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Il futuro conservatore. Romanzi apocalittici, distopie, visioni di quello che verrà

L'Apocalisse di San Giovanni è una visione profetica che fa uso di allegorie per raccontare il futuro. Le moderne distopie fantascientifiche sono invece esse stesse allegorie, forme tragiche in massimo grado. Ne è un esempio la "Dissipatio H.G." dello scrittore emiliano Guido Morselli
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Il romanzo apocalittico non esiste

La letteratura apocalittica non esiste. L’Apocalisse può essere immaginata ma non può essere descritta: tutto ciò che normalmente noi prendiamo come esempio di letteratura apocalittica mette in realtà in scena quello che gli anglosassoni chiamano aftermath – un’espressione che sta a indicare qualcosa come il giorno dopo una catastrofe. La differenza tra l’aftermath e l’Apocalisse risiede nel fatto – puramente narrativo, se si vuole – che una catastrofe, per poter essere narrata, ha bisogno di almeno un superstite, un personaggio-narratore che viva e in qualche modo si muova all’interno della devastazione. Ma – e qui sta il problema – nel momento in cui anche un solo uomo è sopravvissuto, questo significa che l’Apocalisse non è avvenuta. Dunque tutta quella che noi siamo soliti definire come letteratura apocalittica o post-apocalittica, in realtà non lo è e non lo può essere per il semplice fatto che ci viene raccontata da qualcuno.

 

L’apocalisse è una rivelazione. Il romanzo un’allegoria

L’Apocalisse di San Giovanni è una profezia, una rivelazione e una prefigurazione della Fine. Tutti gli scritti apocalittici (da Giovanni a Daniele, da Enoc a Esdra a Baruc) si portano dietro rivelazioni su cose del passato, del presente e del futuro: queste verità sono normalmente note solo a dio e alle sfere celesti, e vengono rivelate al profeta affinché questi scriva un ammonimento e lo diffonda tra gli uomini. Il dettato apocalittico è dunque frutto di una visione che porta a raccontare, per mezzo di allegorie, qualcosa che si riferisce agli uomini che leggeranno e al loro futuro. Il profeta racconta per mezzo di un’allegoria. Ai romanzi distopici, o post-apocalittici, manca naturalmente questa parte per così dire di rivelazione: manca il dettato divino. Questa mancanza, a livello testuale, fa saltare una delle caratteristiche fondamentali della scrittura di rivelazione: se San Giovanni racconta la sua visione e fa la sua profezia facendo uso di allegorie (i candelabri, i cavalieri, il numero della Bestia e così via), lo scrittore contemporaneo che scrive un testo che parla della fine lavora in altro modo: il suo testo non parla per allegorie; esso è un’allegoria, un accorgimento che supplisce all’evidente impossibilità di presentare, oggi come oggi, un testo come dettato direttamente da dio.

Ascolta il filosofo Massimo Cacciari che racconta l’Apocalisse, cliccando qui

Il sacrificio dell’uomo e dell’eroe

Ciò si porta dietro una serie di conseguenze dirette sulla forma dell’opera, la fondamentale delle quali è che, si può dire, scompare dalle possibilità narrative la figura dell’eroe inteso in senso stretto; il suo statuto, infatti, è per definizione sconvolto dagli eventi: se sono solo ad affrontare la desolazione, la fine di tutto, non ho nessuno da salvare e non ho sostanzialmente azioni da compiere che non siano quella di tentare di sopravvivere, non posso più essere un eroe nel senso più stretto e classico del termine: in un certo senso, tutto è già accaduto. L’eroe/narratore diventa allora una sorta di «osservatore dello sfacelo», una figura calata fisicamente nella distruzione e il cui compito principale è quello di descrivercela intervallando la pochezza delle azioni a riflessioni su quanto è accaduto e perché e, in molti casi, al racconto del momento del cambio di stato.

