La crisi di un’epoca o un’epoca di crisi?
Nel periodo che va dalla morte di Commodo (192) all’inizio del regno di Diocleziano (284) l’Impero romano subisce una trasformazione profonda. Numerosi fattori di crisi caratterizzano un periodo di estrema incertezza, in cui è in dubbio persino la sopravvivenza dell’Impero. Negli studi storiografici recenti, tuttavia, ci si è spesso interrogati sulla legittimità del termine “crisi” in riferimento alle vicende del III secolo d.C., sottolineando gli elementi di continuità con ciò che segue (la cosiddetta età tardoantica, a partire dal regno di Costantino) e al limite concedendo che si può parlare di crisi nella gestione del potere imperiale, dato il rapido avvicendarsi di tanti imperatori negli anni drammatici che vanno dal 235 al 284. Ma i dati storici in nostro possesso ci dicono altro, attestando un drastico calo demografico, una decrescita nella produzione e nel commercio, una galoppante svalutazione monetaria, la diffusione di culti religiosi alternativi a quelli tradizionali di Roma: evidenti elementi di rottura che colpiscono l’intera vita dell’Impero e ci autorizzano a definire il III secolo come un’epoca di crisi.
La minaccia esterna, distribuita su più fronti
I rinnovati attacchi esterni mettono a rischio l’integrità territoriale dell’Impero, minacciato su più fronti spesso contemporaneamente, e lo stato di guerra permanente coinvolge un’ampia parte della popolazione. Alemanni e Franchi premono sul confine del Reno, l’area del Danubio è sotto l’attacco dei Goti, mentre in Oriente l’aggressione persiana si fa più aspra quando si afferma la nuova dinastia dei Sasanidi (con Ardashir I incoronato Re dei Re a Persepoli nel 226). Conserviamo due simboli icastici che ben rappresentano la gravità della minaccia esterna. Il primo, il ritratto dell’imperatore Valeriano (253-260), vinto e trascinato in catene dal re persiano Sapore, scolpito nel bassorilievo di Bishapur in Iran. Eppure Valeriano, un anziano senatore giunto al potere dopo una serie di effimeri imperatori militari, aveva tentato una soluzione sistematica, associandosi al potere il figlio Gallieno e affidandogli il governo delle province occidentali, per potersi così concentrare sul fronte orientale, dove l’offensiva di Sapore incombeva sulla Siria; ma evidentemente senza successo.
Bassorilievo raffigurante il trionfo di Shapur i sugli imperatori romani Valeriano e Filippo l'Arabo, necropoli di Naqsh-e Rostam, Iran (Wikimedia Commons)
La seconda immagine simbolica viene dal cuore dell’Impero ed è l’impressionante cinta muraria con cui Aureliano (270-275) circondò Roma dopo le ripetute penetrazioni di popolazioni barbariche nella Pianura padana: un perimetro di diciotto chilometri per uno spessore di quattro metri.
Le mura tra porta san Sebastiano e porta Ardeatina (Wikimedia Commons)
Un periodo di “anarchia militare”, da Massimino Trace all’avvento di Diocleziano (235-284)
In un’epoca di drammatici problemi militari, il ruolo determinante assunto dall’esercito porta in primo piano la questione mai risolta della mancanza di un sistema rigido di regole per la successione alla carica imperiale. Generali vittoriosi in qualche difficile campagna, ma anche capi militari dal trascurabile curriculum, aspirano al potere supremo e tentano colpi di mano. La dinastia dei Severi, inaugurata nel 193 da Settimio Severo, che si afferma nel clima di incertezza posteriore alla morte di Commodo, finisce così: l’ultimo dei Severi, Severo Alessandro, impegnato su più fronti, in Germania e contro la Persia, perde il sostegno dell’esercito; un soldato di oscure origini, ma dotato, secondo le fonti, di una terrificante forza fisica, Massimino Trace, è acclamato imperatore nel 235 dalle reclute affidategli per l’addestramento, e dà inizio a un periodo noto come “anarchia militare”, cinquant’anni (fino al 284) in cui si succedono nella carica imperiale una ventina di imperatori, senza contare i numerosi tentativi di usurpazione, tanto effimeri quanto destabilizzanti. Di fronte alle ripetute ribellioni degli usurpatori, Gallieno, che dopo la cattura del padre Valeriano regge da solo l’impero negli anni 260-268, si trova persino costretto ad accettare la formazione di due regni separatisti: il cosiddetto “impero gallico”, comprendente le Gallie, la Spagna e la Britannia, nato nel 259 e sopravvissuto per trent’anni, e il regno di Palmira, esteso a Siria, Palestina e Mesopotamia, in una prima fase, sotto Odenato, ancora alleato di Roma, ma in seguito, con la vedova di Odenato Zenobia, orientato a una politica antiromana.
