Nella Dichiarazione d’indipendenza americana si afferma che tutti gli esseri umani sono dotati di diritti inalienabili come la vita, la libertà e il celebre diritto alla felicità.
Mentre il diritto alla vita e alla libertà sono presenti in molte altre costituzioni, il diritto alla felicità no, è un unicum della tradizione americana. Le costituzioni europee non menzionano la felicità.
La happiness di cui parla la Dichiarazione americana tuttavia, è più vicina all’idea del “darsi da fare” per produrre frutti, piuttosto che aspettare che la felicità “accada”. La Dichiarazione di indipendenza infatti, non parla di un diritto “alla felicità”, ma di un diritto “al perseguimento della felicità”, pursuit of happiness.
L’espressione “diritto alla felicità” rimanda a un diritto statico e passivo, che non richiede un impegno personale. Se abbiamo diritto alla felicità sarà qualcun altro – lo Stato – a procurarcela. Questa idea è tipica del modello paternalista, in cui è lo Stato che provvede alla felicità dei sudditi, trattandoli come figli minorenni, e decidendo per loro anche che cos’è la felicità, quale felicità.
Ma il modello paternalista non va per nulla d’accordo con il liberalismo e l’individualismo dei costituenti americani, e con le idee illuministe che circolavano in quegli anni. Ecco perché non è un dettaglio che la Dichiarazione di indipendenza parli di «perseguimento della felicità». Un’espressione che Thomas Jefferson ha tratto da John Locke, ma anche da Gaetano Filangieri.
Dire che la felicità va perseguita, implica che ciascuno debba attivarsi per raggiungerla, e deve poterlo fare senza che lo Stato interferisca, senza che metta i bastoni fra le ruote alla libera iniziativa dei cittadini.
Nelle costituzioni di matrice liberale non è compito dello Stato rendere felici i cittadini, né imporre una sua concezione di felicità. Compito dello Stato è garantire le condizioni di libertà in cui ciascuno possa raggiungere la propria felicità, senza prevaricare lo stesso diritto che hanno gli altri.
Il diritto al perseguimento della felicità, quindi, nasce come libertà negativa, come diritto di ciascuno a non subire ingerenze dallo Stato mentre cerca di costruirsi la sua felicità.
L’idea di libertà poi, è legata a quella di sviluppo. Lo sviluppo, ce lo ricorda l’Agenda 2030, ha 3 dimensioni. Una è sicuramente la crescita, il benessere economico. Ma la crescita deve avvenire in modo compatibile con quella socio-relazionale e quella ambientale.
L’economia classica ha come scopo massimizzare il PIL. Il problema è che oggi spesso si hanno paesi con un PIL alto e una popolazione infelice.
Anne Case e Angus Deaton – quest’ultimo premio Nobel nel 2015 – hanno riassunto magistralmente questo concetto nel loro libro dal terribile titolo: Morti per disperazione. Il futuro del capitalismo Il libro si riferisce proprio agli USA, il paese della pursuit of happiness.
Morti per disperazione è un libro agghiacciante: oggi nei paesi occidentali si muore più per mancanza di speranza che non per malattia o fame.
Su cosa investire, allora, per essere felici?
Per una volta, psicologia, sociologia ed economia sono concordi: una volta garantito un certo benessere e sicurezza materiali, ciò che conta sono le relazioni significative, la stabilità emotiva, il coinvolgimento nel proprio lavoro, e quei beni che vengono chiamati “di creatività”, come la musica, la lettura di un libro, viaggiare. Lo aveva già capito negli anni Settanta Richard Easterlin, a cui si deve il cosiddetto paradosso della felicità: se la ricchezza di una persona aumenta, aumenta anche la sua felicità, ma fino a una certa soglia. Oltre quella soglia, la curva scende all’aumentare della ricchezza, perché subentrano una serie di aspetti negativi.
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