Aula di lettere

Aula di lettere

Percorsi nel mondo umanistico

Sezioni
Accad(d)e che
Come te lo spiego
Interventi d'autore
Il passato ci parla
Sentieri di parole
Nuovo Cinema Paini
Storia di oggi
Le figure retoriche
Gli antichi e noi
Idee didattiche digitali
Le parole dei media
Come si parla
Dall'archivio
Tutti i temi del mese
Materie
Italiano
Lettere classiche
Storia e Geografia
Filosofia
Storia dell'arte
Scienze umane
Podcast
Chi siamo
Cerca
Come te lo spiego

Seneca e la condanna della speranza

Per Seneca la via verso la saggezza è difficile. Anche la speranza può essere un ostacolo, soprattutto se viene indirizzata a obiettivi vani e privi di significato. Questo tipo di speranza, per Seneca, riconosce eccessiva importanza all’attesa, quindi al domani, e porta con sé paure: il saggio stoico, secondo Seneca, deve allenarsi a una speranza razionale, che dia valore al presente.

leggi

Intorno a sé Seneca vede un’umanità affannata, indaffarata in molteplici, interminabili occupazioni: alcuni sono condotti dalla frenesia del commercio di terra in terra, di mare in mare con la speranza di guadagno, spe lucri (brev. vit. 2,1); altri, tutti presi dalla carriera politica, sono incapaci di rallentare e trovare un po’ di tempo per sé stessi: «Dovrei rinunciare a tali speranze di grandezza (tam magnas spes)? Andarmene proprio quando è la stagione del raccolto?», obiettano (epist. 22,9).

Le vane speranze dei molti

Il cavaliere Cornelio Senecione, che ha costruito la sua fortuna dal nulla, che è considerato un asso negli affari, una sera cenava allegramente con gli amici e la mattina dopo era già morto, colpito da angina fulminante mentre faceva denaro a palate.

«Che sciocchezza - conclude Seneca - fare progetti per tutta una vita quando non si è padroni neppure del domani! Oh, come sono pazzi coloro che concepiscono speranze a lungo termine (O, quanta dementia est spes longas inchoantium)!» (epist. 101,4).

Fuga del tempo e speranze smisurate

Lo stoico Seneca ripete così l’avvertimento che Orazio, l’epicureo, rivolgeva al ricco Sestio in carm. 1,4,15-16: «la durata breve della vita ci vieta di concepire una speranza lunga (vitae summa brevis spem nos vetat inchoare longam). Ecco che presto graverà su di te la notte…». Di qui, di fronte alla fuga del tempo, l’invito a “potare” la speranza lunga nel breve tempo della vita, in carm. 1,11,6-7: spatio brevi/ spem longam reseces.

Nemmeno il passare degli anni rende più saggi: la morte coglie di sorpresa chi, giunto all’estrema vecchiaia, ancora si proietta in novas spes ut iuventa, come se avesse tutta la vita davanti (brev. vit. 20,2). La sete di vita degli esseri umani è inesauribile, ma nessuno si accorge del tempo che passa andando perduto, senza essere stato vissuto davvero, come un torrente che scorre a precipizio, cui non si riesce ad attingere. Il fiume e l’abisso sono tra le metafore preferite da Seneca per rappresentare la fuga del tempo. Non si fa nessun conto del tempo che non tornerà mai più, nuove occupazioni si sostituiscono alle vecchie, la speranza risveglia la speranza (spes spem excitat, ambitionem ambitio) in un vortice senza fine (brev. 17,5).

Improba, smisurata, è infatti la speranza degli uomini affaccendati, perché numquam… improbae spei quod datur satis est, «ciò che è dato alla speranza insaziabile non è mai abbastanza» (ben. 2,27,3); anzi, coloro che hanno ottenuto risultati insperati (insperata adsecuti) abbracciano speranze ancora più smisurate, spes improbissimas (clem. 1,1,7).

La paura, l’altra faccia della speranza

Ma Seneca si spinge oltre, invita Lucilio a rifuggire persino le «dolcissime lusinghe» (dulcissima oblectamenta) delle speranze di facile realizzazione, perché anche quando si avverano, le speranze gettano l’uomo in uno stato di ansiosa trepidazione, sollicitus est et incertus sui (epist. 23,2-3). Infatti, non c’è «niente di più amaro» (contrario di dulcissimus) che restare a lungo sospesi (nihil aeque amarum quam diu pendere): per questo alcuni sopportano più serenamente che la loro speranza sia troncata di netto, piuttosto che tirata per le lunghe (ben. 2,5,1).

