Esperimenti sull’essere umano
All’interno di L’arte del romanzo, una raccolta di sette pezzi, tra cui due interviste, in cui il grande scrittore ceco Milan Kundera parla del romanzo europeo e svela qualche segreto a proposito della sua tecnica compositiva, si dice: «Il personaggio non è una simulazione di un essere vivente. È un essere immaginario. Un essere sperimentale». È un’affermazione generale, perfino ovvia nella prima parte (“il personaggio è un essere immaginario”), più complessa nella seconda: cosa può voler dire infatti dire che un personaggio è un “essere sperimentale”? Una possibile spiegazione la fornisce lo stesso Kundera qualche pagina più avanti, quando sostiene che «rendere “vivo” un personaggio significa: andare fino in fondo alla sua problematica esistenziale. Significa cioè andare fino in fondo ad alcune situazioni, alcuni motivi, alcune parole, direi, di cui è fatto». E ancora, più oltre: «Il romanzo non indaga la realtà, ma l’esistenza. E l’esistenza non è ciò che è avvenuto, l’esistenza è il campo delle possibilità umane, di tutto quello che l’uomo può divenire, di tutto quello di cui è capace».
Provo a mettere ordine:
1)Il personaggio è un essere sperimentale;
2)affinché sia vivo (vale a dire credibile) deve avere un problema esistenziale, e chi scrive la sua storia deve andare “dentro” questo problema, indagarlo, sviscerarlo;
3)l’esistenza, in letteratura, è un campo di possibilità; dunque il personaggio è messo spesso di fronte a dei bivi (si sposerà? Accetterà il lavoro? Diserterà e tradirà i suoi compagni? e così via) che simulano la nostra vita, la nostra possibilità di scelta.
In sostanza, sembra dire Kundera, gli scrittori usano i personaggi per fare degli esperimenti: attraverso le loro vicende fanno indagini sul dolore, la perdita, l’amore, la passione, il coraggio, la paura, l’avventura ecc. Leggere romanzi ci aiuta a capire chi siamo e come siamo fatti perché i personaggi vivono, a volte, vicende in cui ci riconosciamo, altre volte vicende in cui vorremmo riconoscerci, altre ancora vicende che non vorremmo vivere mai. Sulla base delle loro esperienze noi calibriamo noi stessi.
Dunque, ai personaggi possiamo fare domande.
Prendiamo Gregor, quel personaggio delle Metamorfosi di Kafka che una mattina, svegliandosi da sogni inquieti, si trova trasformato in un enorme insetto, e gli chiediamo «Chi sei? Che cosa ti è successo? La tua condizione è una malattia? Un’infermità? E perché la prima cosa che ti preoccupa, davanti alla tragedia che ti è successa, è che farai tardi in ufficio?»; poi prendiamo Don Chisciotte, lo vediamo uscire di casa, all’improvviso convinto di essere un cavaliere e di dover salvare il mondo, e gli domandiamo «Sei davvero folle o forse lo fai perché non vuoi vedere l’orrore del mondo? Sei pazzo o ti stai nascondendo?»; e così via.
Possiamo chiedere qualunque cosa ai personaggi, loro non ci risponderanno: ci faranno però vedere delle possibilità. Non ci diranno che cos’è la paura – la proveranno, e noi la proveremo con loro; non ci diranno che cos’è l’amore – lo proveranno, e noi lo vivremo con loro.
C’è però una domanda che è stata posta raramente ai personaggi: quella sulla felicità.
Una cosa che non si può chiedere
Non si può chiedere a qualcuno, anche se si tratta di un “essere sperimentale”, se è felice. Non in modo diretto per lo meno. «Sei felice?» è la domanda più scandalosa possibile – è più sconveniente di «Sei innamorato?», per esempio, o di «Non ti vergogni?», perché la domanda diretta sulla felicità ci costringe a metterci a nudo, e nessuno vuole farsi vedere nudo davvero.
In certi contesti, poi, è anche retorica, melensa, banale.
Così la letteratura, che evita la retorica e la banalità, di solito aggira il problema: indaga l’infelicità.
