Passano i decenni, la memoria si affievolisce. La Seconda guerra mondiale si è conclusa quasi ottanta anni fa, e si arriva a studiare a malapena alla fine dell’ultimo anno delle superiori. E dunque, come è possibile non dimenticare quello che è successo? Come è possibile riconoscere l’enormità dell’orrore che è stato compiuto dalla follia nazionalsocialista, con lo sterminio di milioni e milioni di innocenti?
Auschwitz è il simbolo stesso della Shoah, l’eliminazione sistematica e “scientifica” degli ebrei catturati nei tanti Stati occupati dalle forze nazifasciste, con la solerte collaborazione o il silenzio complice di molti, troppi. La sola possibilità che ci rimane è di tenere viva la memoria, e il cinema è forse lo strumento più potente, avendo dalla sua parte la forza terribile delle immagini.
Con serietà, compostezza, pietà apprestiamoci dunque a vedere, e poi commentare insieme, storie che non vorremmo mai fossero successe. Non dimenticando mai, purtroppo, che “questo è stato”.
La zona di interesse, di Jonathan Glazer, Usa, Gran Bretagna, Polonia 2023
Sì, è davvero bella e desiderabile la villa con ampio giardino in cui vive la tranquilla famigliola al centro del film. Un marito con un lavoro ben retribuito, una moglie con la passione delle cose di gusto e delle aiuole ben curate, dei figli diligenti “senza grilli per la testa”. Si può vivere così, nell’indifferenza più assoluta, a pochi metri dalla “fabbrica della morte” di Auschwitz. Il solerte e affettuosissimo protagonista, infatti, non è altri che il comandante del più grande campo di sterminio impiantato dai nazisti. Dalla villa non si vede praticamente nulla, ma si possono sentire strani rumori: spari, urla, un trambusto superiore al “normale”. E poi, volendo essere pignoli, qualcosa si vede anche: quel continuo fumo, dal colore sinistro, che si alza continuamente nel cielo. Normale, no?, qualsiasi industria ha ciminiere che ammorbano l’aria. Ma qui è diverso: è il fumo dei forni crematori, che lavorano a ciclo continuo. Dunque, ci urla il film,è possibile chiudere gli occhi di fronte alla realtà anche quando questa è vicinissima a noi (anche oggi, purtroppo). Tanti sono stati esecutori materiali dello sterminio; ma troppi, molti di più, hanno fatto finta di non vedere.
Mr. Klein, di Joseph Losey, Francia, Italia 1976
C’è una macchia indelebile nella storia francese: la gigantesca retata del 16 e 17 luglio 1942, che portò ad ammassare nel Velodromo d’Inverno di Parigi oltre 13mila ebrei, prelevati dalle loro case e successivamente spediti ad Auschwitz verso morte sicura. Al rastrellamento non parteciparono solo i soldati tedeschi, ma anche gli agenti della polizia francese “collaborazionista”, in un vorticoso e perverso intreccio di responsabilità.
Proprio nei giorni che precedono la tragedia si svolge la vicenda, un vero e proprio incubo, di Monsieur Klein. Ricco mercante d’arti, fa ancora più soldi comprando a prezzi stracciati le opere che gli ebrei cercano con ogni mezzo di vendere per procurarsi i soldi necessari per la fuga dalla Francia occupata dai tedeschi.
Il signor Klein vive come in un limbo, disinteressandosi della sorte degli altri. Scopre però che, in giro per Parigi, c’è un altro tizio che porta il suo stesso nome, ed è ebreo. Possibile che la polizia si possa sbagliare e arrestare lui al posto dell’altro? Incomincia l’incubo, la discesa nell’abisso, con un finale assolutamente inaspettato. Il regista Joseph Losey è stato un maestro di queste storie intriganti, nelle quali spesso i personaggi entrano in labirinti psicologici ed esistenziali senza via d’uscita. Mr Klein, un piccolo uomo desideroso solo di vivere e di essere lasciato in pace, è una delle sue tante “creature” finite nella tela di ragno della storia.
