, nelle case di cura dove andiamo a trovare i nostri genitori o i nostri nonni, tra i nostri vicini di casa. E allora è subentrato il panico, sempre con tempi diversi da paese a paese. A quel punto la spinta alla chiusura è diventata capillare ed è suonata l’ora dei virologi e del «lockdown», del confinamento spinto, casa per casa, famiglia per famiglia: una misura sperimentata con successo dai cinesi, al costo di un controllo spietato e altamente tecnologico sulla vita delle persone, con tanto di tracciamenti e riconoscimenti facciali di tutti, e ovviamente di una buona dose di repressione autoritaria. Poi lo stesso lockdown è diventato un problema e si è riaperto lo spazio della politica e delle decisioni in un clima di terribile incertezza. Si è acceso un dibattito molto accademico – e anche stucchevole quanto meno nel contesto di emergenza delle settimane più virulente del contagio – sui pericoli che comporta sacrificare la libertà (il confinamento) alla sicurezza (la salute). Quel dibattito, invero, si talora è riversato nelle piazze e nelle strade, così ad esempio – ma non solo – in diverse città americane, dove gli ultralibertari (spesso armati di fucili e mitragliatori), sollecitati dallo stesso presidente Trump, hanno protestato contro i governatori dei propri Stati favorevoli al confinamento. Infine, con il protrarsi e il dilagare del virus, si è aperto il dibattito vero: quello che mette sui due piatti della bilancia le ragioni contrapposte della salute pubblica (che spingono alla chiusura) e quelle dell’emergenza economica e sociale (che spingono alla riapertura di tutto e a un ritorno a una «quasi-normalità»). È su questo terreno estremamente complicato che la politica – com’è giusto che sia – ha dovuto finalmente riprendere il sopravvento sui tecnici, tenendone in varia considerazione l’expertise e le raccomandazioni. Ed è su questo terreno che le sue prestazioni si sono rivelate un po’ dappertutto molto discutibili e ondivaghe. I regimi autoritari si sono mossi in generale senza troppe discussioni ma anche con scarsissima trasparenza. Non sappiamo bene come evolverà la situazione nella Russia di Putin, che attualmente è il secondo paese del mondo per contagi. In Cina, però, con pratiche di controllo sociale spinte all’estremo livello e con qualche silenzio di troppo, l’epidemia sembrerebbe essersi sostanzialmente esaurita, al di là di qualche significativo focolaio di ritorno. Le salde democrazie del Nord Europa – con una popolazione più giovane e perciò meno esposta agli effetti più devastanti del virus, solidi dispositivi di protezione sociale, ottimi sistemi sanitari – sembrano essersi mosse con un ragionevole equilibrio tra apertura e chiusura, che almeno finora le ha premiate. Le democrazie più fragili del Sud Europa, ricattate da agguerriti movimenti pronti a cavalcare qualsiasi protesta, hanno offerto prestazioni meno convincenti, ma comunque più che soddisfacenti, considerando la forte esposizione al contagio. La stessa Unione europea, dopo alcune imbarazzanti esitazioni, sembrerebbe ora muoversi nella direzione di un deciso sostegno agli Stati membri, inedito nella sua misura, ma forse non ancora del tutto sufficiente. I governi più apertamente populisti hanno invece oscillato paurosamente, e talora con gravissimi danni, tra una decisione e il suo contrario. Esemplari in questo senso il Regno Unito con Boris Johnson, che in principio ha sfidato la sorte teorizzando la cosiddetta «immunità di gregge» al costo di molti morti e poi, finito egli stesso in rianimazione per il Covid, ha finalmente preso atto della gravità della situazione.
Conferenza stampa del Presidente degli Stati Uniti Donald Trump, 14 marzo 2020 (crediti: The White House, flickr)
Ancor più paradigmatica la linea di condotta dell’amministrazione Trump negli Stati Uniti, che ha bloccato tutto e riaperto tutto, che ha ascoltato e al tempo stesso sbugiardato i virologi e l’OMS, che ha dato credito e diffuso dalla Sala Ovale le più incredibili ricette per sconfiggere il virus e che, ancora, ha attivato un’aggressiva offensiva contro la Cina dagli esiti imprevedibili. Anche il Brasile di Bolsonaro si muove sfiorando il precipizio. Più in generale, tuttavia, ogni paese ha agito per sé, al netto di pur significative manifestazioni e singoli atti di solidarietà. Quelli più ricchi e forti hanno cercato di preservare se stessi e i propri interessi presenti e soprattutto futuri. Quelli più deboli hanno fatto quel che potevano in un crescendo di ostilità verso i più forti. Si annuncia in tal modo un’epoca di robusti e ruggenti «sovranismi», di recriminazioni senza fine, di competizione spietata e di conflitti di tutti contro tutti. È questo il lascito più preoccupante dell’emergenza.
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