Prendete Čechov. C’è un suo racconto del 1897 che si chiama Viaggio sul carro in cui succedono poche cose: una maestra viaggia in carrozza per tornare a casa; è stata in paese, ha ritirato lo stipendio e fatto spese; incrocia la carrozza di un possidente, un uomo belloccio con cui, in passato, ha pensato di avere una storia, ma non è successo nulla, lui ora è ingrassato, beve; la maestra non è sola, c’è il cocchiere che guida il suo carro: è un uomo rozzo, cocciuto, ma i due si conoscono da tanti anni, chiacchierano; fanno una tappa in una taverna, uscendo il cocchiere si ostina a voler guadare un fiume anziché allungare la strada per attraversare un ponte: la carrozza si riempie di fango, le compere della maestra si imbrattano, le scarpe e il vestito si rovinano; arrivano a una stazione, alla maestra sembra di vedere, su un treno, sua madre. Ma non è sua madre, è solo una signora che le assomiglia: la madre, come tutta la sua famiglia, non c’è più da tempo. Vivevano con un certo benessere a Mosca, un tempo, poi, all’improvviso, i genitori sono morti e lei, che sognava una vita piena di luci, ha dovuto ritirarsi nel fango della campagna e trovarsi un impiego come maestra. Vive sola, morirà sola e lo sa.
Ecco, ascoltate Čechov: «Lo stradale era asciutto, un magnifico sole d’aprile scaldava forte, ma nei fossi e nei boschi c’era ancora la neve. L’inverno cattivo, fosco, lungo, era ancora recente e la primavera era giunta di colpo, ma per Mar’ja Vasil’evna che sedeva ora nella telega non offrivano nulla di nuovo e di interessante né il tepore, né i boschi trasparenti, illanguiditi, riscaldati dal respiro della primavera, né i neri stormi di uccelli che volavano nei campi sopra le vaste pozze d’acqua, simili a laghi, né quel cielo meraviglioso e senza fondo, nel quale pareva che ognuno si sarebbe rifugiato con tanta gioia. Erano già tredici anni che ella era maestra e non si contavano le volte che in tutti quegli anni era andata in città per lo stipendio; e fosse primavera, com’era ora, o una sera piovosa d’autunno o inverno, per lei era lo stesso e sempre invariabilmente ella desiderava una cosa sola: arrivare al più presto.
Aveva la sensazione di vivere in quei paesi già da molto, molto tempo, da cent’anni, e le pareva di conoscere, lungo tutto il cammino dalla città alla scuola, ogni pietra e ogni albero. Lì erano il suo passato e il suo presente; e non poteva raffigurarsi altro avvenire che la scuola, la strada della città, e il ritorno, e poi ancora la scuola e ancora la strada».
È la prima pagina del racconto. Da tredici anni, da quando è sola, Mar’ja fa la stessa cosa nello stesso modo – va in paese a prendere lo stipendio – e niente la interessa, tutto è sempre uguale, ripetitivo, morto. Ha avuto una vita, una possibilità (a Mosca), ma l’ha perduta.
Questa invece è la pagina conclusiva, alla stazione: «Eccolo, il treno: i finestrini, come le croci della chiesa, erano bagnati di una luce vivida, e faceva male a guardarli. Sulla piattaforma di una vettura di prima classe stava una signora e Mar’ja Vasil’evna gettò su di lei un rapido sguardo: tutta sua madre! Che somiglianza! Sua madre aveva gli stessi splendidi capelli, la stessa fronte, il medesimo portamento della testa. E con vividezza e chiarezza sorprendente, per la prima volta in quei tredici anni, ella si raffigurò la madre, il padre, il fratello, l’appartamento a Mosca, l’acquario con i pesciolini e tutto questo nei minimi particolari, udì a un tratto suonare il piano, udì la voce del padre e si sentì, come allora, giovane, bella, elegante, in una tiepida stanza luminosa, circondata dai suoi; un senso di gioia e di felicità si impadronì a un tratto di lei; rapita, si prese le tempie tra le palme e chiamò teneramente, con un accento di preghiera: “Mamma!”. E si mise a piangere, senza sapere il perché».
Čechov indaga la felicità di Mar’ja raccontando il suo contrario – la solitudine, la malinconia, lo sconforto; se fosse uno scrittore mediocre, si fermerebbe qui, alla descrizione della sconfitta della sua protagonista. Ma non è un mediocre, è un gigante. Così, la felicità ce la fa vedere, alla stazione: è un lampo, un bagliore, un affioramento della vita passata, qualcosa che dice che, forse, la vita di Mar’ja avrebbe potuto essere bella, se... Ma le cose sono andate diversamente, e Čechov non chiede alla sua protagonista «Sei felice?», perché sa che non si può; le chiede: «Perché sei infelice? Da dove arriva la tua infelicità?» e ce lo fa vedere.
(Crediti immagine: Illustrazione di Alexander Apsit di Viaggio sul carro di Čechov, 1903, Wikimedia Commons)