Appoggiandosi a una massima di Ecatone, desines timere, si sperare desieris, «smetterai di aver paura se smetterai di sperare» (incisiva per il chiasmo in poliptoto di desino, che accosta al centro i verbi paradossalmente equiparati), il filosofo spiega al discepolo che ha da poco abbracciato il cammino verso la sapienza (epist. 5,7), che paura e speranza, sentimenti in apparenza tanto dissimili, sono intimamente collegati tra loro: come il prigioniero e la guardia, che vanno di pari passo legati da una stessa catena, così la paura tiene dietro alla speranza (spem metus sequitur).

Sperare, come attesa di un bene o di un male

L’interdipendenza di metus e spes ha anche una radice linguistica: spes e il corrispondente greco ἐλπίς [elpìs] sono in origine voces mediae, con il significato generico di «aspettativa, attesa»: esso si specifica come «speranza» o «timore» nel caso che l’oggetto dell’attesa sia rispettivamente un bene o un male. Già per Platone ἐλπίς è il giudizio congetturale su ciò che sarà (δόξα, «opinione», quindi, e non ἐπιστήμη, «conoscenza»), precisandosi poi come «paura», φόβος [fobos], se si tratta dell’attesa di un male, «fiducia», θάρρος [tharros] se l’attesa è rivolta a un bene (Leg. 644C9-11).

Così per gli Stoici ἐλπίς, la speranza, ha il significato generico di «attesa» (di un bene o di un male), ed è un πάθος [pathos], una passione, simile al desiderio, ἐπιθυμία [epithymia], lat. cupiditas, cioè un turbamento dell’animo che sfugge al controllo razionale poiché fondato sulla τύχη [tyche], sul «caso», essendo fortuiti tutti gli eventi futuri, soggetti al capriccio della sorte.

Sperare non appartiene quindi all’etica del saggio stoico, ma è tipico degli sciocchi: si oppone infatti all’esercizio della virtù, al pari delle altre perturbationes, le «passioni» dell’anima, che nella classificazione di Crisippo (riferita da Hier., epist. 133,1), oltre a spes e metus, comprendono gaudium, «gioia», ed aegritudo, «afflizione». Quest’ultima coppia ha come oggetto rispettivamente un bene o un male presente, mentre spes e metus sono riferite a un bene o un male futuro.

Il saggio non spera perché non dipende dal futuro

Il saggio non pone la propria felicità in potere altrui (in aliena potestate): per questo Seneca esortava Lucilio a rinunciare alla speranza, per quanto consolatoria (epist. 23,2). Sperare è un ostacolo nella difficile ricerca dell’αὐτάρκεια [autàrkeia], l’autosufficienza spirituale, l’indipendenza del saggio dai beni esterni, soggetti al potere della fortuna.

Per Seneca «il più grande ostacolo al vivere è l’attesa (maximum vivendi impedimentum est exspectatio)», perché essa pendet ex crastino, «dipende dal domani», e intanto perdit hodiernum, «perde l’oggi» (brev. vit. 9,1). La speranza sposta il baricentro della vita fuori da sé stessi, “sporge” pericolosamente sul futuro, privandoci della possibilità di vivere pienamente il presente. Quod in manu fortunae positum est, disponis, quod in tua dimittis, «Ciò che è in potere della sorte, lo predisponi, e ciò che è in tuo potere, lo lasci andare», osserva ancora Seneca: è la polemica contro la dilatio, la tendenza degli uomini a differire la vita, progettare il futuro e rinunciare a vivere il presente. Di qui il grido del filosofo: Quo te extendis?, «Dove ti protendi?». Se «tutto ciò che deve accadere è incerto», la soluzione è una sola: protinus vive, «vivi subito, senza indugio». Ancora una volta la saggezza stoica collima con quella epicurea, con l’oraziano carpe diem, «cogli l’attimo», vivi il presente.

L’ucronia del saggio stoico

Il saggio trionfa sul tempo, sul suo fluire vorticoso, perché il tempo per lui non ha valore quantitativo, ma qualitativo: non conta la durata, ma l’uso che se ne fa (cfr. epist. 70,5; 85,22; 49,10; 61,4). Il saggio non ha bisogno né del passato né del futuro, ma vive concentrato sull’oggi, perché è nel presente che gli è data la possibilità di realizzare la perfezione morale: praesentium gaudet, ex futuro non pendet, «gode del presente, non dipende dal futuro» (ben. 7,2,4).

