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Cinema e natura

Vera e ricreata, fonte di vita e portatrice di morte, ammirata per la sua bellezza e temuta per la sua forza sconosciuta: fin dal primo momento, la natura fa parte integrante delle immagini in movimento, di quel miracolo che è stata parte così fondamentale del successo irresistibile dello spettacolo cinematografico.

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È noto a tutti l’aneddoto dei primi spettatori del cinematografo: lo stupore davanti al treno che sembrava uscire dallo schermo, in occasione delle pionieristiche proiezioni dei fratelli Lumière. Ma le cronache del tempo riportano anche gli “ohh” di meraviglia di fronte ad altre immagini: quelle, ad esempio, di banalissime foglie che si muovevano al vento, o ancor di più di fronte alle onde del mare. La natura si “duplicava”, diventava “viva” per la prima volta sullo schermo. Il cinema, specchio magico, la faceva rinascere davanti agli occhi di chi assisteva nel buio della sala. La natura, dunque, fin dal primo momento fa parte integrante delle immagini in movimento, di quel miracolo che è stata parte così fondamentale del successo irresistibile dello spettacolo cinematografico.  

Il pianeta azzurro, di Franco Piavoli (Italia 1982)/Il Re Leone, di Jon Favreau (Usa 2019)

Natura “vera” versus Natura “ricreata”. Due film, due modi letteralmente opposti di rappresentare il nostro pianeta. Franco Piavoli mette la sua macchina da presa al servizio dell’ambiente che ci circonda. L’alba, il meriggio, il tramonto, la notte, le stagioni, la vita vegetale e quella animale, il soffio del vento e le parole sussurrate di due giovani che si amano. Perché l’uomo e la donna, nel suo film, sono parte imprescindibile e indistinguibile di questo insieme, di questa vita che pervade ovunque la meraviglia della Terra. Puro stupore di fronte al Creato, al ghiaccio e all'acqua che scorre, al volo di una farfalla e all'azzurro del cielo, al lavorio infinito degli insetti e alle opere degli esseri umani che continuamente, instancabilmente, modificano e modellano il “pianeta azzurro”. Un approccio radicalmente diverso è invece quello scelto dal film prodotto dalla Disney. Rimane lo stupore nei confronti della natura, in questo caso la savana africana con i suoi straordinari abitanti. M si tratta di una natura totalmente rielaborata al computer: non più un “cartone animato” come quelli di una volta, con alla base i disegni, ma una riproduzione “più vera del vero”, di una resa spettacolare stupefacente. Dunque i leoni, le iene e tutti gli altri animali africani acquistano un realismo incredibile. Ma che rapporto hanno con la natura vera? Ovviamente sono umanizzati, assumono comportamenti che li fanno diventare una nostra fotocopia, diventando personaggi di vicende appartenenti a un mondo diverso dal loro. La natura si snatura, potremmo dire, proprio quando apparentemente è una copia esatta dal vero. Il contrario esatto del film di Piavoli, dove la natura, pur attraverso la mediazione della macchina da presa, offre il volto più spettacolare ed emozionante di se stessa.

Into the wild – Nelle terre selvagge, di Sean Penn (Usa 2007)/All is lost – Tutto è perduto, di J.C.Chandor (Usa 2013)

Ambivalenza della Natura. Meravigliosa e paurosa, fonte di vita e portatrice di morte.  Christopher, il giovane protagonista di “Into the wild” (si tratta di una tragica storia vera) decide di abbandonare un’esistenza agiata per affrontare l’ignoto. Perché lo fa? Perché lascia la famiglia, gli amici, la prospettiva di un futuro senza problemi? Non va d’accordo con i suoi genitori, certo, ma questo non è ancora un motivo sufficiente per lasciarsi tutto dietro le spalle. Agisce in lui una forza misteriosa, un’esigenza interiore che gli “impone” di ritornare alla natura selvaggia, primordiale. Prima cammina per centinaia di chilometri attraverso gli Stati Uniti, poi, senza soldi ed equipaggiato solo di un piccolo zaino, decide di avventurarsi nelle parti più remote dell’Alaska. Ma qui la Natura non perdona: è tanto maestosa quanto invincibile e indifferente, con i suoi immensi spazi, le temperature proibitive, la difficoltà di procurarsi il cibo. Il sogno di Christopher, che si rifugia in un autobus abbandonato, si tramuta in un orribile incubo. La sua voglia di vivere in modo puro svela un crudele “cupio dissolvi”, un desiderio di sparire che lo porta inesorabilmente alla morte per stenti. Dall'immensità della gelida Alaska all'immensità dell’Oceano. Ancora una volta un uomo solo di fronte alla potenza paurosa, impersonale, tragicamente grandiosa della Natura. Il mare infinito, che è sempre a un passo dal togliere la vita al naufrago protagonista. Un incidente banale, lo scontro con un container alla deriva, ha prodotto una falla nella sua barca a vela. Sembra un problema risolvibile, e invece l’acqua a bordo aumenta sempre di più, poi arriva una terribile tempesta. Lo spettatore resta a tu per tu per tutta la durata del film con questo uomo solo, che lotta disperatamente, usando tutte le possibilità offerte dalla sua intelligenza e dalle sue non comuni capacità manuali. La fine però sembra segnata. La Natura, come nel film di Penn è tanto maestosa quanto inesorabilmente indifferente. Là, però, il protagonista soccombe; qui la sua tenacia, la sua invincibile voglia di vivere, complice ovviamente un colpo di fortuna, hanno infine la meglio.

