“I confini dell’anima non riusciresti a trovare, per quanto cammini percorrendo ogni strada: così profonda ne è la misura” (Eraclito, 22B45 DK).
L’anima ha confini (peirata) così remoti che non è dato raggiungerli; la sua misura (o ragione, secondo la complessa semantica del termine logos) è così profonda che è impossibile sondarne le estremità. Il frammento eracliteo suggerisce la fatica di un viaggio solitario alla ricerca di noi stessi, dei nostri limiti e del mistero che si apre dentro e al di là di noi: la profondità vertiginosa della nostra anima è resa con l’aggettivo bathús, che nella poesia epica è associato al fitto della nebbia o all’intrico di un bosco, tanto arduo è il cammino che viene intrapreso al suo interno. Peras o peirar indicano il punto estremo di una terra conosciuta, il fine ultimo di un percorso.
L’altro termine a cui il greco ricorre per “confine” è horos, frontiera che separa due terre ma anche pietra che ne segnala concretamente il limite. Horos indica, per estensione, il criterio che consente di definire un concetto o un’esperienza, il decreto o la norma che separa e definisce; il suo potere normativo e delimitante ne sancisce al contempo la necessità, in quanto garante di un ordine. Fissare un confine significa, infatti, anche riconoscere una differenza, consacrare l’esistenza di un’alterità attraverso la regolamentazione del rapporto con essa.
Nel mondo antico il concetto di confine (in latino finis e limes/limen) occupa una posizione di assoluto rilievo. Esistono confini spaziali (la porta di una casa, le mura di una città, le frontiere di uno stato) e temporali (la fine di un’epoca, la fine del giorno, il termine della vita), confini metaforici (quelli dell’anima, per esempio) e altri legati alla sfera politica e religiosa (Horios/Terminus è uno dei numerosi epiteti che caratterizzano la sovranità di Zeus/Giove, e Terminalia sono le feste latine in onore del dio Terminus, protettore dei confini). Confine è la divaricazione originaria tra Cielo e Terra a partire dal Caos primigenio, dalla primitiva voragine in cui tutto era indistinto, secondo la grande visione offerta dalla Teogonia di Esiodo. Senza la definizione di quei limiti, nulla sarebbe stato creato, nulla avrebbe avuto un nome e un’identità riconoscibili. Il limite è, dunque, l’elemento ordinatore del mondo ma anche lo strumento che l’uomo si è dato per addomesticare la propria paura: l’infinito (in greco tò apeiron, “il senza confine”) da sempre attrae e atterrisce per la sua incommensurabilità, per la minaccia di quella voragine oscura da cui tutto proviene e in cui tutto sembra poter ritornare.
La mitologia esprime perfettamente questo connubio tra desiderio e paura nel mito della fondazione di Finisterre, confine ultimo e invalicabile delle terre note. Durante il suo viaggio alla ricerca delle mandrie di Gerione, custodite in un’isola posta agli estremi confini dell’Occidente, Eracle sconfigge mostri e creature orrende: in ricordo di tali imprese l’eroe eresse due colonne, una su ogni sponda dello Stretto di Gibilterra (secondo la versione più diffusa del mito), fissando con ciò anche il confine del mondo noto e il limite all’innato desiderio di conoscenza dei mortali. Immaginando l’altrove come terra popolata di mostri, mare infido e sconfinato, si poneva un termine anche alla tracotanza dell’uomo, alla sua tensione verso l’infinito: ai mortali non è dato conoscere tutto, come invece agli dei. Eppure, il confine sembra esistere solo per essere valicato, come testimonia l’ardore febbrile dell’Ulisse dantesco che, pur riconoscendo il suo viaggio come “folle volo”, se ne lascia catturare. Tracciare un limite significa sempre arginare la propria paura dell’ignoto, ma anche la propria brama di infinito. Il confine esiste allora come definizione mobile, flessibile, sempre superabile.
La divinità che protegge i confini e insieme ne incoraggia il superamento è Hermes/Mercurio, il dio fanciullo amante degli inganni, dei viaggi e degli incroci, dio psicopompo, che guida le anime dei morti nel trapasso dalla vita al regno delle ombre, così come sovrintende il passaggio dall’infanzia al mondo adulto. Nell’etimologia latina del confine questa ricchezza semantica è evocata suggestivamente da limen/limes, limite, frontiera, ma anche soglia, ingresso. L'idea che accomuna questi termini è la presenza di una linea di demarcazione che stabilisce un rapporto di inclusione/esclusione tra gli elementi interni ed esterni ad essa. Chiunque nel proprio percorso incontri una soglia, non può rimanervi indifferente poiché la sua presenza impone il dovere di una decisione. Si può scegliere di restare sulla soglia, di “salutare dalla soglia”, come dice Seneca (Epistole a Lucilio, 49.6) alludendo a una conoscenza superficiale di persone e cose forse ritenute indegne della nostra attenzione, oppure si può scegliere di varcarla per fare esperienza viva del mistero che si spalanca al di là di essa.
Il confine è sempre delimitato, ma insieme aperto. Porta in sé l’idea del limite e della differenza, dell’alterità e del passaggio come tramite tra dentro e fuori, tra noto e ignoto. Non è una porta serrata, ma un varco da attraversare con una buona guida.
(Crediti immagini: Wikipedia e Wikipedia)