In greco antico il termine usato per “violenza” è βία, che riveste un’ampia gamma di significati: personificata in Esiodo (Th. 385) come figlia di Stige e sorella di Kratos, βία è forza e vigore di cui sono dotati uomini e animali, ma anche violenza esercitata contro qualcuno; il termine è infine utilizzato come tecnicismo giuridico per indicare lo stupro e altre forme di maltrattamenti violenti (per esempio in Platone, Resp. 464e).
La parola “stupro” discende dal latino stuprum (forse derivato da stupēre, “stupirsi”), che corrisponde non solo a diversi tipi di violenza, da quella sessuale all’incesto, ma indica anche relazione illecita e disonore. Nel diritto romano, infatti, la violenza sessuale era intesa non tanto come aggressione contro la donna (o contro chiunque ne fosse vittima), quanto come affronto alla sua castità, all’onore suo e della famiglia. Si trattava di un delitto contro l’onore, non contro la persona. Inoltre, affinché lo stuprum fosse riconosciuto come atto violento, era necessario che la donna avesse opposto una resistenza forte e incontestabile sia prima sia durante l’atto di violenza subita: a lei, dunque, spettava l’onere della prova, non al suo assalitore. Violentia è il termine latino utilizzato per alludere alla natura di un animo violento, mentre vis ricorre in particolare per l’atto di forza e l’aggressione ai danni di qualcuno.
Nell’Encomio di Elena di Gorgia di Lentini vengono analizzate le cause che potrebbero spiegare e giustificare il comportamento della regina di Sparta Elena, il cui abbandono della famiglia e della patria è stato oggetto, nelle fonti antiche, di unanime riprovazione. Tra le ipotesi introdotte per discolparla compare anche la βία, cioè il rapimento forzato e il ricorso alla violenza da parte di Paride. Mentre l’ipotesi della responsabilità divina era stata evocata attraverso il termine αἰτία, intesa come causa prima e necessitata di un evento (Hel. 6), l’attribuzione della colpa a Paride in quanto autore di violenza è espressa da ἀδικία, l’ingiustizia umana meritevole di condanna. Il colpevole dovrà subire, rispetto alla legge, la perdita dei diritti civili (ἀτιμία), benché nel caso specifico tale misura sia inapplicabile poiché Paride è βάρβαρος, “barbaro”, quindi già escluso dalla comunità politica dei Greci. Rispetto all’azione, infine, il colpevole subirà una “pena” (ζημία) che, in un’ottica retributiva, dovrà essere commisurata all’entità della colpa.
Βία è, dunque, la violenza esercitata su chi è più debole. Squilibrio di forze e solitudine della vittima sono ben presenti nel mito di Procne e Filomela, in cui l’atto violento assume due forme, distinte e intrecciate: stupro e imposizione del silenzio. Secondo la versione tramandataci con leggere varianti nelle Metamorfosi di Ovidio e nella Biblioteca dello pseudo-Apollodoro (a loro volta risalenti, con ogni probabilità, al Tereus di Sofocle), il canto dell’usignolo è iscritto proprio in questa esperienza tragica. Tereo, marito di Procne, ne violenta la sorella Filomela e poi le taglia la lingua per impedirle di raccontare lo stupro. Nella versione ovidiana del mito la scena della violenza si incide nel lettore con forza icastica:
“il re trascina la figlia di Pandione / in un alto casolare nascosto da antichi boschi / e lì la rinchiude pallida, tremante, paurosa di tutto […]. / Svelando la sua empia intenzione, la violenta (vi superat: alla lettera, “la sopraffà con la sua violenza”, v. 525). / […] Essa trema come un’agnella impaurita che, ferita, / ma sfuggita ai denti di un lupo grigio, non ancora si sente sicura” (Met. VI 520-528, trad. di N. Scivoletto).
L’ossessione di Tereo è definita caeca nox: “da quale cieca tenebra è preso l’animo umano!” (quantum mortalia pectora caecae / noctis habent!”, Met. VI 472-473).
