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Classificare il politico. La lunga ricerca della forma di governo ideale

Partendo dall’Antica Grecia, Beatrice Collina analizza la classificazione delle forme di governo nella storia, soffermandosi soprattutto sugli importanti contributi di Montesquieu e Hannah Arendt.

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L’ordine ideale tra teoria e prassi

L’esercizio di classificare le forme di governo attraversa tutta la storia del pensiero occidentale, affondando le proprie radici nella filosofia greca. Si è soliti pensare all’Antica Grecia come la culla della democrazia, riferendosi in particolare all’Atene di Pericle del V secolo a.C. A uno sguardo più approfondito, ci si accorge però che non solo nel pensiero greco non esiste una vera e propria teorizzazione della forma “democrazia”, ma che questa tende persino ad assumere una connotazione negativa come sinonimo di disordine e anarchia. Nella Grecia delle origini, la filosofia è pratica aristocratica e sapienziale, riservata a un ristretto numero di persone che considera la migliore forma di governo quella guidata dai “migliori”, non certamente dal demos. Questa caratteristica è riscontrabile ne La Repubblica di Platone (428/427 a.C. - 348/347 a.C.), opera dedicata alla costruzione di uno Stato ideale, capace di evitare la crisi e garantire la Giustizia. Per Platone, la democrazia è infatti il governo irrazionale che ha condannato a morte il suo uomo migliore, ovvero Socrate. Il primo obiettivo di Platone è quindi immaginare un ordine sociale e politico che funzioni in modo armonico e al cui interno ognuno ricopra un ruolo ben preciso. Lo Stato ideale è ordinato e giusto ma, come i pensatori contemporanei hanno evidenziato, sacrifica la libertà degli individui. Per Platone, il rischio di degenerazione dell’ottimo stato è sempre presente e può realizzarsi in varie forme: la timocrazia, basata sull’onore e sull’ambizione di uomini che si appropriano di terre e beni; l’oligarchia, che corrisponde al governo dei ricchi; la democrazia, in cui gli uomini sono liberi e senza freni; la tirannide, intesa come degenerazione della democrazia stessa, in cui un uomo emerge e sottomette gli altri.

Con l’opera La società aperta e i suoi nemici (1945), Karl Popper (1902-1994) è tra i primi filosofi contemporanei a fare i conti con gli elementi che caratterizzano i regimi totalitari. All’interno del testo, è celebre la critica allo Stato ideale di Platone, considerato da Popper un esempio paradigmatico di totalitarismo. Per un approfondimento, si rimanda al seguente video: https://www.youtube.com/watch?v=Co0KvhwC2cs

Diversa è l’analisi di Aristotele (384/383 a.C. - 322 a.C.) che inaugura una linea di riflessione più volte ripresa nella modernità e nella contemporaneità. Ne La Politica, Aristotele utilizza due criteri per la propria classificazione: il numero di coloro che detengono il potere e la preminenza del tipo di interesse che viene difeso (pubblico o privato). Tenendo conto di questi aspetti, sono tre le forme di governo buone, in quanto orientate al bene comune, che si possono avere: il regno (monarchia), l’aristocrazia, la politia (democrazia). Quando gli interessi privati prendono il sopravvento, si danno altrettante degenerazioni: la tirannide, l’oligarchia, la demagogia. Per Aristotele, ogni forma retta di governo può mutarsi non solo in quella che le è più vicina, ma anche nel suo opposto. Sebbene la forma preferibile sia la politia, anche il potere di uno solo o di pochi può costituire un buon governo se orientato all’interesse pubblico. Ovviamente, la democrazia a cui si riferisce Aristotele resta molto distante dalla nostra idea contemporanea, in quanto solo gli uomini adulti, liberi e proprietari sono considerati cittadini. La democrazia greca esclude donne, schiavi e  stranieri. 

La Politica di Aristotele è importante anche perché in essa è possibile individuare l’origine del significato di dispotismo così come verrà ripreso nel corso dei secoli dai filosofi occidentali. Aristotele distingue infatti tra la monarchia (eroica) dei Greci e la monarchia dei “barbari” (asiatici), i quali accetterebbero senza difficoltà il potere dispotico in quanto naturalmente portati alla sottomissione. Proprio in questo aspetto il dispotismo si distingue per Aristotele dalla tirannide, la quale è sì una forma corrotta di governo, ma esercitata su popoli liberi; il dispotismo è invece una forma legittima, esercitato su popoli schiavi.