Il racconto distopico è una forma di tragedia, e lo è al massimo grado, in quanto in esso viene sacrificato l’uomo come specie. Tutto ciò è reso se possibile ancora più tragico dalla cancellazione del tratto tragico fondamentale, che è appunto l’eroe: il personaggio, spolpato della sua dimensione sociale, economica, affettiva e sessuale, e privato soprattutto della possibilità di futuro, diventa semplicemente un registratore di fatti e di sensazioni limite, un individuo cavo il cui obiettivo è la sopravvivenza e la concordanza con le nuove coordinate che la catastrofe impone. In questo magma desolato, la degenerazione e la distruzione obbligano inoltre a guardare retrospettivamente l’umanità, giudicandone gli atti e le credenze – e pertanto il personaggio diventa la bandiera con cui l’autore mette sulla pagina la sua idea di mondo e il suo avvertimento all’umanità tutta.

La Dissipatio H.G. di Guido Morselli

Nel 1977, quattro anni dopo la morte dell’autore per suicidio, venne pubblicato uno dei più grandi racconti distopici del Novecento italiano: Dissipatio H.G. (dove H.G. sta per humani generis). Scritta in una condizione di totale solitudine e disperazione da uno scrittore, Morselli, che non riuscì a pubblicare quasi nulla mentre era in vita e che, paradossalmente, è oggi ritenuto uno dei più grandi autori italiani contemporanei, la Dissipatio è ambientata a Crisopoli – città immaginaria in cui chi vuole può riconoscere la Zurigo degli anni Settanta.

Il romanzo è la cronaca di un dopo: il protagonista – di cui non ci viene rivelato il nome –è un “fobantropo” (un uomo che ha paura degli uomini) che, poco prima dell’inizio del libro, ha fallito un tentativo di suicidio ed è costretto a tornare nel mondo.

C’è però un problema: non c’è più nessuno. All’improvviso, senza che niente ci venga detto di quello che può essere successo, Crisopoli e il mondo sono svuotati della presenza umana. Il libro è la cronaca asciutta e parasaggistica della vita del narratore, divisa tra ricordi del mondo passato e delle (poche) persone da lui conosciute, divagazioni tra il filosofico e lo psicanalitico in cui il protagonista fa il punto sulla propria fobantropia, l’isterismo, l’ipocondria, l’incapacità sociale e in definitiva il distacco totale dal mondo degli uomini che l’ha sempre contraddistinto (efficace metafora dell’isolamento in cui per tutta la vita visse Morselli stesso), note morali, riferimenti biblici (ovviamente l’Apocalisse, ma anche l’Esodo e Giosafat), e tentativi spesso involontariamente comici di spiegare l’accaduto: il genere umano è evaporato a causa della Bomba S (Spopolamento), della Bomba R (Rarefazione), della Bomba X (Operazione Pulizia). Egli è solo, ma in realtà la sua condizione di solitudine non è cambiata rispetto a prima, anzi: in molti passi, il narratore si compiace di quell’inattualità che l’ha tenuto distante dalla specie e che in definitiva – nella sua civetteria – è la causa della sua sopravvivenza: è evidente, per lui, che non poteva essere incluso nella dissipatio, perché egli odiava gli uomini e li teneva lontani: socialmente, economicamente, psicologicamente e intellettualmente egli ha infatti sempre pensato a se stesso come a un non-uomo, e come tale è sopravvissuto alla catastrofe.

Man mano che il romanzo avanza, prende prepotentemente corpo un mondo «altro», un mondo vissuto come parallelo e alternativo a quello degli uomini: la natura – una natura rigogliosa e leopardiana – si riappropria velocemente degli spazi, riveste di sé e dei suoi suoni il mondo disabitato dagli uomini – vero fattore «inquinante», che ora è venuto meno: «Me ne sto a guardare, dalla panchina di un viale, la vita che in questa strana eternità si prepara sotto i miei occhi. L’aria è lucida, di un’umidità compatta. Rivoli d’acqua piovana (…) confluiscono nel viale, e hanno steso sull’asfalto, giorno dopo giorno, uno strato leggero di terriccio. Poco più d’un velo, eppure qualche cosa verdeggia e cresce, e non la solita erbetta municipale; sono piantine selvatiche. Il Mercato dei Mercati si cambierà in campagna. Con i ranuncoli, la cicoria in fiore».

Queste sono, in pratica, le parole con cui si chiude la Dissipatio. Con la cicoria. Il mondo per come lo conosce il protagonista non è mai stato tanto vivo, tanto rigoglioso. L’uomo, in esso, non era che un «incidente» catapultatosi sulla terra per distruggerla e sfiancarla, e ora che non c’è più, con una gioia che è quasi panteista il narratore può guardare le altre manifestazioni della vita – finora relegate in provincia – prendere possesso del mondo. L’evoluzione umana, del resto, dice Morselli, non aveva altro fine che la fine.

