«L’erudizione non insegna ad avere intelligenza» (Eraclito, fr. 40 DK). Con la sua consueta incisività, Eraclito oppone all’intelligenza, al νοῦς (nous), il nozionismo della πολυμαθία (polymathia), da lui polemicamente attribuita ai grandi maestri del passato (Omero, Esiodo, Pitagora, Senofane). Se non sono i saperi accumulati a garantire il senno, forse esso è una dote innata o una sapienza acquisita con l’esperienza. Tucidide, nel brillante ritratto che traccia di Temistocle, ci può aiutare a comprendere meglio cosa intendano gli antichi per «intelligenza»: Temistocle era un uomo che nel modo più certo aveva mostrato la forza del suo ingegno […]: infatti con la propria intelligenza (οἰκείᾳ γὰρ ξυνέσει) […] sapeva giudicare nel modo più competente e con il minimo di riflessione le questioni immediate, e per le cose non ancora avvenute sapeva fare le congetture migliori (ἄριστος εἰκαστής) per il periodo più esteso del futuro: le azioni che intraprendeva era capace di spiegarle, e per quelle in cui non aveva esperienza non mancava di esprimere un giudizio appropriato; prevedeva benissimo, quando erano ancora nell’oscurità (ἐν τῷ ἀφανεῖ), i vantaggi e gli svantaggi.(Tucidide I 138.3, trad. di G. Donini)
Il ritratto di Temistocle ci mostra un esempio perfetto di ingegno, che unisce prontezza di spirito e acutezza nella valutazione degli eventi, sagacia nel prevedere le conseguenze future delle azioni e, soprattutto, capacità di leggere l’invisibile, portando alla luce ciò che ancora è in ombra: il vero uomo politico è dunque colui che, rispetto al futuro, «meglio è in grado di congetturare» (ἄριστος εἰκαστής). Intelligenza è voce dotta derivata dal latino intelligentia(m), che discende a sua volta da intellegere, cioè inter, «tra», e legere, «leggere», «scegliere». Intelligenza è capacità di lettura e di discernimento della realtà o, secondo la definizione dello Zingarelli, è «il complesso delle facoltà mentali e psichiche che consentono all’uomo di ragionare, di comprendere la realtà, di fronteggiare situazioni nuove». Nel latino classico sono principalmente tre i vocaboli che si alternano con questo significato: la facoltà di comprendere e legare in unità è intelligentia, affiancata da intellectus, cioè capacità di valutazione delle circostanze e di connessione tra i concetti, e da ingenium, la cui acutezza viene esaltata come dote preziosa, ad esempio per il futuro oratore. Si pensi a Cicerone, per il quale è meritevole di lode la sottile intelligenza dell’ingegno, distinta dalla mera erudizione: ingenio plus valere quam doctrina (Orator 42.143). Ingenium è intelligenza creativa, ispirata, inventiva (non dimentichiamo che il termine è composto da in, «dentro» e dal verbo gignere, «generare»). Rispetto all’innato talento del genio, l’ingegno unisce natura e applicazione, mentre un preciso richiamo alla dote innata dell’arguzia è contenuto sia in acumen, l’intelligenza affilata come una spada, sia in subtilitas e argutiae, a suggerire l’esercizio di una mente dalla sottigliezza analitica.
A questo ricco vocabolario corrisponde, nel greco antico, una varietà semantica ancora più complessa. Intelligenza è, da un lato, la capacità di utilizzare il proprio logos, cioè la propria ragione, per analizzare e interpretare la realtà: è dunque una qualità prevalentemente speculativa e razionale, a cui si affianca, d’altro lato, l’intelligenza come sagacia e sapienza indiziaria (quella che la moderna semiologia definirebbe abduttiva), a cui il modo greco, soprattutto d’età arcaica, ha tributato un particolare rispetto. Il primo termine al quale fare riferimento, pur nella stratificazione dei suoi significati, è νοός (contratto in νοῦς), che indica sia la mente come sede dei pensieri, sia la facoltà di pensare e comprendere, sia, infine, l’oggetto del pensiero, quindi l’idea o il concetto. Aristotele dedicherà al νοῦς una trattazione complessa nel De anima: qui ci basti ricordare la definizione che il filosofo fornisce di νοῦς, come l’organo con il quale l’anima (ἡ ψυχή) pensa (διανοεῖται) e apprende (ὑπολαμβάνει, AN. 429a23). Come νοῦς, anche διάνοια (dianoia), formata da διά, usato come rafforzativo, e νοέω, «penso», «ho in mente», è sia l’azione del pensare, sia il suo effetto: è la facoltà intellettiva per eccellenza, intesa come capacità di separare e analizzare gli elementi che compongono la realtà, per poi connetterli in una visione sistematica. Famosa è la definizione platonica del Sofista (263e2-5) in cui la διάνοια è introdotta come «il dialogo silenzioso (letteralmente, “senza voce”, ἄνευ φωνῆς) che si svolge all’interno dell’anima (ἐντὸς τῆς ψυχῆς) con sé stessa (πρὸς αὑτὴν)».
Σύνεσις (synesis) e κατάληψις (katalēpsis), derivati rispettivamente dai verbi συνίημι («metto», «tengo insieme») e καταλαμβάνω («prendo», «afferro», «colgo»), alludono alla capacità di com-prensione, cioè alla perspicacia nell’afferrare concettualmente la complessità di un problema e nel farne oggetto di una «presa» mentale, secondo la famosa metafora stoica della mano stretta a pugno che, nella «rappresentazione catalettica», esprime l’atto con cui l’intelletto coglie e comprende l’oggetto.