Contro l’assolutismo. Società plurale e divisione dei poteri

In epoca moderna è il filosofo francese Montesquieu (1689-1755) che ne Lo Spirito delle Leggi (1748), tra i capisaldi del pensiero politico europeo, si fa erede dell’analisi aristotelica sul dispotismo, calandola in un periodo storico caratterizzato dalle monarchie assolute di cui è convinto oppositore. Per Montesquieu, i sovrani assolutisti non hanno fatto altro che portare nel contesto europeo una forma di governo naturalizzata in Asia e, in quanto tale, non congeniale ai paesi occidentali. Viene tracciato un netto confine tra monarchia europea, concepita come esercizio di potere secondo le leggi, e dispotismo orientale, inteso come esercizio di potere secondo il capriccio che pervade non solo la vita pubblica delle persone ma anche quella privata. Il dispotismo continua così a essere considerato una forma autonoma di governo e non una sottospecie della monarchia.

Ideale di Montesquieu è una società pluralistica, suddivisa tra diverse classi sociali e che si fonda su una chiara separazione tra potere legislativo, esecutivo e giudiziario. Nel dispotismo orientale mancano per il filosofo francese entrambe queste caratteristiche: il sovrano concentra nelle proprie mani tutti gli interessi e si rapporta senza mediazioni con la massa dei sudditi che, di fatto, sono schiavi. È un potere statico, finalizzato a una tranquillità solo apparente, in quanto basata sulla  paura costante. Così come non esistono classi che mediano tra il sovrano e il popolo (come in Europa poteva essere la nobiltà), allo stesso modo non esiste alcuna separazione dei poteri. Persino il potere giudiziario, la cui autonomia e indipendenza è per Montesquieu il vero cardine di un governo moderato, viene gestito in modo diretto ed esclusivo dal sovrano che diventa giudice. Le stesse conseguenze del formalismo giuridico (come la lentezza e la complicazione dei procedimenti giudiziari) sono il prezzo che ciascun cittadino paga per la  propria libertà, mentre l’eccessiva semplificazione dei processi e delle leggi diventano l’anticamera del dispotismo.

Nazismo e comunismo. I volti novecenteschi dell’oppressione

Nel Novecento, all’indomani della Seconda guerra mondiale, i filosofi si interrogano sulla barbarie che ha attraversato l’Europa e sui regimi che l’hanno resa possibile. Non è la prima volta che il Continente ha vissuto guerra e violenza, ma si ha la consapevolezza di essere davanti a fenomeni politici inediti. In Le origini del totalitarismo (1951), la filosofa tedesca Hannah Arendt (1906-1975) riconosce l’assoluta peculiarità del regime totalitario, considerandolo una forma di potere del tutto a sé stante rispetto a dispotismo, tirannide e dittatura. Arendt si inserisce nel solco della tradizione di pensiero di Montesquieu, tenendo ben distinti i concetti di potere e di dominio. Lungi dall’assumere un significato negativo, il potere è concepito come relazione: fin quando esso è ripartito, una società è libera e plurale. È nella concentrazione dei poteri, nella loro implosione verso un unico centro, che si realizzano dominio e violenza, tipici dei regimi novecenteschi.

Per Arendt, il totalitarismo si contraddistingue dalle altre tipologie di governo perché capace di distruggere il presupposto di ogni libertà, ovvero lo spazio di movimento e azione di uomini e donne. È in particolare nell’ultimo celebre capitolo del volume, intitolato “Ideologia e terrore” e considerato quasi un saggio breve autonomo, che Arendt approfondisce questo aspetto, distinguendo tra isolamento ed estraniazione. Pur distruggendo la sfera politica degli uomini, isolandoli gli uni dagli altri nella loro possibilità di agire in uno spazio pubblico, la tirannide non arriva a sradicare le capacità creative, lasciando loro margine di movimento negli altri ambiti dell’esistenza. Il totalitarismo è invece radicale perché pervade tutti gli spazi di vita delle persone, estraniandole e creando intorno a esse un deserto di relazione e azione che permette un dominio totale su di loro. Se l’essenza della tirannide è per Arendt l’illegalità, l’essenza di un regime totalitario è il terrore, che si incarna nel ruolo della polizia segreta, strumento di controllo su tutte le figure e le funzioni del regime.

Per approfondire la teoria di Arendt sul totalitarismo e il suo aspetto pervasivo nella vita umana: https://www.raicultura.it/filosofia/articoli/2019/01/Anna-Arendt-e-la-teoria-del-totalitarismo-4ea82fcc-d08c-4833-b090-4db2cb4e8c68.html

Crediti immagine: Platone e Aristotele, particolare della formella del Campanile di Giotto di Luca della Robbia, 1437-1439, Firenze (Wikimedia Commons)

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