Europa Europa, di Agnieszka Holland, Germania, Francia, Polonia 1990
È incredibile, eppure è una storia vera. Un giovane ebreo tedesco fugge in Polonia insieme alla famiglia, dopo che in Germania la situazione si è fatta sempre più insostenibile. Ma nel 1939 scoppia la guerra, e il giovane protagonista si ritrova nella zona polacca occupata dai sovietici in seguito al tragico Patto Molotov-Ribbentrop. Separato dai suoi famigliari, portato in un orfanatrofio, diventa un fervente comunista, imparando alla perfezione il russo. La qual cosa gli salverà la vita quando verrà catturato dai tedeschi avanzanti, ignari della sua identità ebraica e pronti a usarlo come interprete, vista la perfetta conoscenza delle due lingue. Molte altre peripezie si susseguono, sempre dominate da un Fato imperscrutabile che da una lato sembra accanirsi contro il ragazzo, mentre dall’altro gli salva sempre la vita. Così Salomon, questo il suo nome, attraversa gli orrori della guerra e della persecuzione contro il suo popolo, non riuscendo quasi a credere che lui, proprio lui!, possa essere risparmiato. Ebreo, fervente stalinista, soldato di Hitler. Il film è tratto dal libro autobiografico di Solomon Perel, scomparso in Israele nel 2023 all’età di 98 anni.
Gli ultimi giorni, di James Moll, Usa 1998
Conosciamo tutti Steven Spielberg: oltre ad aver diretto una quantità incredibile di pellicole campioni di incassi al botteghino, il suo impegno è stato costantemente rivolto alla conservazione della memoria dello sterminio degli ebrei da parte dei nazisti. È infatti il fondatore della “Shoah Foundation” e il suo nome compare, come produttore, anche nel caso di questo documentario, che raccoglie le sconvolgenti testimonianze di cinque ebrei ungheresi miracolosamente sopravvissuti alla deportazione a Auschwitz. Tre donne e due uomini che ci raccontano, a distanza di decenni, quanto hanno visto e subito. Il caso dell’Ungheria è molto particolare: il Paese, infatti, benché alleato della Germania, non permise la deportazione dei suoi cittadini ebrei per molto tempo. Ma nel marzo del 1944 i tedeschi presero il potere direttamente nelle loro mani e, in poche settimane, oltre 400mila persone furono avviate verso la “Soluzione finale”. Solo pochi riuscirono a non partire, grazie all’eroismo di alcune persone (fra gli altri, l’italiano Giorgio Perlasca). Per la stragrande maggioranza, quel viaggio fu senza ritorno.
Hotel Meina, di Carlo Lizzani, Italia 2007
E l’Italia? Che cosa è successo nel nostro Paese in quegli anni? Abbiamo già ricordato l’orrore della deportazione degli ebrei romani, nel 1943. Molti altri, nelle zone occupate dai nazifascisti, furono avviati verso la morte; per salvarsi, tanti si videro costretti a nascondersi per lunghi periodi, grazie all’aiuto di persone che si comportarono eroicamente, o a fuggire in Paesi neutrali. Un episodio che per anni è stato poco ricordato è quello ricostruito dal film di Lizzani. Un’altra tragica storia vera, accaduta a Meina, sulla sponda piemontese del Lago Maggiore, poco dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943. Da alleati, i tedeschi sono diventati occupanti: nella parte d’Italia ancora sotto il regima fascista (la cosiddetta Repubblica di Salò) i nazisti iniziano ad ammassare gli ebrei catturati per poi deportarli verso i campi di sterminio. E proprio nell’hotel del titolo vengono rinchiusi 54 prigionieri, in attesa di sicura identificazione. Per alcuni giorni è un susseguirsi di angosce e speranze, aspettando un miracolo che li possa liberare. Un microcosmo surreale, l’attesa della morte fra le mura di un hotel elegante, vittime e carnefici insieme. Follia, pura follia, determinata da un’ideologia demoniaca, da ordini assurdi. Purtroppo eseguiti alla lettera.
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