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Dalle risorse e alle opportunità. L’uguaglianza secondo il capability approach

Il capabilitiy approach  fu introdotto a partire dagli anni Ottanta del Novecento dal filosofo ed economista Amartya Sen. Questo concetto è poi stato sviluppato nell’ambito di un significato più ampio di dignità umana dalla filosofa statunitense Martha Nussbaum, oggetto di questo approfondimento di Beatrice Collina.

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A partire dagli anni Ottanta del Novecento, l’economista e filosofo indiano Amartya K. Sen (n. 1933) ha introdotto nei suoi studi sulle disuguaglianze e la povertà quello che è divenuto noto come il capability approach o, in una traduzione letterale forse un po’ fuorviante in italiano, l’approccio delle capacità. Se le teorie della giustizia tradizionali si pongono “semplicemente” il problema di una equa distribuzione delle risorse (e delle ricchezze), l’intuizione di Sen è stata di articolare la nozione di povertà, concependola non tanto come la condizione in cui gli individui non riescono a soddisfare i propri bisogni materiali attraverso l’acquisizione di merci essenziali, ma piuttosto come la loro impossibilità di scegliere tra vite alternative e sviluppare appieno le proprie capacità. La questione si comprende più a fondo nella distinzione che Sen evidenzia nel volume La disuguaglianza. Un riesame critico (1992), tra reddito basso, al di sotto di una soglia media calcolata, e reddito inadeguato, ovvero inferiore a quello che sarebbe necessario a un individuo per raggiungere i livelli di capacità desiderati. Anche chi si trova al di sopra di quella “linea di povertà”, potrebbe non avere alcuna possibilità di orientare le proprie capacità a causa di ostacoli oggettivi (personali e di contesto) che gli impedirebbero di fatto il dispiegamento della propria dignità come persona. Un’analisi efficace del fenomeno della povertà, e delle soluzioni per arginarla, deve mettere al centro non solo la possibilità degli individui di acquistare cose, ma soprattutto di intraprendere un progetto di vita secondo le proprie capacità.

Negli anni più recenti, il capability approach è stato ripreso dalla filosofa statunitense Martha Nussbaum (n. 1947) che lo ha sviluppato nell’ambito di un significato ampio di dignità umana e lo ha inserito in una visione di profonda revisione dei principi e presupposti alla base delle tradizionali teorie della giustizia, come emerge nella raccolta di saggi Giustizia sociale e dignità umana (2002). Ciò che rende una vita degna non si può esaurire nell’ottenimento di oggetti materiali, per quanto essenziali, ma nella possibilità di avere alternative effettive che permettano alle persone di dispiegare al meglio le loro capacità, in qualsiasi situazione si trovino. Un simile approccio dovrebbe guidare le politiche pubbliche con l’obiettivo di rimuovere gli ostacoli (non solo economici) che limitano e vincolano le vite degli esseri umani. Non è sufficiente ri-distribuire risorse per garantire equità e giustizia, in quanto le condizioni soggettive delle persone possono essere molto diverse e inevitabilmente segnate dal contesto specifico.

La riflessione di Nussbaum va oltre quella di Sen perché prende in considerazione non solo le disuguaglianze economiche in senso stretto ma anche quelle sociali che colpiscono gruppi o singole persone, constatando come sia soprattutto nell’ambito della cura che tali ingiustizie emergono. Per chi si trova nella condizione di avere particolari bisogni e chi, specularmente, presta attività di cura, non si tratta necessariamente di avere a che fare con una difficoltà economica nel dispiegare le proprie capacità. Nussbaum porta l’esempio di bambini, anziani, disabili a cui spesso viene socialmente preclusa questa possibilità. Se è vero che l’età, la malattia, la disabilità sono condizioni che hanno un grado intrinseco di difficoltà, è altrettanto vero che il contesto può profondamente influire nel rendere più facile e dignitoso un percorso di vita. D’altro canto, sono in primo luogo le donne che, anche nei paesi in cui i loro diritti sono pienamente riconosciuti, si trovano a dover rinunciare alla realizzazione dei propri progetti di vita, allorquando un famigliare necessita di cure. Nussbaum rileva come le stesse società occidentali non siano tuttora in grado di compensare questo tipo di disuguaglianza, a prescindere da questioni di tipo economico, e ne individua due aspetti fondamentali: il primo “interno” e si basa sulla pressione culturale e sociale che spinge implicitamente le donne a sentirsi in dovere di prendersi questo tipo di impegno; il secondo è “esterno” e ha a che fare proprio con la rimozione degli ostacoli.

Queste considerazioni portano Nussbaum a introdurre una critica radicale delle teorie politiche tradizionali e a ripensare in modo profondo il soggetto stesso di queste teorie. La loro “finzione” consiste nell’aver considerato la società come costituita da individui «adulti e indipendenti» e ad aver costruito intere teorie della giustizia su questo assunto. La condizione di indipendenza è stata fatta coincidere con la norma, con la regola. La realtà tuttavia è ben diversa: gli esseri umani non sono semplicemente “animali razionali”, ma animali che si trovano in condizioni di bisogno (anche solo in precisi momenti della propria esistenza) e, per questo, di dipendenza dagli altri. Per Nussbaum, perciò, «una società giusta deve garantire cura a chi ne ha bisogno senza che chi la presta sia sfruttato, privandolo di altre capacità importanti».

Il capability approach rappresenta per Nussbaum un passo ulteriore rispetto al discorso sui diritti, che per la filosofa non riesce a essere efficace fino in fondo, arenandosi in una serie di ostacoli sia teorici che pratici. Da un punto di vista teorico, è in primo luogo problematico definire lo status dei diritti, con un dibattito che vede tuttora contrapporsi chi li considera elementi pre-politici (naturali) e chi invece li ritiene, nel solco della tradizione kantiana, meri costrutti giuridici. Una seconda difficoltà emerge nello stabilire se i diritti siano di carattere individuale o di gruppo: questa tensione si riscontra in particolare in relazione ai temi del multiculturalismo e alle lotte per il riconoscimento di identità collettive. Infine sussiste il complicato rapporto tra diritti e doveri.

Per un excursus sulla storia dei diritti umani e i principali nodi filosofici di questo dibattito: https://www.raiscuola.rai.it/filosofia/articoli/2021/01/I-diritti-umani-aedb7379-ffbc-477c-8c40-769bcc4355e0.html

Per Nussbaum, ragionare e agire in termini di capacità umane fondamentali significa quindi non solo riconoscere a qualcuno un diritto, ma fare in modo che quel diritto sia davvero esercitabile. Riprendendo uno degli esempi più cari alla filosofa, non ci possiamo accontentare di riconoscere alle donne gli stessi diritti degli uomini, come già accade in molti paesi, se le donne non vengono messe dalla società in cui vivono nelle condizioni di esercitare concretamente quei diritti e di avere le stesse opportunità degli uomini. Infine, il capability approach non vincola a una precisa tradizione come invece accade nel caso dei diritti, negli ultimi decenni al centro di una critica che li considera una ennesima espressione storica e culturale del mondo occidentale e perciò escludenti rispetto alle istanze di persone e gruppi con diverso background.


Crediti immagini: Martha Nussbaum (Wikimedia Commons)

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