Esistono poi – come ricordavo sopra – alcuni termini che evocano l’intelligenza nella sua dimensione polimorfa, cioè come sapienza pratica e inventiva: caso principe è rappresentato da μῆτις (mētis) e derivati. Μῆτις è sia l’abilità tecnica sia la capacità di escogitare stratagemmi per la risoluzione di un problema, e spesso ricorre nell’epos come sinonimo di astuzia, a conferma del labile confine che per gli antichi separa intelligenza da inganno. Ποικιλομήτης (poikilomētēs), formato da ποικίλος, «multiforme», «complesso», e μῆτις, «intelligenza», qualifica l’ingegno come «ricco di espedienti»: così è definito Hermes, il dio per eccellenza polimorfo e ladro (Hymn.Herm 155 e 514), ma anche Zeus, considerato da Era maestro di inganni (Hymn.Ap. 322), il titano Prometeo, simbolo di scaltro ingegno rispetto allo stolto Epimeteo (Hes. Theog. 511, 521), e soprattutto Odisseo, l’eroe dalla «mente piena di astuzie» (νόον πολυκερδέα, Od. 13.255). A Odisseo vengono associati diversi epiteti composti con πολύ-: la polimorfia del suo ingegno si manifesta nell’essere non solo ποικιλομήτης, ma anche πολύτροπος (polytropos, aggettivo composto da πολύς, «molto», e τρέπω, «volgo»), letteralmente «che si volge in molti modi», dunque versatile e multiforme (Od. 1.1). La sua capacità di escogitare strategie per sciogliere nodi critici è evidente in tantissimi momenti dell’Odissea, a partire dall’incontro con il Ciclope o con le Sirene.
Μῆτις ha un’origine mitica: come narra Esiodo nella Teogonia, è figlia di Oceano e Teti e sposa di Zeus (Th. 886 ss.), che la divorerà per evitare la generazione di figli destinati a spodestarlo. Ingoiando Μῆτις, Zeus tenta di integrarla nella propria natura, confiscando a proprio vantaggio l’unica forza che potrebbe metterne in discussione l’autorità. Μῆτις è nome parlante, che divinizza l’astuzia come facoltà preziosa tra dèi e uomini. Questa forma di intelligenza operativa, che unisce intuito, sagacia, senso dell’opportunità, rivestirà infatti un ruolo essenziale tra i mortali: cacciatore, pescatore, medico, stratega sono tutti accomunati da una sapienza pratica, intesa come arte di adattarsi alle circostanze e di escogitare stratagemmi risolutivi. Il prestigio della μῆτις tende a indebolirsi dopo l’epica omerica; trova ancora spazio nelle macchinazioni della commedia, ma viene molto raramente menzionata nei tragici, restando poi quasi del tutto esclusa dal pensiero filosofico d’età classica.
Come μῆτις, anche ποικιλία (poikilia) è vocabolo talvolta associato al lessico dell’inganno: da un lato il termine ricorre per chi mostra una natura camaleontica e tentacolare, come il polipo con la sua straordinaria capacità di adattamento; dall’altro, riferendosi ai prodotti variegati dell’arte, il vocabolario della ποικιλία è impiegato metaforicamente per evocare la trama mutevole dei discorsi persuasivi. Oltre a ποικιλία possiamo ricordare la πολυμηχανία (polymēchania), come abilità inventiva, intelligenza nell’escogitare μηχαναί, cioè «espedienti» o trucchi risolutivi, e la εὐπορία (euporia), cioè l’ingegnosità industriosa di chi sa trovare una «buona via» (da εὐ, «bene» e πόρος, «passaggio) per uscire dai vicoli ciechi.
Infine, due termini utilizzati prevalentemente in età classica per esprimere l’acutezza di sguardo e la sagacia sono ἀγχίνοια (anchinoia, da ἄγχι, «vicino», «presto», e radice di νοέω, «penso») e εὐστοχία (eustochia, da εὐ, «bene», e στοχάζω, «prendo la mira»). Il primo (corrispondente al wit inglese o all’esprit francese) viene utilizzato da Platone per la «acutezza dell’anima» (ὀξύτης […] τῆς ψυχῆς, Carmide 160a1), quella velocità di pensiero che ingegnosamente sa progettare e realizzare i propri obiettivi. Aristotele negli Analitici (I 34, 89b10-15) osserva che questa forma di intelligenza è talmente veloce da esercitarsi in un tempo troppo breve per essere osservato (ἐν ἀσκέπτῳ χρόνῳ). Il filosofo, inoltre, la riconosce all’opera nella prontezza della levatrice che sa tagliare il cordone ombelicale nel punto giusto e al momento opportuno, ed è dotata, oltre che di abilità pratica, di esperienza e perspicacia nella lettura delle situazioni (Historia animalium VII 9, 587a9 ss.). Anche la εὐστοχία è una forma di intelligenza pratica: è l’occhio che sa vedere l’invisibile, interpretare gli eventi e cogliere il kairos, l’occasione propizia per mirare al proprio obiettivo (si veda Aristotele, Etica Nicomachea VI 10, 1142b1-6), come un arciere in grado di prendere la mira e di colpire il bersaglio, secondo un’immagine utilizzata più volte anche da Platone (ad esempio, Leggi 706a1 e 934b5). La εὐστοχία è il giusto colpo d’occhio, cioè la sagacia che prescinde dal ragionamento articolato e procede per analogie istantanee, decifrando i segni che legano visibile e invisibile, come avviene quando il bravo medico (o il politico eccellente alla Temistocle), osservando gli indizi del presente, ne sa cogliere l’oscura radice e prevedere lo sviluppo futuro.
Crediti immagine: Giuseppe Bossi, La sepoltura delle ceneri di Temistocle in terra attica, 1806 (Wikimedia Commons)