Dersu Uzala – Il piccolo uomo delle grandi pianure, di Akira Kurosawa (Urss, Giappone 1975)/The way back, di Peter Weir (Usa 2010)

Siberia. Un nome geografico che trasmette un brivido. Nella Russia degli zar prima, e poi nell'Urss della dittatura comunista, il solo pronunciarlo evocava la possibilità di terminare la propria vita in condizioni terribili. Un luogo sconfinato, freddissimo d’inverno e infestato da nugoli di zanzare l’estate, sede di alcuni dei luoghi di pena più duri del pianeta. Il “piccolo uomo delle grandi pianure” Dersu Uzala è un abitante autoctono di questo luogo. All'inizio del secolo scorso viene incontrato da una spedizione geografica russa che sta esplorando per la prima volta quelle lande estreme. Si rivela un personaggio di estrema saggezza, capace di affrontare le sfide estreme della Natura. Infatti la conosce a perfezione, non la sfida mai, vive seguendone i ritmi e senza pretendere di dominarla. Insomma, l’esatto contrario di quanto ha fatto, fa e continua a fare l’uomo bianco. Nel suo incontro con questo indigeno straordinario, il capitano russo Arseniev impara cose che mai gli potrebbero essere trasmesse dai libri di scuola. Ma la Siberia è sempre là, con la sua natura estremamente ostile. Per chi non vi è nato, ma è costretto a passarvi gli anni in durissime condizioni detentive, è molto spesso solo un lugubre lasciapassare verso la morte. Qui è infatti la sede dei tremendi gulag, i campi di prigionia destinati agli oppositori del regime sovietico, usati da Stalin per sterminare i suoi oppositori. La Natura, come dice uno dei comandanti di questi gulag, è il vero carnefice dei detenuti. Non c’è praticamente bisogno di sbarre: chi si avventura al di fuori del campo è destinato a una fine certa. Freddo estremo, fame, animali selvaggi, tutto concorre a farne un inferno. Nessuno, dunque, è mai riuscito a fuggire. Nessuno tranne i protagonisti del film che, dopo aver subito ogni forma di angheria, si lanciano in un’avventura impossibile: percorrere a piedi l’immensa distanza che divide la Siberia dal Nepal! Un’impresa folle, che permette allo spettatore di attraversare ogni tipo di natura vergine, dalle foreste ai laghi, dai deserti alle montagne più alte del pianeta.

King Kong, di Merian C. Kooper e Ernest B. Schoedsack (Usa 1933)/Moby Dick, la balena bianca, di John Houston (Usa 1956)

Quando la Natura si ribella. Molto prima degli allarmi di Greta e delle preoccupazioni planetarie per il riscaldamento globale, la percezione della Natura da parte degli esseri umani ha sempre avuto due facce: la bellezza e la purezza da una parte, il timore di fronte a una forza sconosciuta dall'altra. L’arte, la letteratura se ne sono sempre occupate; e dunque anche il cinema non ha potuto essere da meno. Prendiamo l’enorme scimmione King Kong. Appare nei primi anni del sonoro, che amplifica al massimo la sua dirompente presa spettacolare: urla e minaccia, grazie agli effetti speciali pare quasi uscire dallo schermo, incombe sul pubblico. Emerso da un mondo primordiale, ricorda a tutti che con la Natura non si scherza. È sempre pronta a rivelare la sua faccia non domabile, il suo aspetto più temibile. King Kong è, almeno in un primo momento, forza bruta, risvegliata dalle tenebre. Quasi un anticipo delle angosce e dei terrori che accompagneranno l’umanità nei decenni precedenti, a partire ad esempio dalla forza inusitata dell’energia nucleare. E all'ambivalenza del mondo naturale, lasciando da parte ogni altro significato psicologico e metafisico, si rapporta anche il possente film di John Houston, tratto dal capolavoro di Herman Melville. Qui il terrore arriva dalla profondità degli oceani, da quel sottofondo sconosciuto all'interno del quale emerge la nostra esistenza. Un simbolo, la balena bianca: un simbolo che ci attira e ci atterrisce, ricordandoci che la Natura, nella sua più intima essenza, è e resterà per noi sempre un insondabile mistero.

Il grande sentiero, di John Ford (Usa 1963)

Natura protagonista. Nei meravigliosi western di John Ford i paesaggi, ovviamente a partire dalla grandiosa Monument Valley, non sono mai un semplice sfondo. Fanno parte integralmente delle storie raccontate, rappresentano la grandezza della natura selvaggia del continente americano, la sua sacralità. Ecco, questo è probabilmente la parola più giusta: il cinema di Ford è attraversato dalla presenza costante del sacro, e la Natura ne è il testimone privilegiato. Da “Ombre Rosse” a “Sentieri selvaggi”, fino appunto a “Il grande sentiero”, le cattedrali di pietra delle montagne dello Utah, i paesaggi selvaggi del Colorado rimandano il senso di stupore provato dai primi esploratori. Tutto è smisurato, sublime, al di fuori della portata umana. E, di film in film, aumenta in Ford il rispetto per i primi abitanti di questi luoghi puri e sconfinati, i pellerossa scacciati dalle loro terre dall'uomo bianco. Così “Il grande sentiero” diventa un western atipico, un canto d’amore per il popolo “indiano” costretto a una lunga, estenuante marcia attraverso luoghi che ormai non gli apparterranno mai più. Lasciandoci il fondato timore che i coloni bianchi, spinti dalla consueta avidità (“greed”), non sappiano trovare la forza per rispettarne la bellezza primigenia.

Crediti immagini: Peter Zurek - Shutterstock

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