Sono i nuovi guru. A giudicare dal numero di programmi televisivi che li vedono protagonisti, dalle campagne pubblicitarie a tutto campo, dal numero di iscritti ai corsi e ai curricula di studio specialistico, nonché dalle quantità di pubblico che attraggono in tutti i contesti in cui appaiono pubblicamente, gli chef sono i nuovi eroi popolari. Non ci sono più cuochi, non ci sono più trattorie, solo chef e ristoranti stellati tra i protagonisti di quest'ultima ondata di entusiasmo collettivo che sembra non potersi sottrarre al fascino della ricetta, della ricerca ossessiva di ingredienti e abbinamenti originali, della modalità perfetta di cottura di un uovo o di un filetto. Insomma, tutti a pendere dalle labbra di uomini (le donne ahimè sono anche qui da cercarsi col lumicino) che brillano ai fornelli, sì, anche se risultano talvolta piuttosto opachi quando si spendono sui tempi e i modi del racconto pubblico.
Ma ha senso parlare di cibo pensando sempre solo al modo di impiattarlo? O dovremmo forse partire da un altro punto di vista, quello degli oltre 800 milioni di persone che non hanno accesso, nel corso di ogni loro normale giornata, a quantità sufficienti di cibo per sfamarsi?
Il nostro percorso oggi si confronta con questo paradosso. Quello di un momento storico in cui coesistono discorsi pubblici e riflessioni collettive sul valore estetico ed edonistico del cibo e discorsi pubblici sull'assenza o scarsità della dose minima giornaliera di calorie per una parte importante di popolazione mondiale. Un momento schizofrenico della storia dell'umanità in cui convivono milioni di affamati e milioni di obesi e supernutriti. Le due facce di uno stesso problema, quello di un rapporto squilibrato con la fonte primaria di energia cui ogni essere umano ha diritto, i pasti quotidiani.
Partiamo dal cibo impiattato, protagonista di migliaia di libri e best sellers, di riviste patinate, di programmi TV con share altissimi e di fiere dedicate. E prendiamo uno degli chef più esposti del momento, Carlo Cracco. Protagonista, tra le tante apparizioni pubbliche, di un incontro al Festival internazionale del giornalismo di Perugia, il 30 aprile di quest'anno, intitolato «Viaggio nella storia e nella tradizione della migliore cucina italiana». Intervistato dalla giornalista ed esperta di comunicazione e social media Barbara Sgarzi, Cracco si presenta come un personaggio alla mano, con una scelta di abbigliamento smart casual, camicia azzurra e polsino slacciato.
Al centro del discorso non sono i libri di Cracco, che pur vengono citati e mostrati, ma la sua esperienza di cucina e del mondo. Il suo rapporto con le ricette, con le foto dei cibi, con la tradizione. Emerge dal discorso di Cracco quello che in fondo non ci sorprende: lo chef non è necessariamente un oratore. E alterna commenti tutto sommati banali quando si addentra nei territori che non gli competono, come quelli relativi alla comunicazione, all'uso dei social media, al come sono cambiate nel tempo le fotografie e i libri di cucina, ad altri decisamente più efficaci. Quando parla del suo rapporto con le ricette o del modo in cui lui si prefigura un cibo quando glielo descrivono. Al come una ricetta evolve e cambia, per chi come lui vive di cucina e non pensa mai di riprodurre pedissequamente un protocollo stabilito da altri.
Ne emerge un ritratto dal punto di vista della comunicazione pubblica a tratti incoerente, quello di un cuoco consacrato a personaggio che non ha lavorato (ancora) molto sulla retorica e l'arte di raccontarsi. Riporta aneddoti preceduti quasi sempre da un generico «Prima era così, una volta si faceva così» senza mai specificare a quando risale il 'prima', senza dare contesto relativo a un periodo o un luogo preciso. Non ha racconti ben organizzati, non si è preparato le classiche storielle e battute tipiche di queste situazioni. Su un tema centrale della comunicazione culinaria odierna, come quello dell'ossessione collettiva per le fotografie dei piatti, propone un messaggio confuso dove la suggestione si arena sulle sponde dell'incertezza e della contraddizione. Nell'insieme è piuttosto affabile, più di quanto non appaia nei programmi TV dove fa la parte di se stesso, lo chef Cracco, ma manca del mordente che un personaggio così noto dovrebbe mettere sul piatto, questa volta in senso figurato, quando incontra un pubblico ben nutrito come quello che lo accoglie a Perugia.
