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La Shoah nella serialità televisiva

Nel 1960 una recensione del critico francese Jacques Rivette stroncò il film Kapò, ambientato in un campo di concentramento, poiché a suo dire spettacolarizzava quell’evento tragico senza riuscire a dar senso storico ed etico a quelle scene. La Shoah è poi stata oggetto anche di numerose serie televisive: Elisa Mandelli propone l’analisi di tre serie per mostrare differenti scelte di sceneggiature e di linguaggi per trattare un tema così drammatico.

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In ambito cinematografico si è dibattuto a lungo su come rappresentare per immagini la Shoah, facendo emergere come le questioni estetiche siano strettamente intrecciate a quelle etiche. È rimasta celebre la stroncatura che, dalle pagine dei Cahiers du Cinéma, Jacques Rivette ha fatto di Kapò (1960) di Gillo Pontecorvo. Nel film, nel mostrare il suicidio di una prigioniera dei campi, la macchina da presa torna con una carrellata a mostrare il cadavere. Rivette vi vede un’insistita cura nella messa in quadro che a suo avviso è immorale, poiché manipola il reale in chiave spettacolare.

Come la serialità televisiva affronta questo momento della storia del Novecento e le questioni morali che pone? Come articola il rapporto tra fedeltà agli eventi e spettacolarizzazione? Consideriamo tre esempi di serie di fiction, in cui l’ancoraggio ai fatti storici si mescola con l’invenzione narrativa: Olocausto, serie del 1979 che rimane fondamentale per l’impatto che ha avuto sull’immaginario collettivo, e due serie del 2024, We Were the Lucky Ones e Il tatuatore di Auschwitz.

Olocausto (Holocaust, 1978)

La miniserie Olocausto, prodotta negli Stati Uniti e diretta da Marvin J. Chomsky, è andata in onda sulla rete NBC nell’aprile del 1978, in quattro episodi da due ore ciascuno.

Le vicende della Shoah sono raccontate attraverso il prisma della saga familiare. A intrecciarsi sono le storie di due famiglie: i Weiss, ebrei benestanti che vengono travolti dalle persecuzioni naziste, e i Dorf, il cui padre Erik si arruola nelle SS per necessità economica, ma finisce poi per aderire alla loro spietata crudeltà.

La narrazione ha un andamento tipicamente melodrammatico, costellato di dialoghi enfatici e momenti di forte pathos emotivo, cui si alternano scene di crudeltà dalla forte intensità. Il sistema dei personaggi si regge su uno schema dicotomico che oppone in modo netto vittime e carnefici, favorendo l’identificazione con i personaggi vessati dal nazismo e rendendo chiaro il messaggio morale di condanna verso Hitler e i suoi seguaci.

Questo taglio spettacolarizzante e didascalico è stato criticato da diversi intellettuali che temevano una banalizzazione della tragedia, come lo scrittore Elie Wiesel e Claude Lanzmann, regista del monumentale documentario Shoah (1985). Dall’altro lato, la forte accessibilità della narrazione ha contribuito a conquistare il pubblico e ha garantito alla serie una notevole circolazione internazionale.

Olocausto è stata trasmessa nel 1979 in Germania Ovest, dove è stata vista da un terzo della popolazione. Tra le altre cose, a colpire era il fatto che si spostasse, come di rado prima d’allora, l’attenzione sull’esperienza traumatica delle vittime del nazismo.

Nonostante abbia suscitato controversie e contestazioni, la serie ha stimolato in modo decisivo il dibattito pubblico su un passato recente ma ancora rimosso, agendo sulla percezione collettiva riguardo i crimini nazisti. Dopo la messa in onda, l’associazione per lo studio della lingua Gesellschaft für deutsche Sprache ha scelto il termine “Holocaust” come parola dell’anno in Germania, a testimoniare il forte impatto sociale di questa fiction televisiva.

We Were the Lucky Ones (2024)

Come Olocausto, la miniserie statunitense We Were the Lucky Ones, racconta la storia di una famiglia ebrea sullo sfondo della Seconda Guerra Mondiale e delle persecuzioni naziste. Punto di partenza è l’omonimo romanzo di Georgia Hunter, tradotto in italiano come Noi, i salvati (2017), in cui l’autrice si ispira alla storia vera della sua famiglia.

Andata in onda agli inizi del 2024, la serie articola il racconto in otto episodi di circa un’ora, seguendo la storia dei Kurc, famiglia ebrea polacca benestante, che viene colpita dalle persecuzioni naziste e i cui membri vengono separati, andando incontro ciascuno a un destino diverso. La loro determinazione li porterà, finita la guerra, a cercare in tutti i modi di ricongiungersi.

La narrazione si sviluppa con un ritmo crescente: dal clima di serenità iniziale, la tensione sale man mano che la minaccia nazista si fa sempre più concreta e l’orrore cala sulle vite dei protagonisti. Il racconto si sviluppa in diverse storyline, che seguono i personaggi tra campi di concentramento, nascondigli, impegno nella resistenza e fughe all’estero, con l’obiettivo di fornire un quadro della complessità delle situazioni che le persone coinvolte hanno dovuto fronteggiare.

Le diverse storie, pur ancorate a personaggi ben caratterizzati e riconoscibili, assumono quindi un forte valore simbolico. L’epopea della famiglia Kurc diventa emblema della forza dei legami affettivi e della resilienza umana, con un forte messaggio di speranza che emerge nonostante non venga risparmiato lo spazio per far emergere la profondità della tragedia.

Il tatuatore di Auschwitz (The Tattooist of Auschwitz, 2024)

La miniserie Il tatuatore di Auschwitz è una produzione britannica diretta da Tali Shalom Ezer e scritta da Jacquelin Perske, tratta dall’omonimo romanzo di Heather Morris (2018).

I sei episodi di cinquanta minuti si ispirano alla storia vera di Lali Sokolov, un prigioniero ebreo slovacco ad Auschwitz cui era stato affidato il compito di tatuare i numeri di identificazione sulle persone deportate nel campo. Al centro della narrazione vi è la storia d’amore tra il protagonista e un’altra prigioniera, Gita Furman. Il tutto è raccontato da un Lali ormai anziano, in un lungo dialogo con un’aspirante scrittrice.

Questa cornice contemporanea, che mette in scena lo sforzo del protagonista di ricordare il passato, porta l’attenzione sul tema della memoria: sulla sua labilità, soprattutto di fronte a un vissuto così doloroso, e sulla relazione che il ricordo intrattiene con il racconto storico. Alcuni passaggi narrativi propongono una discrepanza tra la prima versione dei fatti, mostrata dalle immagini, e quello che Lali anziano riesce a ricostruire a posteriori, sottolineando la difficoltà nella ricomposizione di un passato segnato dal trauma.


Crediti immagini: Ingresso del campo di Auschwitz Birkenau - Foto: US Department of State - Wikipedia

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