La globalizzazione si addice al cinema. Non ha confini, proprio come il grande schermo. Strumento di espressione estremamente libero, capace di superare limiti spaziali e temporali: anzi, proprio in questo superamento continuo risiede la parte maggiore del suo fascino. E poi c’è il suo linguaggio: nato muto, il cinema è stato immediatamente capace di “parlare” a tutti, all’illetterato e al genio, al “barbaro” e al civilizzato. Andare ovunque e raggiungere chiunque: non è questa, in fondo, l’essenza stessa della globalizzazione?
Antologia Fratelli Lumière / Il giro del mondo in 80 giorni, di Michael Anderson (Usa-Francia-Gran Bretagna-Italia 1956)
Voglia di mondo. Il cinema delle origini è soprattutto questo: desiderio di conoscere, vedere, viaggiare senza alzarsi dal proprio posto. Con l’invenzione dei fratelli Lumière lo spazio si apre in un modo impressionante, travalicando ogni confine. Subito dopo la prima serata pubblica a Parigi, il 28 dicembre 1895, i loro operatori vengono sguinzagliati in ogni parte del globo. I continenti sembrano diventare, in un attimo, a portata di mano. Non c’è ancora l’aereo, ma piroscafi e treni rendono possibili le trasferte ovunque. Lo spettatore paga il biglietto non per assistere alla proiezione di “storie” come le intendiamo oggi: quello che le brevi pellicole dei Lumière offrono nei primi anni sono soprattutto frammenti di mondo, squarci di realtà, piccole intrusioni nelle vite e nei luoghi degli altri. La fotografia era già stata inventata da tempo, certo; ma come resistere al fascino del cinema, che ti fa “salire” in gondola a Venezia e, un attimo dopo, ti porta sul dorso di un cammello in Arabia oppure di un elefante in India? I sogni dell’Europa immersa nell’ottimismo positivista sembrano avverarsi, impressi su quella pellicola magica, che annulla, apparentemente, ogni distanza. Per rendersi conto del clima del periodo, può essere utile, e molto divertente, vedere “Il giro del mondo in 80 giorni”, diretto nel 1956 da Michael Anderson a partire dall’omonimo, celeberrimo romanzo di Jules Verne e ambientato alla fine dell’800. Un mondo sempre più “rimpicciolito” dai mezzi di trasporto, che il protagonista prende freneticamente: mongolfiera, nave, treno, elefante, risciò, piroscafo, veliero e, addirittura!, automobile. Insomma, esattamente come nei “filmini” girati in quegli anni da Louis e Auguste Lumière.
Il caso Mattei, di Francesco Rosi (Italia 1972)
Impossibile parlare di globalizzazione senza parlare di petrolio. E la storia viene da molto, molto lontano. L’oro nero da più di un secolo muove il mondo: chi possiede i pozzi riesce a condizionarne il destino. Somme colossali di denaro, Paesi interi creati e distrutti per accaparrarsi e dividersi le fonti, dal Medio Oriente all’America Latina, dalla Siberia all’Africa. Uno scenario continuamente instabile: basti pensare, per restare ai nostri giorni, che entro la fine del 2018 gli Stati Uniti diventeranno il primo produttore mondiale, grazie alle nuove tecniche di estrazione: un risultato assolutamente imprevedibile solo qualche anno fa, quando sembrava che il primo posto dell’Arabia Saudita fosse intangibile. La situazione era altrettanto mobile e pericolosa nel periodo in cui il film di Rosi è ambientato, fra gli anni 50 e 60 del secolo sorso. L’Italia, in pieno boom economico, cercava di darsi una politica autonoma in campo energetico, grazie all’Eni guidato da Enrico Mattei. Impresa tutt’altro che facile, osteggiata dalle cosiddette “Sette Sorelle” del petrolio, ovvero le grandi multinazionali che ne controllavano quasi interamente produzione e commercio mondiale. Guai a chi osava intromettersi: il rischio concreto era di trovarsi di fronte nemici agguerriti, pronti a tutto. Sulla fine di Mattei, morto in un incidente aereo il 27 ottobre 1962, si sono fatte molte ipotesi: una, terribile, è che sia stato appunto fatto fuori dai suoi troppi nemici. Rosi sceglie per il film la formula dell’inchiesta, alternando materiali filmati e ricostruzioni, unendo con pazienza un’infinità di piccole tessere. Non ci sono verità definitive, ma il dubbio si consolida: quell’uomo aveva messo a repentaglio fortissimi interessi costituti, quell’uomo dava fastidio, “mettendo il naso” in settori del mondo già spartiti da altri, ben più potenti. Globalizzazione sì, ma imperfetta: con i più deboli, come quasi sempre accade, costretti a subire.
