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Moltitudine, massa, folla

A partire dal greco dêmos (δῆμος), traducibile con «popolo», derivano termini come «demografia», «democrazia», «demoecologia», per citarne solo alcuni. Roberta Ioli ripercorre il lungo cammino del dêmos verso l’idea di popolo.

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Termini come «demografia», «democrazia», «demoecologia», per citarne solo alcuni, sono tutti costruiti a partire dal greco dêmos (δῆμος), traducibile con «popolo». Il lemma italiano deriva dal latino populum, che assumerà diverse connotazioni semantiche in rapporto ai contesti e ai periodi della storia romana: populus indica ora il complesso di tutti i cittadini di Roma, patrizi e non (soprattutto in unione con senatus), ora il popolo in contrapposizione agli ottimati o, viceversa, alla plebe; infine, per traslato allude a una moltitudine indistinta e numerosa di persone, animali, oggetti.

Nel mondo greco non viene utilizzato un termine univoco per definire l’insieme degli abitanti di uno stato o di una polis, bensì parole diverse in rapporto alle diverse classi sociali e alla complessa evoluzione del lessico politico. A partire da fine VI secolo a.C., più precisamente dalla riforma di Clistene, il termine dêmos corrisponde alla comunità di individui non nobili che abitano un determinato territorio. Fin dall’età arcaica, d’altra parte, la divaricazione tra nobili e non nobili ha trovato un preciso riscontro nella diversificazione lessicale. Basti pensare alla presenza, già nell’epica omerica, di termini quali plêthos e dêmos per indicare la moltitudine, povera e senza privilegi, contrapposta all’élite guerriera e aristocratica. Mentre plêthos (πλῆθος) è termine per lo più neutro, utilizzato sia in riferimento a quantità innumerevoli di uomini e animali, sia alla massa della popolazione contrapposta ai pochi saggi che detengono il potere, dêmos ricorre in Omero per indicare una regione, i suoi abitanti, ma anche la popolazione proveniente per lo più dalle campagne e accomunata da un’umile estrazione sociale.

A partire dal V secolo a.C. compare un nuovo termine per la massa, ochlos (ὄχλος), caratterizzato da un’accezione fortemente dispregiativa: viene infatti utilizzato per stigmatizzare l’ignoranza della folla facilmente manipolabile e ingannabile, la moltitudine di cui si ricerca il consenso per poter governare con arbitrio (ad esempio in Aristotele, Politica V 1305b30). Per indicare la massa stolta e volgare ricorre anche l’espressione hoi polloi (οἱ πολλοί), letteralmente «i più», «la folla», i cui valori sono spesso condannati da Platone per la loro trivialità (come nel caso di chi identifica il bene non con la virtù, ma con il piacere, in Repubblica VI 505b5-6). La visione aristocratica greca attribuisce la kalokagathia, cioè l’eccellenza morale e la prestanza fisica, a un ristretto numero di aristoi destinati a governare con saggezza sulla massa incolta, sul «popolo dal cervello vuoto» (dêmos keneophrōn), come lo definirà Teognide (Elegie, v. 847).

È a partire da Solone che, pur in un’ottica censitaria, la polis si apre al coinvolgimento di nuovi esponenti della popolazione, un ceto caratterizzato non più da nobili natali, ma da ricchezza. Tuttavia, solo con l’ascesa di Clistene al potere (509-508 a.C.) si instaura per la prima volta ad Atene un governo di tipo democratico e si afferma l’idea di popolo come soggetto politico distinto dalla nobiltà, dotato di autonoma rappresentanza e di effettiva capacità decisionale. Sebbene il termine corrispondente sia attestato solo alcuni decenni più tardi, nasce però proprio in quel momento la demokratia come «potere» (kratos) del «popolo» (dêmos), quest’ultimo chiamato a contribuire al programma politico della polis partecipando direttamente ai lavori dell’assemblea e al tribunale della città. Come scrive Aristotele, «Clistene […] cercò di attrarre il popolo dalla sua parte, restituendo alla moltitudine (plêthos) la cittadinanza» (Costituzione degli Ateniesi 20). Isonomia, l’uguaglianza di fronte alla legge, è il concetto che meglio riassume l’esperimento politico di Clistene: si tratta, cioè, di un ampliamento della partecipazione alle cariche cittadine e dello sviluppo di una consapevolezza politica da parte di una fascia sempre più numerosa di popolazione.

