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Leggere il proprio tempo attraverso l’Iliade: Simone Weil e Rachel Bespaloff

Le filosofe Simone Weil e Rachel Bespaloff hanno pubblicato due saggi sull’Iliade nei primi anni ‘40 del Novecento. Anni segnati dall’orrore della guerra e delle persecuzioni razziali: nei saggi delle due filosofe Omero viene considerato una bussola per orientarsi nelle tragedie del presente. Pur con qualche differenza interpretativa su alcuni episodi, per Weil e Bespaloff l’impegno intellettuale si traduce in responsabilità civile e in un accorato ruolo etico.

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Come un lampo, per intensità di luce e brevità di durata, Simone e Rachel attraversano la storia del Novecento.

Simone Weil nasce a Parigi nel 1909 da una famiglia di origini ebraiche e muore a soli 34 anni nel sanatorio di Ashford. Impossibile restituire la complessità di questa figura di filosofa e mistica, partigiana e pacifista, militante animata da idee anarco-marxiste ma, soprattutto, dal desiderio di essere sempre al fianco dei più deboli.

Rachel Bespaloff, figlia di ebrei ucraini, è musicista, filosofa, scrittrice finissima. Vive la giovinezza tra Ginevra e l’amata Parigi, ma è costretta a trasferirsi negli Stati Uniti per sfuggire alle leggi razziali della Francia di Pétain. Non riuscirà mai a sentirsi a casa in quella nuova terra, dove morirà suicida nel 1949, all’età di 54 anni.

Sorprende la fitta rete di analogie non solo nella vicenda biografica delle due donne, ma anche negli intrecci temporali e nella contiguità spaziale. Entrambe vengono curate a Ginevra nella stessa clinica per malattie nervose. Entrambe, nel maggio del 1942, si trovano a Marsiglia in attesa di un visto per fuggire dall’Europa in direzione di New York, dove giungeranno nella medesima estate, senza però incontrarsi né conoscersi mai personalmente. Entrambe leggono l’Iliade poco prima di avviarsi all’esilio, e per entrambe questo poema diventa un libro necessario nel travaglio della loro epoca, nel momento in cui, cioè, infuria la Seconda guerra mondiale e la violenza sembra travolgere ogni voce di verità o ragionevolezza.

L’Iliade ou le poème de la force, di Simone Weil, viene pubblicato per la prima volta nel 1940. De l’Iliade, di Rachel Bespaloff, è del 1943. Dunque, quasi in contemporanea l’una all'altra ma all’insaputa l'una dell’altra, le due scrittrici lavorano a un saggio sull’Iliade negli anni bui che accompagnano lo scoppio della guerra e la vergogna delle leggi razziali.

Weil, come indica il titolo del suo saggio, cristallizza la complessità del poema in un tema dominante: l’Iliade è il poema della forza e della dismisura, ma la scelta della forza è sempre una scelta debole. La prima redazione del testo, dal titolo Non ricominciamo la guerra di Troia (scritto nel sanatorio svizzero di Montana dopo l’esperienza della guerra civile in Spagna) fa recitare ad Andromaca una considerazione lapidaria: la prima vittima della guerra è sempre la verità. Prima ancora che con le armi, la verità viene sacrificata attraverso “parole omicide”, parole cioè che tradiscono, feriscono e ingannano nel loro vuoto di senso.

Simone definisce la forza come “ciò che rende chi le sia sottomesso una cosa. Quando sia esercitata fino in fondo, essa fa dell’uomo una cosa nel senso più letterale della parola, poiché lo trasforma in un cadavere. C’era qualcuno, e un attimo dopo non c’è nessuno”. Per Simone la forza è un’anomalia, mentre in Omero lei rintraccia un’idea di forza come legge insita nella natura delle cose, dalle quali è inseparabile. Si tratta di un’interpretazione schiacciata, verosimilmente, sotto il peso di un presente senza luce: l’Iliade di Weil si specchia nel tempo insopportabile della guerra, in cui l’atto di uccidere non è più un mezzo in vista di uno scopo, ma un fine in sé stesso, e l’essenza stessa della violenza è la capacità di pietrificare sia il vinto sia il vincitore.

Come Weil, anche Bespaloff considera Omero una lente perfetta per comprendere il proprio tempo, e sente che attraversare l’Iliade è un modo per disporsi verso la verità. L'istanza etica e il desiderio di verità accomunano profondamente le due filosofe, che in questo percorso di senso condividono anche l’amore per la Bibbia come libro di salvezza. Tuttavia, a differenza di Simone, Rachel legge il poema di Omero col fine orecchio di una musicista attenta alle pause, alle accelerazioni di ritmo, alla poesia che si concentra in aperture improvvise, come nei potenti snodi lirici rappresentati dagli incontri sulle mura di Troia. Nel dialogo tra Elena e Priamo, o tra Andromaca ed Ettore, sembra manifestarsi il segreto stesso dell’esistenza.

