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Il passato ci parla

Fortuna, tychē e la libertà del pensiero

Per gli antichi l’atteggiamento più saggio nei confronti della sorte consiste in una consapevolezza vigile, che si astenga dall’idea che tutto sia in nostro potere. Riprendendo la lezione degli stoici, Descartes sostiene che bisogna prodigarsi prima di tutto per cambiare sé stessi, piuttosto che il mondo o la sorte. Questo assicura la felicità, intesa qui dal filosofo francese come "béatitude".
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Fortuna, che nella lingua italiana corrisponde alla buona sorte, era nell’antichità una parola ancipite, adatta a indicare un destino sia fausto sia infausto. Fortuna deriva infatti dal latino fors, “caso”, di incerta etimologia e dal significato neutro: il caso allude a una possibilità che, nel tempo, può rivelarsi propizia o sciagurata. Alla Fortuna gli antichi dedicavano statue e santuari, come il complesso monumentale per la Fortuna Primigenia a Praeneste (oggi Palestrina); a questa dea venivano consacrati templi, come quello offerto alla Fortuna Huiusce Dei, cioè “del tempo presente”, che provvedeva a compensare le sventure del giorno stesso, o quello dedicato alla Fortuna Respiciens che, “guardando dietro di sé”, sanava invece i guasti del passato. Sebbene fosse una divinità dal carattere oscillante, essa era sempre considerata positivamente, anche quando i suoi disegni, talvolta non benevoli, sfuggivano alla comprensione dei mortali. La fortuna, intesa come destino, è in latino indicata anche da fatum, “fato”, e da sors, “sorte”: il primo termine (derivato da fari, “pronunciare”, “dire”) è inteso come legge ineluttabile, dettata dalla volontà divina e destinata a dominare la storia e i suoi accadimenti, mentre le sortes indicavano in origine le tavolette di legno da estrarre per decidere il da farsi (da qui deriva, appunto, l’espressione “estrarre a sorte”), oppure depositate in un’urna all’interno del tempio e oggetto di consultazione oracolare. Certamente, anche in sors domina l’aspetto imperscrutabile e talvolta ostile del destino. Come il latino, la lingua greca presenta una notevole varietà lessicale per indicare la fortuna: il termine più frequente è Tychē, derivato dal verbo tynchanein che segnala l’accadere puramente casuale e imprevedibile. Tychē è una forza divina inarrestabile, ineludibile e, come la fortuna latina, può diventare buona o cattiva (in tal caso, è generalmente accompagnata da avverbi che la qualificano in senso positivo – eutychia – o negativo – atychia o dystychia). Insieme alla moira, corrispondente alla parte che a ciascuno è assegnata fin dalla nascita, costituisce l’essenza più potente e misteriosa del destino umano. Mentre nel nostro linguaggio caso e necessità si danno come termini pressoché opposti, per gli antichi il caso è necessità, poiché ciò che agli uomini appare come accadimento fortuito e imprevedibile risponde, in realtà, a una necessità di ordine divino. Non è auspicabile una titanica resistenza alla sorte, ma neppure una fatalistica accettazione del destino. L’atteggiamento più saggio consiste in una consapevolezza vigile, che si astenga sia dalla tracotanza di chi desidera dominare l’impenetrabile, sia dall’idea che tanto, se non tutto, sia in nostro potere. Nessun mortale può dirsi felice se non alla fine dei propri giorni: così il sapiente Solone ammoniva il re di Lidia Creso, ingenuamente soddisfatto delle proprie innumerevoli ricchezze come se queste lo potessero proteggere dai colpi della sorte. Qual è allora lo spazio per la libertà e la felicità dell’uomo, se tutto è già tracciato, se la sorte agisce nella nostra vita come una forza oscura e necessitata? La relazione tra destino e scelta dell’individuo costituirà uno dei temi fondamentali del pensiero occidentale, dalla tragedia greca fino alla filosofia moderna e non solo. Come è possibile, in un orizzonte così fortemente predeterminato, salvaguardare il libero arbitrio e, dunque, la responsabilità morale dell’agire umano? Nel delicato equilibrio tra fortuna e scelta individuale sembra giocarsi l’unico spazio possibile per la libertà e la dignità del singolo. Riprendendo la lezione degli stoici antichi, soprattutto di Seneca, Descartes scriverà, nella terza parte del suo Discorso sul metodo, che è importante

cercare sempre di vincere me stesso piuttosto che la fortuna, e di cambiare i miei desideri piuttosto che l’ordine del mondo e, più in generale, di abituarmi a credere che non vi è nulla che sia completamente in nostro potere, tranne i nostri pensieri.

Per arrivare a questa consapevolezza del limite e, insieme, della grandezza umana nell’esercizio del libero pensiero, è necessaria una lunga meditazione. A questa stessa pratica ascetica, secondo Descartes, si dedicavano i filosofi antichi, in grado di “sottrarsi al dominio della fortuna e, malgrado i dolori e la povertà, gareggiare in felicità con i loro dei”. Bisogna prodigarsi prima di tutto per cambiare sé stessi, piuttosto che il mondo o la sorte. Questo assicura la felicità intesa dal filosofo francese come béatitude. Mentre la bonheur è la gioia fugace che dipende dagli avvenimenti esterni e che soggiace alla mutevolezza capricciosa della sorte, la béatitude comporta una soddisfazione interiore indipendente dalla fortuna e radicata nella sapienza, intesa come capacità di concentrarsi su quanto è in nostro potere acquisire, perdere, modificare. In questo consiste, per il saggio stoico ma anche per Descartes, il godimento della libertà. In una pagina del suo diario datata 20 giugno 1942, la giovane scrittrice Etty Hillesum invitava alla medesima vigile attenzione verso noi stessi come artefici dell’unico cambiamento possibile, sottratto al destino e al suo potere deresponsabilizzante:

siamo noi a privarci delle nostre forze migliori col nostro atteggiamento sbagliato, col nostro sentirci perseguitati, umiliati e oppressi, col nostro odio e la millanteria che maschera la paura. […] Siamo soprattutto noi stessi a derubarci da soli. […] Lavorare a noi non è una forma di individualismo malaticcio. Una pace futura potrà essere veramente tale solo se prima sarà stata trovata da ognuno in sé stesso.

Un mese prima di essere internata nel campo di Westerbork, Etty ricorda che la libertà non è la lotta impari dell’uomo contro la sorte, ma è semmai la capacità di depotenziare e disattivare l’impatto rovinoso di quanto ci è esterno ed estraneo. Allora l’ostilità della fortuna o la malvagità degli uomini non potranno più nulla contro di noi.   Crediti immagini Apertura: Santuario della Fortuna Primigenia - Ipotesi ricostruttiva di Pietro da Cortona (Wikimedia Commons) Box: La dea Fortuna presso il Museo Romano-Germanico di Colonia (Wikimedia Commons)
Temple_of_Fortuna_-_Cortona
Fortuna,_Romisch-Germanisches_Museum,_Cologne_(8115635954)

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