Il concetto di dêmos conserverà però nel tempo una certa ambiguità: da un lato evoca, infatti, il governo del popolo nel suo insieme, cioè la polis tutta intera nell’equilibrio del suo sistema democratico (secondo la descrizione che ne fornisce Pericle nel famoso discorso citato da Tucidide, Hist. 2.37.1)[1]; dall’altro lato, però, dêmos continuerà a indicare quella parte della popolazione, più umile e ignorante, il cui volere si contrappone anche violentemente a quello degli aristocratici. La lotta tra la fazione democratica e quella oligarchica insanguinerà la storia greca a partire dagli ultimi anni del V secolo a.C. Per evitare quella che Platone descrive come lo scontro tra due città, «l’una dei poveri, l’altra dei ricchi, che abitano nello stesso luogo, ma continuano a complottare gli uni contro gli altri» (Repubblica VIII 551d5-7), il filosofo proporrà l’ideale della Kallipolis, la «bella città» in cui regna l’unità e l’armonia del corpo politico: non più distinzioni in base al censo o alla nobiltà di natali, ma la presenza di diverse classi sociali dotate di virtù distinte e in reciproco dialogo. Il potere sarà affidato ai filosofi, cioè coloro che conoscono il bene della città perché di esso hanno fatto l’unico scopo della propria vita attraverso la costante ricerca della verità e della giustizia. In questo quadro la democrazia, intesa come governo di una maggioranza di poveri che pretendono anche per sé l’accesso alla ricchezza, è osteggiata da Platone soprattutto perché destinata a degenerare in tirannide: il dêmos, incapace di gestire saggiamente il potere, lo affiderà a un prostatēs, un «protettore», che ben presto si rivelerà un despota pronto a trasformare i cittadini in schiavi.

Anche Aristotele critica la democrazia in quanto potere esercitato dai poveri a proprio esclusivo vantaggio, e ne teme la deriva demagogica; d’altra parte, riconosce l’esistenza di diversi modelli di governo democratico, uno dei quali, la politía, rappresenta un regime particolarmente stabile e felice grazie all’equa distribuzione delle ricchezze e alla guida del ceto medio. La stessa moltitudine (plêthos), riunita in un unico corpo politico-sociale, viene descritta come dotata di autonomia ed equilibrio quando i molti, «raccogliendosi insieme, in massa, diventano un solo uomo con molti piedi, molte mani e molti sensi, con molte eccellenti doti di carattere e di intelligenza» (Politica III 1281b5-7). Le virtù etico-politiche del singolo trovano la loro espressione migliore nella dimensione collettiva, cioè quando, in uno stato virtuoso, «la comunità (koinōnia) diviene un’alleanza (symmachia)» (Politica III 1280b8-9)

[1] «E quanto al nome, per il fatto che non si amministra lo stato nell’interesse di pochi, ma di una maggioranza, si chiama democrazia (dēmokratia): secondo le leggi vi è per tutti l’eguaglianza (to ison) per ciò che riguarda gli interessi privati; e quanto alla considerazione di cui si gode, ciascuno è preferito per le cariche pubbliche a seconda del campo nel quale si distingue, e non per la classe da cui proviene più che per il merito; d’altra parte, quanto alla povertà, se uno è in grado di far del bene alla città, non è impedito dall’oscurità della sua posizione sociale» (trad. di G. Donini).


Crediti immagine: Acropoli di Atene, Leo von Klenze (Wikimedia Commons)

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