Molto diverso è il mini video qui sotto che ha come protagonista un altro chef italiano, Massimo Bottura, durante una lezione di cucina all'Istituto italiano di cultura di Parigi. Qui il video offre un discorso ben lontano dalla presa diretta. Bottura parla in camera e viene ripreso mentre fa la lezione. Il tutto è montato con la logica del videoclip che racconta l'esperienza parigina del cuoco e del suo pubblico. E per questo è un video molto breve, attorno ai 4 minuti. Eppure, anche nei pochi frammenti in cui parla direttamente in camera Bottura mostra un ritmo comunicativo molto efficace e un certo carisma. Forte delle sue tre stelle Michelin (in compagnia di pochissimi altri in tutta Italia, ben meno di dieci), si definisce cuoco e non chef. Usa qualche slogan molto efficace, poche frasi ad impatto. Parla degli ingredienti principali e non divaga, delinea un legame tra cibo, mente, ingredienti, percezione. «Se c'è un ingrediente che non può mancare nella mia cucina» dice ai partecipanti alla giornata mentre cucinano tutti insieme, «è il mio pensiero». Spiega in due frasi com'è cambiato il mondo dell'alta cucina negli ultimi anni: non prevale più il rapporto estetico con il cibo, la tecnica è al servizio della materia prima non dell'ego del cuoco. È una comunicazione più immediata, solo apparentemente informale, curatissima. E conclude con una sintesi pensata e molto centrata: «Facciamo una cucina di territorio vista da 10 km di distanza». In conclusione al suo intervento Bottura onora il fatto che il cibo preparato in cucica è il prodotto finale del lavoro intenso di una collettività di artigiani, agricoltori, coltivatori, allevatori, che producono le materie prime senza le quali il cuoco non potrebbe fare davvero nulla di speciale, stellato o meno che sia.
Dal piatto pieno a quello vuoto. Nell'Anno internazionale del family farming, dell'agricoltura familiare, nominato dalla FAO, si moltiplicano gli interventi e i discorsi pubblici in favore della lotta alla fame. Le strategie per produrre quantità sufficienti di cibo, ma soprattutto per consentire l'accesso al cibo a chi oggi non ce l'ha, perché vive in aree marginali, povere, spesso in guerra, senza mercati organizzati, in assenza di reti sociali, sono oggetto di discussione sia nella comunità scientifica che nei contesti politici. Ma il problema della fame non è nuovo. Anzi, è talmente cronico che da più di un decennio la FAO e le altre grandi organizzazioni internazionali si sono poste i cosiddetti «obiettivi del millennio» per dimezzare il numero degli affamati nel mondo entro il 2015. Obiettivo già mancato, anche se in questi ultimi anni qualche progresso è stato registrato.
Nel 2011, Josette Sheeran, allora Executive director del Programma alimentare mondiale, ha tenuto un discorso al TEDglobal di Edinburgo dal titolo «Ending hunger now», letteralmente basta con la fame, adesso.
Cosa funziona nel discorso di Sheeran? Quasi tutto, dal punto di vista comunicativo. Se a chi scrive rimane la perplessità che alcune delle azioni proposte da Sheeran siano praticabili e perfino raccomandabili nell'attuale contesto socio-economico internazionale, il registro, il ritmo e lo svolgimento del discorso sono invece impeccabili. Come già abbiamo visto in occasione di qualche altro discorso pubblico, Sheeran ha studiato. Innanzi tutto usa bene il tempo a sua disposizione: alterna i momenti di ricordo e di collegamento con la propria esperienza, quelli che si agganciano al sentimento e alla percezione del pubblico a quelli in cui propone un ragionamento, un passaggio razionale e lucido, qualche dato. Non usa mai le argomentazioni in modo fallace, scendendo sul tono moralistico tipico di molti discorsi contro la fame. Anzi, sottolinea che anche se non ce ne interessiamo per motivi umanitari dobbiamo riconoscere che avere così tanti affamati nel mondo si traduce in uno svantaggio economico, in maggiori costi, in migrazioni e pressioni sociali anche per i paesi ricchi. Insomma, in un problema collettivo che non possiamo permetterci di ignorare.
Eppure il discorso di Sheeran non rinuncia a forti tinte personali, ad accenti emotivi. Ma li gira su di sé. È lei che è stata sul campo, che ha visto diverse esperienze, che ha scelto di fare sua questa battaglia. È lei come madre che entra in comunicazione diretta, sentendosi al contempo empatica e furiosa, con la madre africana che non riesce nemmeno ad allattare il proprio figlio.
Si presenta con la tazza rossa in mano, la stessa tazza che un bambino africano si porta in giro per cercare di riempirla con almeno un pasto al giorno, la tazza diventata simbolo della campagna del Programma alimentare mondiale, presente in tutte le foto che Sheeran mostra nel corso del suo discorso. Discute e propone le novità tecnologiche e le strategie di lotta alla fame cronica come accessibili, a basso costo, fattibili. Lo fa usando poche slide, prive di scritte e piene di foto e immagini.
E chiude tornando, in modo perfettamente circolare, al punto di partenza. Alla tazza rossa e alla voglia di dire «Mai più». È una rivisitazione della retorica di «I have a dream»: raccontare il presente visto dal futuro, come un presente di cui un giorno ci vergogneremo, che ci sembrerà perfino impossibile da raccontare, inaccettabile e da cambiare a tutti i costi. Un salto avanti per acquisire la prospettiva giusta sull'oggi.
Un discorso pulito, impeccabile, nei 18 minuti esatti che il TED concede. Senza sbavature né personalismi. Riportando continuamente al centro quella tazza vuota che rende un po' grottesco l'interesse spasmodico nei confronti del cibo impiattato con tanta cura.
L'immagine del banner in apertura è di Harco Rutgers on Flickr - Licensed under CC BY 2.0