«Chi ogni giorno ha dato l’ultima mano alla sua vita, non ha bisogno del tempo», spiega Seneca a Lucilio in epist. 101,9, «da questo bisogno nasce la paura (timor) e il desiderio del futuro (cupiditas futuri) che rode l’animo»; e avverte che c’è un solo modo per sottrarsi a questa inquietudine: se la nostra vita non prominebit, «non si sporgerà in avanti», si in se colligitur, «se si raccoglie in sè stessa», poiché ex futuro suspenditur cui irritum est praesens, «dipende dal futuro chi non realizza il presente». La condanna della speranza è una conseguenza necessaria dell’ucronia del saggio stoico, l’annullamento del tempo fisico trasformato in tempo psichico, dimensione e possesso dell’interiorità del saggio.

La speranza come previsione, calcolo razionale

Sottratto al flusso delle cose esterne, il saggio vive in un presente atemporale, non misurabile in termini di minuti, ore, anni, poiché per lui «l’attimo ben vissuto vale un secolo» (epist. 101,9). Non solo. La trasformazione del tempo quantitativo in tempo qualitativo gli consente di recuperare anche il passato e il futuro come dimensioni psichiche: il passato, ciò che ha vissuto lui e ciò che di grande e bello ha realizzato l’umanità prima di lui; e, scevro da trepidazione, ansia e timore, il futuro.

La speranza si riaffaccia nel suo vocabolario con il valore etimologico di «attesa, aspettativa», e si precisa come calcolo razionale, previsione. Sarà la bona spes che Seneca dice di nutrire per Lucilio, tutte le volte che registra qualche progresso significativo sulla via della sapientia (epist. 2,1; 16,1; 19,1); la bona spes di chi non desiste dalla pratica buona del beneficium perché non ha ricevuto adeguata gratitudine, ma, ad imitazione degli dèi, continua a donare (ben. 7,31,3); la bona spes di chi, raggiunta la saggezza, praesentibus laetus, futuri securus, «contento del presente, indifferente al futuro», resiste come Socrate alle accuse altrui (vit. beat. 26,3-5).

Precetti per chi cerca la sapientia

A differenza delle speranze irrazionali dei più, la spes del saggio è razionale, è il prodotto di un calcolo ed è pertanto misurata, ha limiti precisi. Tra i precetti morali ispirati alla necessità di seguire una misura (modus), offerti a chi intraprende la via della saggezza (contenere il lusso, moderare la sete di gloria, mitigare l’irascibilità, guardare la povertà con equilibrio, coltivare la frugalità, soddisfare i bisogni naturali con poco), Seneca invita anche a «tenere in catene le speranze sfrenate (effrenatas spes) e l’animo che si protende verso il futuro (animum in futura imminentem)» (tranq. an. 9,2).

Occorre poi selezionare le attività cui ci dedichiamo preferendo quelle «a cui si può mettere fine o che si può almeno sperare ragionevolmente (certe sperare) di finire» e abbandonando quelle che «vanno sempre più avanti con l’azione (latius actu procedunt)» (tranq. an. 6,4). La spirale senza fine delle occupazioni che assorbono l’uomo sottraendolo a sé stesso è qui contrapposta (nell’antitesi certe sperare vs. latius procedere) al calcolo razionale che restituisce all’uomo il dominio della propria vita futura.

No alla speranza irrazionale per raggiungere la sapientia

Liberato il futuro dall’ansia e dalla paura generate dalla speranza irrazionale, razionalizzata la speranza stessa, il saggio stoico si eleva sul resto dell’umanità. La sua vita multum patet, «molto si estende», perché egli non è confinato nei limiti imposti dalla condizione mortale, egli solo è libero dalle leggi umane (solus generis humani legibus solvitur). La sua vita è resa lunga dalla concentrazione di tutti i tempi (omnium temporum in unum conlatio): il passato? lo blocca con il ricordo (recordatione comprendit); il presente che incalza? lo usa (utitur); il futuro? lo pregusta (praecipit). Tutti i secoli ubbidiscono a lui come a dio, Omnia illi saecula ut deo serviunt (brev. vit. 15,5). È l’assimilazione alla divinità, il logos che ordina il mondo e lo orienta al bene. La sapientia pone l’uomo al vertice dell’essere, lo rende come dio.

Così, rinuciare ai dulcissima oblectamenta delle speranze mortali, per il filosofo stoico, è un piccolo sacrificio in vista del premio finale.

Suggerimenti di lettura:
A. Traina, Il tempo e la saggezza, introduzione a Seneca, La brevità della vita, BUR Milano 1993.
F. Citti, Spes dulce malum. Seneca e la speranza, in Cura sui. Studi sul lessico filosofico di Seneca, Amsterdam 2012, pp. 25-51.


Crediti immagine: Joseph-Noël Sylvestre, Morte di Seneca, olio su tela, 1875, Musée des Beaux-Arts de Béziers (Wikipedia)

Devi completare il CAPTCHA per poter pubblicare il tuo commento