Syriana, di Stephen Gaghan (Usa 2005)
Trama estremamente complessa, quella di “Syriana”, con frenetici cambiamenti di luoghi e situazioni: si passa dal Texas alla Svizzera, da Washington alla Spagna, da Teheran a Beirut, attraversando in lungo e in largo tutto il Medio Oriente (in totale, una quarantina di posti diversi!). Alla base, anche in questo caso, il petrolio. Soprattutto, il ruolo dell’industria petrolifera nell’evoluzione della situazione internazionale. I Paesi produttori sono in realtà solo teoricamente liberi di decidere il loro destino. Tutto viene mosso altrove, e i dirigenti locali non sono altro che marionette manovrate dalle multinazionali e dai governi degli Stati più ricchi e potenti, in primo luogo ovviamente gli Stati Uniti. Il film si avvale di due attori di grande successo, George Clooney e Matt Damon, nei ruoli rispettivamente di un agente della Cia (è ovvio che in uno scenario di questo tipo la Cia non possa mai mancare) e di un analista dell’energia con un ruolo di primo piano nello svolgimento della vicenda. Girato negli anni della presidenza di Bush figlio, il film di Gaghan ne stigmatizza con forza le politiche, cercando di mostrare come anche il fondamentalismo islamico tragga origine da scelte sbagliate del mondo occidentale e, in particolare, dell’establishment americano. Film frenetico, con passaggi non sempre facili da afferrare, animato da un desiderio bulimico di mostrare e denunciare. Film che rende bene, in questo suo caos costruttivo, l’estrema complessità della geopolitica contemporanea, dove tutto si tiene insieme e dove tutto viene deciso al lontano da occhi indiscreti, nelle stanze del vero potere, ben nascoste ai comuni cittadini.
Babel, di Alejandro González Iñárritu (Usa-Francia-Messico 2006)
Il titolo dice già tutto: una babele, un intreccio di vicende nelle quali non sembra possibile, a prima vista, scovare un filo conduttore. Che cosa unisce un colpo di fucile sparato sulle montagne dell’Atlante marocchino alle vicende di una giovane sordomuta a Tokyo? E dov’è il trait d’union che ci conduce al confine tra Stati Uniti e Messico, dove una tata sta portando a una festa (senza averne il permesso) i due bambini che le sono stati affidati? Tutto, in realtà si tiene. In questo caso a essere “globalizzata” è la trama del film, che si compone a poco a poco, come un complesso puzzle. Il colpo di fucile ferisce una donna americana in viaggio con il marito: e sono proprio loro i genitori dei due bambini che, dopo essere stati accompagnati in Messico, vivranno una terribile disavventura nel deserto. Dal Paese del Sol Levante viene infine il fucile che spara nelle prime inquadrature del film: è stato regalato da un turista giapponese alla sua guida marocchina, per usarlo a caccia, non certo per sparare contro altri turisti. Il mondo è sempre più piccolo, ci dice il regista: ogni atto, anche il più apparentemente insignificante, produce effetti impensabili, in un’interdipendenza globale che coinvolge (e sconvolge) tutti.
L’incubo di Darwin, di Hubert Sauper (Austria-Belgio-Francia 2004) Metti qualche “innocuo” pesciolino in un lago tropicale largo quanto diverse regioni italiane e ti ritrovi, nel giro di pochi anni, con l’ecosistema completamente sconvolto. È successo in Africa, nell’immenso Lago Vittoria (quasi 70mila chilometri quadrati). All’inizio degli anni 60 del secolo scorso, qualcuno pensò bene di popolarlo con una specie aliena, il pesce persico, allo scopo di aumentarne la produttività ittica. Peccato però che l’ultimo, voracissimo arrivato abbia trovato di assoluto gradimento il nuovo habitat, spodestando nel giro di poco tempo quasi tutte le altre specie viventi. Adesso è lui il dominatore incontrastato dell’immenso specchio d’acqua, tanto da alimentare una cospicua industria della pesca. Poco male, si direbbe: almeno le popolazioni rivierasche hanno di che mangiare. E invece è qui che nasce il problema: tutto, ma proprio tutto il prodotto pescato viene inviato per via aerea nei Pesi ricchi. Ai locali restano solo gli scarti… Quasi ogni giorno, in un aeroporto della zona arriva un enorme aereo cargo, per recuperare il prodotto e smistarlo in altre parti del mondo. Non atterra però vuoto: a bordo porta fucili e bombe, merce preziosa per le mille guerre nascoste che straziano il continente africano. Una bruttissima storia, quella raccontata dal documentario di Sauper. Una storia di rapina, di affari sporchi, di sprezzo per la vita umana e per l’ambiente.
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