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Le figure retoriche

La rima al contrario: l’allitterazione

L’allitterazione è una parente stretta della rima: entrambe le figure retoriche producono quella che si chiama omofonia, ossia una serie di suoni uguali. Ma se la rima è più facile da intercettare, l’allitterazione è un rimando sonoro più nascosto.
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[…] se ti prendo, con i miei pampani di ruggine, mia fuliggine, che ti aspiro, ti respiro con le tue nebbie e trebbie, che ti timbro con tutti i miei timpani, con le mie dita che ti amano, che ti arano, con la mia matita che ti colora, ti perfora, che ti adora, mia vita, mio avaro amore amaro […] Edoardo Sanguineti, L’ultima passeggiata, 1987   L’allitterazione è una parente stretta della rima: entrambe producono quella che si chiama omofonia, ossia una serie di suoni uguali. Solo che la rima è più facile da intercettare, sta alla fine delle parole ed è subito lì, evidente: uno sente o legge, per esempio, nel Canto beduino di Ungaretti (1932), Una donna s'alza e canta La segue il vento e l'incanta E sulla terra la stende E il sogno vero la prende e subito s’accorge che i versi rimano a coppie (AABB). L’allitterazione, invece, interessa l’inizio o il mezzo delle parole, è una rima, o un rimando sonoro, più nascosto (faccio notare le due piccole allitterazioni comprese in quest’ultima frase: «invece interessa l’inizio» e «rima, o un rimando»). Si può dire allora che l’allitterazione è una rima ribaltata, fatta al contrario: dove la rima si occupa di imparentare le parole per le loro fini, l’allitterazione le accoppia per come iniziano o per come assonano. Si dice allora che la rima crea una omofonia esterna, vale a dire che fa corrispondere i versi per l’ultima sillaba delle parole; l’allitterazione crea invece un’omofonia interna, perché si occupa di tutte quelle sillabe che non stanno in fondo. Ma entrambe hanno uno scopo comune: far suonare le frasi che diciamo o scriviamo.   (Crediti immagini: Flickr, Edoardo Sanguineti)
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