L’esercito accresce il suo peso politico e il potere imperiale si trasforma in senso assolutistico
L’esercito è il fondamento del potere degli imperatori, eletti per proclamazione militare e sostenuti nell’esercizio della loro carica dal favore delle truppe. L’accresciuto peso politico dell’esercito trasforma la natura stessa delle istituzioni. Il potere imperiale assume forme sempre più assolutistiche e cambia il proprio rapporto con il senato. Mentre secondo l’ideologia augustea del principato l’imperatore esercitava il potere in collaborazione con l’aristocrazia senatoria di cui era espressione (in quanto primus inter pares), ora il senato è un relitto istituzionale, ridotto a funzioni burocratiche e soggetto all’autorità assoluta dell’imperatore.
Le casse dello stato sono sempre più indistinte dalla cassa privata dell’imperatore, che tratta il tesoro pubblico come cosa sua. Anche l’adozione del culto del Sole da parte di molti imperatori del III secolo è legata alla sua diffusione tra i soldati e all’immagine propagandistica dell’imperatore come sovrano assoluto. Elagabalo (218-222), che deriva il soprannome con cui è noto dal nome greco del dio Sole, Helios, giunge perfino a portare a Roma il simulacro del dio, una pietra conica nera, e a consacrargli un tempio sul Palatino. Cinquant’anni dopo Aureliano (270-275) rende ufficiale il culto di Sol invictus, identificato con il dio Mitra adorato dai soldati, e associato al culto dell’imperatore: il potere imperiale diventa quasi teocratico.
La crisi economica e finanziaria
Per garantirsi il favore dell’esercito gli imperatori fanno concessioni sempre più ampie. L’aumento del “soldo”, la paga dei soldati, a partire dai Severi fa lievitare le spese per il mantenimento dell’esercito, con gravi conseguenze su un’economia già sofferente. La documentazione archeologica attesta, infatti, una riduzione significativa della produzione e dell’attività commerciale per tutto il III secolo. La crisi del sistema politico-amministrativo imperiale è anche la conseguenza di una profonda crisi economica e soprattutto finanziaria. Il bilancio dello Stato registra un disavanzo cronicizzato, uno squilibrio tra entrate e uscite causato da una drastica riduzione delle entrate fiscali. Infatti l’epidemia di peste dell’età antonina (165-180), che decimò la popolazione imperiale, è all’origine di un netto calo demografico. La stessa Constitutio Antoniniana, il provvedimento legislativo varato da Caracalla nel 212, che estendeva la cittadinanza romana a tutti gli abitanti dell’Impero, oltre che legalizzare il superamento di fatto della distinzione tra italici e provinciali nella società romana, aveva probabilmente ragioni di carattere fiscale, in quanto inteso ad allargare la base dei contribuenti. A sanare la crisi finanziaria è evidentemente orientato anche un altro provvedimento di Caracalla, l’introduzione di una nuova moneta, l’”antoninano”, che aveva il valore nominale di due denarii, ma con una percentuale d’argento (e quindi un valore effettivo) molto minore.