Le figure a cui Rachel è più legata sono quelle di Ettore e di Elena. Che si trovi a fianco di Paride o di Menelao, Elena è comunque “prigioniera delle passioni che suscita”, catturata all’interno di un destino che non può mutare. Ettore è l’antico uomo del dolore che la sofferenza ha spogliato di tutto, è “il custode delle felicità periture” che la guerra offende e tradisce. In lui il desiderio di felicità chiama instancabilmente alla vita: c’è per Ettore una moglie, un figlio, un padre e una madre, c’è una terra amatissima, e in tutti questi doni risplende la grandezza dolorosa di un uomo che con la guerra può soltanto perdere. Benché Rachel non scorga in Omero una condanna esplicita della guerra, non vi trova neppure un’apologia della forza: piuttosto, una fatalità necessaria, un disincanto che non tradisce la vicinanza al destino di donne e uomini piegati dal dolore. Per lei Omero è il poeta dell’infelicità, non del trionfo in guerra, è il cantore di un’umanità sofferente, non dell’apoteosi della violenza. Come dice Eraclito, “Polemos è padre di tutte le cose, e di tutte è re” (22 B 53 DK): forse proprio per questa consapevolezza lo sguardo verso vinti e vincitori racconta la pietà e, insieme, la rassegnazione a una legge ineluttabile delle cose.

La distanza tra Weil e Bespaloff nella lettura dell’Iliade si misura soprattutto nella famosa scena dell’incontro tra Priamo e Achille. Il vecchio re di Troia si reca dal guerriero chiedendo la restituzione del cadavere del figlio Ettore. Questo episodio è letto da Simone come supremo esempio dell’annichilimento che la forza opera su un essere umano, cioè l’umiliazione del vinto. La morte aleggia ovunque, e la lettura di Simone è come incatenata al senso della perdita, all’amputazione e alla nullificazione causate dalla violenza bruta. In realtà, la scena (straordinariamente) racconta altro, cioè la capacità di superare il desiderio di vendetta nell’atto di una riconciliazione ultima. A vincere è la commozione per un lutto condiviso quando Achille offre la mano a Priamo, lo aiuta a rialzarsi, gli parla come a un padre. Vale la pena citare per intero la scena che, nel buio della notte, incornicia l’incontro tra l’anziano re piegato dai lutti e Achille guerriero:

Così parlò Priamo, e in Achille fece sorgere il desiderio di piangere per suo padre; prese il vecchio per mano e lo scostò da sé, dolcemente (ἦκα); tutti e due ricordavano: Priamo, ai piedi di Achille, piangeva per Ettore uccisore di uomini, e Achille piangeva per suo padre e piangeva anche per Patroclo: alto si levava dentro la tenda il lamento. Ma quando Achille glorioso fu sazio di lacrime, quando il desiderio di pianto abbandonò le sue membra e il suo cuore, allora si levò dal seggio, prese il vecchio per mano e lo fece alzare; e compiangendo i capelli bianchi e la bianca barba del vecchio, si rivolse a lui con queste parole: “Infelice, quanta sventura hai patito nell’animo”.

(Il. XXIV 507-518, traduzione di M.G. Ciani)

Commentando questi versi e omettendo di considerare l’avverbio ἦκα (v. 508, “piano”, “dolcemente”), posto da Omero nel cuore stesso dell’incontro tra i due nemici, Simone propone il quadro di un orrore senza via di scampo. Comune è, invece, il destino del vinto e del vincitore perché “hanno stabilito gli dèi che gli infelici mortali vivano nel dolore, mentre loro non conoscono affanni” (Il. XXIV 525-526). Bespaloff sembra rispondere (inconsapevolmente) proprio a Weil quando, nel capitolo dedicato all’incontro tra Priamo e Achille, riconosce che “sotto la bella unità della forza rinasce l’ambiguità del reale”. Gli eroi di Omero sono statue immobili e remote ma, al tempo stesso, sono i testimoni di infinite possibilità, prospettive e contraddizioni.

Per Simone dietro gli eroi dell’Iliade, in controluce, vi è sempre e solo il presente della guerra che intercetta tutti i fronti come male, mentre nel caso di Rachel la civile Europa è rappresentata da Troia e la barbarie nazista dagli Achei. Si tratta, anche in quest’ultimo caso, di una forzatura nella lettura del testo antico, ma è una distorsione che nasce, così come nel caso di Simone, da un’istanza etica fortissima. Per entrambe l’impegno intellettuale si traduce in responsabilità civile, in un’adesione appassionata e dolente alle vicende del proprio popolo e della storia d’Europa. E infine, in quella tenda dove Priamo veste la regalità della sventura e Achille riconquista la fragilità dell’infanzia, si apre per Bespaloff il più bello dei silenzi dell’Iliade. Scompare il clamore della guerra, il fragore del cosmo, e tutto “dura solo un istante, e permane”: lì, forse, bisognerebbe sostare.


Crediti immagine: Jacques-Louis David, "Combattimento di Minerva contro Marte", olio su tela, 1771, Parigi, Museo del Louvre - Fonte: Wikipedia

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