Clicca qui per vedere un video di Silvio Raffo che racconta Guido Morselli:

Clicca qui per leggere un articolo su Dissipatio H.G.

Una visione conservatrice

«Sono spariti tutti, bene così» sembra dire il protagonista di Morselli. «Del resto, il mondo che gli uomini hanno inventato non merita niente di meglio di quello che è capitato». L’aftermath, in letteratura, ha spesso le caratteristiche di un apologo morale di matrice conservatrice. Sembra che il genere distopico, per poter essere innescato, abbia bisogno di un assunto di partenza anti-progressista. La tecnologia, il rapporto con il nuovo e con gli effetti che questo nuovo possono avere sulla vita dell’uomo e del mondo, così come il giudizio sulla condotta della specie, sono il punto d’innesco di questi meravigliosi incubi futuribili, che stanno a metà strada tra la fantascienza e l’apologo, il racconto morale e l’allegoria del presente. Il genere distopico o post-apocalittico è un genere letterario che giudica la nostra condotta di specie e la condanna: siamo andati troppo oltre, la tecnologia ci ha sovrastato, non riusciamo a tenere sotto controllo il progresso, gli interessi economici vengono prima delle persone, stiamo maltrattando il pianeta. Ecco che cosa sarà tra breve se continueremo a comportarci così: è questo il messaggio racchiuso nelle visioni della fine che ci regala questo genere.

Il catastrofismo – che è esploso in Italia intorno agli anni Sessanta/Settanta, in piena disillusione post-boom e una volta assorbito l’urto della presa di coscienza della distruttibilità del mondo, e che si è sviluppato attraverso opere capitali come Il giorno del giudizio di Salvatore Satta, Il pianeta irritabile Corporale di Paolo Volponi, La trilogia atomica di Carlo Cassola e per altre vie tramite il controverso La distruzione di Dante Virgili, ha ripreso oggi, in Italia e nel mondo, un vigore sorprendente.

L’uomo è la radice della catastrofe nel bellissimo La strada (2006) di Cormac McCarthy. Qui non si nomina mai direttamente la causa della Fine, ma in un paio di passaggi lo scrittore fa riferimento en passant a qualcosa che ha a che fare con il nucleare, con le radiazioni; è una tecnologia di assoggettamento quella che spazza via la democrazia e gran parte dell’umanità ne La ragazza di Vajont (2008) di Tullio Avoledo; è il lavaggio del cervello fatto da una setta ipertecnologica che apre la strada a un nuovo medioevo quello che Michel Houellebecq mette in scena ne La possibilità di un’isola (2005); è infine l’incapacità di comunicare che scatena la fine del mondo in Le cose semplici di Luca Doninelli (2015)In qualche modo, l’uomo distrugge sempre l’uomo, nel racconto distopico. Mi viene da scrivere che l’uomo non si fida di sé e «si fa paura»: non conosce e teme le possibili conseguenze cui le sue capacità scientifiche, tecnologiche e per così dire dis-umane possono portare.

Davanti alla catastrofe reale, davanti all’incertezza, ci si immagina un dopo – che giocoforza è sempre catastrofico o tende a questo. Il racconto del dopo porta all’estremo il senso di orrore, paura e instabilità e travalica i generi (l’horror, la fantascienza) per fornire un’allegoria delle cose che sia sufficientemente separata dalle cose da poterne essere uno specchio e una forma di giudizio. Non c’è quasi mai, in questa forma narrativa, una possibilità di redenzione e di salvezza – e questa è un’ulteriore forma di distacco dal testo primo di riferimento, quello di San Giovanni.

Clicca qui per leggere alcuni estratti di interviste a Cormac McCarthy

 

Crediti immagine: Apertura: Caspar David Friedrich, Abbazia nel querceto, 1810, olio su tela, Berlino, Alte Nationalgalerie, da Wikipedia (Link) Box: Cristoforo de Predis, Morte del Sole, della Luna, e caduta delle stelle, XV secolo, da Wikipedia (Link)
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