Una politica monetaria destinata al fallimento
Per rispondere alle crescenti spese militari e dell’amministrazione statale, per tutto il secolo la produzione di antoniniani è in vertiginoso aumento. Ciò è possibile perché la coniazione avviene a standard sempre più bassi di peso e di metallo fino. Inoltre, le nuove monete immesse sul mercato non provengono dalla coniazione di metallo nuovo, ma dalle monete già circolanti che entrano nelle casse dello Stato attraverso il circuito fiscale ed escono dalla zecca riconiate secondo i nuovi standard ponderali. La produzione di metallo nuovo monetabile, infatti, ha subito una brusca battuta d’arresto, per la cessazione dell’attività mineraria anche nelle zone metallifere più ricche. È probabile che la mancata produzione di metallo prezioso dipenda dalle molte difficoltà che l’impero si trova ad affrontare. Per esempio, la miniera di Rio Tinto in Spagna, la più importante fonte di argento monetabile, viene chiusa nel 170-180, negli anni in cui imperversa la peste antoniniana, e nella seconda metà del secolo non sarà più sotto il controllo dell’imperatore, trovandosi nel territorio dell’impero gallico. Secondo recenti ipotesi (dovute allo storico dell’economia imperiale E. Lo Cascio), tuttavia, il mancato sfruttamento delle miniere potrebbe risalire a una scelta strategica dell’autorità imperiale, che mira a far salire il prezzo del metallo monetabile rispetto a tutti gli altri prezzi, per continuare a riconiare la vecchia moneta a standard più bassi e così riequilibrare il disavanzo del bilancio pubblico senza ulteriori conseguenze per l’economia. Ma l’aumento del prezzo dei metalli preziosi alla lunga genera fenomeni di tesaurizzazione da parte dei privati, che tendono a trattenere nelle proprie mani i pezzi migliori sottraendo all’autorità imperiale cospicue quantità di metallo. E il fragile equilibrio finanziario, basato appunto sull’incremento della moneta in circolazione attraverso la riconiazione della moneta vecchia a standar inferiori, si spezza quando le entrate fiscali diminuiscono in seguito alla nuova crisi demografica e produttiva dovuta all’epidemia di peste scoppiata negli anni di Decio (249-251) e alla formazione dei regni separatisti, che sottraggono all’autorità imperiale un cospicuo numero dei contribuenti.
La diffusione del cristianesimo e la persecuzione di Decio
Guerre, epidemie, instabilità politica, crisi economica e finanziaria: in questo contesto anche la religione tradizionale dell’impero, il sistema dei culti cittadini, perde qualsiasi attrattiva. Si diffondono nuovi culti di origine orientale, capaci di rispondere meglio alla nuova ricerca di senso, e tra questi in particolare il cristianesimo, che nel III secolo fissa già le strutture organizzative della propria Chiesa primitiva. La reazione ostile dell’autorità imperiale contro la diffusione della nuova religione si manifesta in tutta la sua asprezza nella prima persecuzione sistematica dei cristiani, voluta da Decio nel 250-251, negli anni appunto in cui più forte si avvertiva la minaccia proveniente dai popoli barbari. Nell’intento di consolidare la religione tradizionale e in particolare il culto ufficiale dell’imperatore, considerato un fattore di coesione interna, Decio impose che ogni abitante dell’impero sottoscrivesse un documento che attestava il compimento dei sacrifici rituali agli dèi e all’imperatore: chi avesse rifiutato era condannato a morte.
Lo sguardo dei contemporanei su un mondo ormai vecchio
Cipriano, vescovo di Cartagine, scampato alla persecuzione di Decio, ma non a quella di Valeriano nel 258, anno del suo martirio, ci offre una testimonianza significativa di come in quegli anni i contemporanei percepivano la realtà storica. Rispondendo al pagano Demetrio che accusa i cristiani di essere responsabili delle molte calamità che colpiscono l’Impero poiché trascurando il culto degli dèi ne provocano l’ira, Cipriano dipinge un quadro rovinoso di tutti i mali dell’Impero e impiega contro l’interlocutore il topos della senectus mundi: il mondo presenta tutti i sintomi dell’invecchiamento. Lo scrittore cristiano suggerisce all’avversario pagano di applicare alla realtà contemporanea lo schema ciclico, biologico della storia umana, elaborato dalla civilità greco-romana. Demetrio quindi non attribuisce ai cristiani ciò che dipende da una legge di natura: il mondo romano ha esaurito il suo ciclo vitale e ormai non può sottrarsi alla morte (Ad Demetrianum, 3-5).
Crediti immagine: Bassorilievo raffigurante il trionfo di Shapur i sugli imperatori romani Valeriano e Filippo l'Arabo, necropoli di Naqsh-e Rostam, Iran (Wikimedia Commons)