Alla violenza dello stupro segue l’oltraggio del silenzio imposto con il taglio della lingua: “tagliò la lingua con la spada crudele; e la sua radice palpita in gola, / mentre la lingua stessa giace a terra e vibrando mormora sul suolo nero di sangue” (VI 557-558). L’insistenza dei mitografi sulla scena truculenta della glossotomia sembra voler sottolineare la funzione vitale della lingua come organo fonatorio, dotato di vita propria, fino a che il destino di silenzio a cui la vittima è costretta si trasforma nell’ingegnoso stratagemma di una lingua nuova, non più parlata ma ricamata, che la sorella leggerà come si legge un doloroso poema. In risposta al duplice affronto Filomela, dunque, ricamerà su un peplo la memoria della violenza subita, affinché la sorella conosca tutta la verità. Il ricamo diventa, in questo caso, sostituto della parola sottratta: il suo esito sarà un vero e proprio poema muto. Procne si vendicherà di Tereo nel modo più terribile, uccidendo il loro figlioletto Iti e imbandendone le carni alla tavola del marito. Le sorelle sfuggiranno all’ira di Tereo pregando gli dèi di trasformarle in uccelli: Procne in usignolo, che nel suo canto sempre ripete, con anafora, il nome del figlio (“Ity, Ity”), Filomela in rondine, che per l’assenza di lingua balbetta in eterno (“Terèu, Terèu”), e Tereo in upupa (“Pou? Pou?”, Dove? Dove siete?). Nel loro grido è il destino dell’ultima parola prima della metamorfosi. Il canto dell’usignolo, nella sua modulazione perpetua, rappresenta la memoria del lutto della madre e, al tempo stesso, la consolazione che gli dèi hanno offerto a quella pena. L’oblio è tutto contenuto nella durata del canto, che pure di quel lutto è voce.
Come ha mostrato in un saggio recentissimo Emily Hauser[1], il canto poetico nell’antichità è spesso associato alla voce femminile, come accade anche nel mito della metamorfosi di Procne in usignolo; tuttavia, manca un vocabolario specifico della poesia in riferimento alla vocalità femminile. Termini come l’arcaico ἀοιδός che ricorre in Omero, Esiodo e negli Inni omerici, o ποιητής, utilizzato in età classica sempre per indicare l’autorità poetica, ricorrono quasi esclusivamente per poeti maschi o in contesti in cui la voce femminile risulta silenziata: non sono mai riferiti, per esempio, alla poetessa Saffo, a cui viene invece associato l’epiteto μουσοποιός (Erodoto, Hist. 2.135.1), forse per esprimere una condizione di subalternità alla Musa. Quando ci si riferisce alla voce femminile, se ne sottolinea generalmente la dimensione straniante o ammaliante in senso minaccioso, oppure si applica ἀοιδός alla vocalità perturbante della Sfinge e delle Sirene o, infine, al canto intonato dall’usignolo.
Un esempio di voce violata e tradita è offerto anche da Cassandra, figlia di re Priamo e profetessa inascoltata. Vittima dell’ira di Apollo, a cui rifiuta di concedersi, Cassandra subirà poi, secondo diverse versioni del mito, la violenza sia di Aiace di Locride, che la stupra nel tempio di Atena dove si era rifugiata (così narra, per esempio, Alceo, fr. 298 Voigt), sia di Agamennone, di cui, secondo l’Orestea di Eschilo, diviene schiava e concubina. Nelle Troiane di Euripide la voce di Cassandra esprime tutti gli ossimori tragici del suo destino: l’imeneo, canto nuziale pronunciato dalla sacerdotessa consacrata alla purezza verginale, si trasforma nel lamento per la violazione della sacra sposa, ora destinata al letto di Agamennone. La ferinità disarticolata della voce sembra amplificare il senso di infelicità e di esclusione rispetto a una comunità che si mostra muta e ostile.
L’inno di lode al dio coincide dunque, sulle labbra di Cassandra, con il γόος, termine che indica sia il lamento trenodico da intonare sul corpo del defunto, sia il canto – bellissimo e dolente – dell’usignolo. Risuona così, nell’epilogo euripideo della storia di Cassandra, il destino stesso di Procne e Filomela. La violenza si impone non solo sul corpo, ma anche sulla voce: messa a tacere, mutilata, inascoltata, incompresa. Destino tanto più doloroso per chi, come ci dice la Cassandra di Christa Wolf, questo soprattutto desiderava: “parlare con la mia voce. [….] Di più, altro, non ho voluto”[2].
[1] Emily Hauser, How women became poets: a gender history of Greek literature, Princeton University Press 2023.
[2] Christa Wolf, Cassandra, e/o 2012.
Crediti immagine: Peter Paul Rubens, "Il banchetto di Tereo", olio su tela, 1638, Madrid, Museo del Prado (Wikipedia)