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Quelli che sperano, nonostante tutto

La letteratura ha una forte connessione con la speranza, che emerge anche nelle storie più drammatiche e quando tutto sembra compromesso. Attraverso l’analisi di quattro testi, Andrea Tarabbia parla di personaggi che sono stati vittime delle peggiori ingiustizie e di gravi abusi, ma che sperano fino all’ultimo che il domani possa essere migliore.

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In questi ultimi mesi, nelle carceri minorili italiane ci sono state alcune rivolte e alcuni tentativi di fuga, a volte riusciti. Dei minorenni, non importa quale sia la loro colpa, si sono ribellati a delle punizioni che ritenevano ingiuste. Esemplare è il caso del carcere Beccaria di Milano: ad aprile, alcuni secondini sono stati arrestati con l’accusa di violenze nei confronti di alcuni detenuti; a maggio, i prigionieri si sono rifiutati di tornare in cella dopo l’ora d’aria per protestare contro una sanzione disciplinare; a giugno ci sono state delle evasioni; a settembre, una rivolta: sono stati incendiati dei materassi, e quattro ragazzi sono riusciti a scappare, salvo poi venire riacciuffati nel giro di poche ore.

La furia, di Sorj Chalandon

In questi giorni è uscito in Italia il nuovo romanzo di un grande scrittore francese, Sorj Chalandon: si chiama La furia e ruota attorno a un episodio realmente accaduto nella Francia del 1934. In una piccola e splendida isola al largo delle coste bretoni, Belle-Île, esisteva all’epoca un Istituto di rieducazione per minorenni – di fatto un riformatorio – dove finivano non solo delinquenti, ma anche orfani e bambini ripudiati dalle famiglie. Si trattava a tutti gli effetti di un carcere duro.

La vita quotidiana, si scoprì, trascorreva tra violenze, soprusi, lavoro forzato, promiscuità, tanto che, la sera del 27 agosto 1934, scoppiò una violentissima rivolta che portò all’evasione di 56 detenuti. Poiché il numero di agenti di stanza sull’isola era ridotto, fu messa su ogni fuggiasco una taglia di 20 franchi: i cittadini di Belle-Île e i turisti si diedero a una caccia all’uomo, che nel giro di poche ore riportò in carcere 55 dei 56 evasi – che subirono una repressione feroce.

Chalandon racconta in forma di romanzo questa storia terribile, seguendo l’unico evaso che non fu mai catturato, a cui dà un nome e un soprannome fittizi: Jules Bonneau detto la Tigna. Internato a 11 anni perché orfano e ripudiato dai nonni, Jules ne ha 13 all’epoca della rivolta – di cui di fatto è uno dei leader.

Prova una rabbia feroce per l’ingiustizia che da sempre subisce, odia tutti e diffida di chi è gentile con lui; non si piega mai: preferisce subire torture piuttosto che darla vinta ai secondini sadici o ai bulli del carcere; è vendicativo ma giusto: se la prende coi forti e protegge i deboli, secondo un codice etico da cui non si allontana mai. È un puro, insomma, anche se vive nei bassifondi e non conosce tenerezza. Il 27 agosto 1934 fugge, sapendo che la fuga è disperata: l’isola è piccola, tutti sono in caccia e attraversare l’oceano è impossibile senza prendere un traghetto – dove verrà senza dubbio riconosciuto. Eppure fugge. Vive all’addiaccio, perde l’unico quasi-amico che ha, prova paura e orrore, ma non lo abbandona mai la speranza di poter vivere la vita semplice e libera che immagina.

È naturalmente un caso che un libro come La furia arrivi in Italia proprio nel momento in cui, in posti come il Beccaria, i ragazzi chiedono delle condizioni di vita migliori e si ribellano. È uno degli strani cortocircuiti che, a volte, si creano tra letteratura e vita reale: di fatto leggere il grande libro di Chalandon può aiutare a entrare in contatto con ciò che accade nelle carceri italiane, che sono in fermento da parecchio tempo.

Il XX Rapporto dell’Associazione Antigone sulle condizioni di detenzione in Italia nel 2024: https://www.rapportoantigone.it/ventesimo-rapporto-sulle-condizioni-di-detenzione/

I drusi di Belgrado, di Rabee Jaber

Ma la letteratura è da sempre in contatto con coloro che, pur vivendo in condizioni disperate o terminali, lottano comunque per sopravvivere, come se in loro, nonostante il dolore e la disperazione, rimanesse sempre viva la speranza che, domani, le cose cambieranno. E dunque resistono.

Rabee Jaber è uno scrittore libanese, autore di un grande libro sull’ingiustizia: si chiama I drusi di Belgrado e racconta la storia di un povero diavolo, Hanna Ya’qub, venditore di uova, sposato e con una figlia piccolissima, che viene gabbato.

Le cose stanno così: i cinque figli dello sceicco Ezzedine vengono arrestati dagli ottomani e spediti in carcere nei Balcani; lo sceicco chiede agli ottomani la grazia, e gli ottomani gli concedono di salvare un solo figlio, a patto che qualcuno si imbarchi sulla nave che lo porterà ai lavori forzati al posto suo. Hanna Ya’qub sta vendendo le sue uova al porto e viene convinto a salire sulla nave: gli promettono pochi soldi e di tornare a Beirut entro un paio di giorni.

Ya’qub è povero e solo, le guardie che lo abbordano minacciose: così lascia la sua cesta di uova lì dove si trova e si imbarca. Per dodici anni, mentre tutti a casa lo credono morto, Ya’qub vagherà di carcere in carcere tra la Serbia, il Kosovo, l’Albania e il Montenegro, subirà torture, percosse, verrà deriso, perderà i denti, vedrà molti compagni morire o tentare inutili fughe, ma non dimenticherà mai la moglie e la figlia, anzi: proprio la loro memoria sarà la forza che permetterà a questo uomo comune, debole e ingenuo, di sopravvivere e, un giorno, tornare a casa.

Ya’qub è parente stretto di un certo Yakov, Yakov Bok, ebreo ucraino che vive di espedienti e che, nella Russia zarista del 1911, viene accusato dell’omicidio di un bambino – omicidio che ovviamente non ha commesso: ma una delle superstizioni più antiche legate all’antisemitismo vuole che gli ebrei si nutrano di sangue innocente e compiano sacrifici rituali. Yakov è l’unico, nel contesto in cui vive e lavora – una fabbrica gestita da un ricco antisemita – che, secondo questa logica imbecille, può aver ucciso. Viene così rinchiuso in carcere, senza processo e senza possibilità di riscatto.

L’uomo di Kiev, di Bernard Malamud

Qui, comincia uno straordinario, dolorosissimo romanzo dello scrittore ebreo americano Bernard Malamud: L’uomo di Kiev. Composto nel 1966, è basato su una storia vera, e racconta di un altro uomo comune, anch’egli un po’ ingenuo, che viene travolto dal caso e dall’odio, eppure non si lascia sconfiggere. Dice:

«Non è facile essere libero pensatore in questa terribile cella. Pure, l’uomo deve contare su quel poco di ragione che ha».

Ya’qub come Yakov come Giacobbe come Giobbe.

Sembra che la radice da cui derivano questi nomi biblici e antichissimi, “yb”, significhi “osteggiare”: chi in letteratura porta questo nome, dalla Bibbia in poi, è colui che è osteggiato. Qualcuno gli è contro: Satana, il destino, l’odio antisemita, la legge.

Il libro di Giobbe

Nel racconto biblico, Giobbe è un uomo giusto, pio, «di perfetta purità»; è ricco, ha una bella famiglia, è felice. La sua perfezione incuriosisce Satana, che sfida Dio: Giobbe lo loda poiché la sua vita è perfetta. Ma cosa farebbe se cominciasse a soffrire? Continuerebbe ad amare Dio? Per provargli la fede incrollabile dell’uomo, Dio permette a Satana di tormentarlo: perde il bestiame, i denari, i sette figli, viene intaccato da una malattia orrenda e dolorosissima.

Giobbe soffre, si dibatte, si chiede perché l’amore di Dio gli dia ora le spalle, arriva a implorarlo di avere pietà, poiché non capisce il senso dei suoi tormenti. Ma non lo rinnega, non lo bestemmia mai: sopporta perché, dice, «Il Signore dà il Signore toglie». Il Libro di Giobbe è un testo straordinario, fuori da ogni logica, oscuro e magnetico: mette un uomo giusto davanti all’ingiustizia e al Male e lo abbandona, lo lascia solo per vedere che uomo è.

È un testo così potente che ancora oggi, dopo migliaia di anni, gli scrittori di tutto il mondo si confrontano con lui, e lo riscrivono, lo attualizzano lasciando aperte tutte le domande che ha aperto lui e in fondo raccontando, attraverso il dolore, storie di speranza.


Crediti immagine: Léon Bonnat, "Giobbe", 1880; Parigi, Musée d'Orsay (Wikipedia).

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