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La crisi in Ucraina

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1. UNO SGUARDO GENERALE

Lo sviluppo della crisi. Da Kiev alla Crimea. Da oltre tre mesi l’Ucraina è in preda a una crisi gravissima e dagli esiti ancora incerti. Nel suo sviluppo essa ha avuto due principali epicentri. Il primo, a partire dalla fine di novembre 2013, a Kiev, dove imponenti manifestazioni contro il governo autoritario e filorusso hanno provocato violenti scontri di piazza con decine di morti e centinaia di feriti che hanno poi portato alla destituzione del presidente Viktor Yanukovich. Il secondo, a partire dalla fine di febbraio 2014, nelle regioni orientali del paese e in particolar modo in Crimea, dove la maggioranza rus­sa della popolazione, decisamente ostile a questi sviluppi, ha alimentato violenti disordini contro quelli che essa considera i «fascisti» di Kiev, arrivando a minacciare la secessione.

L’internazionalizzazione della crisi. Com’era prevedibile, questi due terremoti hanno proiettato i propri effetti al di là dei confini dell’Ucraina. La Rus­sia di Putin, infatti, che ha enormi interessi politici, economici e strategici in un paese collocato da sempre nella sua sfera di influenza, ha dato il proprio sostegno ai ribelli della Crimea e dell’Ucraina orientale e sembra ormai pronta a reagire sul piano militare. Non si capisce ancora se per favorire separazione da Kiev delle regioni orientali e della Crimea – dove è di stanza la flotta militare russa del Mar Nero – oppure per imporre il proprio ordine alla capitale e a tutto il paese. Di fronte a questa prospettiva, ad ogni modo, la crisi ucraina è diventata una crisi internazionale potenzialmente assai pericolosa.

Le ragioni della crisi. Le ragioni della crisi in Ucraina sono estremamente complesse e aggrovigliate. Alla loro radice vi è la realtà di un paese economicamente molto fragile. Governato da una classe politica autoritaria, corrotta e sostenuta da potentissime oligarchie del denaro. Ma soprattutto «diviso» e al contempo «conteso». Diviso all’interno – per vicinanza, interessi, storia e cultura – tra le regioni orientali, che vorrebbero gravitare attorno all’orbi­ta russa, e quelle occidentali, che vorrebbero invece avvicinarsi all’Euro­pa e ai suoi standard di democrazia e benessere. E conteso all’esterno, sotto lo sguardo attento degli Stati Uniti, tra Mosca e Bruxelles, tra le politiche espansionistiche e neo­imperiali della Russa di Putin, dettate anche da ragioni di prestigio e di consenso interno, e l’interesse dell’Unione europea (Ue) al consolidamento politico ed economico dei propri avamposti orientali. È su queste oscillazioni tra Est e Ovest che si sono giocate sino ad ora le dinamiche della crisi. Dapprima, a Kiev, con la vittoria, attraverso duri scontri di piaz­za, di un movimento popolare filoeuropeo e comunque antirusso (ma con evidenti infiltrazioni di elementi ultranazionalisti e di estrema destra) sulle politiche autoritarie e filorusse del presidente Viktor Yanukovich. Poi, in Crimea, con la reazione delle popolazioni russe di quella regione, sostenute da Mosca, a questi sviluppi.

Gli scenari futuri. È difficile prevedere quali saranno le conseguenze degli eventi cui abbiamo sino ad oggi assistito. Le grandi manifestazioni popolari di Kiev hanno inferto un duro colpo a un regime autoritario e corrotto. Lo spostamento del baricentro della crisi da Kiev alla Crimea e poi l’inter­vento della Russia, tuttavia, hanno posto una grave ipoteca su questo risultato e reso più complessa e precaria la situazione. Il paese, infatti, sembra sul punto di spaccarsi, forse attraverso il ricorso a violenze su larga scala. Da qui, i diversi scenari che si possono immaginare per il futuro, i quali oscillano tra l’ipotesi di una soluzione diplomatica della crisi sino alla prospettiva di una catastrofica guerra civile sostenuta dalle armate russe, che avrebbe pesantissime conseguenze internazionali. Nessuna soluzione è esclusa. Ma certo molto dipenderà dall’atteggia­mento che i grandi attori internazionali – la Russia, l’Ue, gli Stati Uniti e l’Onu – assumeranno di fronte a questa nuova turbolenza dello spazio post-sovietico.

2. GLI ANTECEDENTI E LE CAUSE DELLA CRISI

Le ragioni più profonde della crisi. Per comprendere le ragioni più profonde di quanto sta accadendo in questi ultimi mesi in Ucraina è necessario ripercorrere per sommi capi la storia della secolare dipendenza del paese dal gigante russo e poi sovietico, e quindi la vicenda incerta e oscillante della sua parabola «post-sovietica». Senza questa e­sperienza di più lungo periodo, infatti, gli eventi più recenti risulterebbero in larga misura incomprensibili.

L’Ucraina sotto il dominio russo e poi sovietico. I territori dell’attuale Ucraina sono stati per secoli, in tutto o in parte, sotto il dominio dell’Impero russo, che proprio a Kiev, tra il IX e il X secolo, ebbe le sue prime origini. A partire dall’ultimo quarto del Settecento, con le spartizioni della Polonia (1772-1792), essi furono integrati in parte nell’impero zarista e in parte nell’impe­ro asburgico. Tra il 1918 e il 1919, quando la rivoluzione bolscevica e la prima guerra mondiale distrussero i due vecchi imperi, essi ottennero per breve tempo l’indipen­denza. Ma già nel 1922 entrarono a far parte della neonata Unione Sovietica (Urss). L’Ucraina divenne allora una delle 15 Repubbliche socialiste sovietiche. E tale rimase, con la tragica parentesi dell’occupa­zione nazista durante la seconda guerra mondiale, fino al 24 agosto 1991. Fu allora, nel quadro dell’ormai incipiente tracollo dell’Urss (consumatosi definitivamente il 25 dicembre 1991), che essa proclamò la propria indipendenza entrando poi a far parte, come membro associato, della Comunità degli Stati Indipendenti (Csi). La lunga sudditanza nei confronti della Russia e poi dell’Unione sovietica, da cui trassero alimento nel corso del tempo robusti movimenti nazionalisti, spiega alcune importanti premesse della radicata ostilità dell’Ucraina nei confronti del suo ingombrante vicino, che è oggi la Federazione russa. Al tempo stesso, però, essa spiega anche i legami profondi – politici, economici e anche culturali – che continuano a sussistere tra i due paesi. Non solo tra le élites che li governano. Ma anche tra le rispettive popolazioni. Si pensi, ad esempio, alla consistente minoranza russa (oltre il 20% della popolazione totale) che oggi vive nelle regioni orientali del paese, a est del fiume Dniepr, e soprattutto in Crimea, una regione russa che gli stessi sovietici, per rafforzare le relazioni reciproche, cedettero e inglobarono all’Ucraina nel 1954. Si pensi, poi, alla diffusione della lingua russa, che fino al principio degli anni Novanta è stata la lingua ufficiale del paese e che, anche dopo l’adozione dell’ucraino, è rimasta una lingua ampiamente parlata nelle stesse regioni occidentali, in un quadro di consolidato bilinguismo. Si pensi, soprattutto, ai rilevantissimi interessi economici che legano a doppio filo i due vicini: l’Ucraina alla Russia per l’approvvi­giona­mento energetico e la Russia all’Ucraina per gli immensi gasdotti che portano il gas russo in Europa.

L’Ucraina post-sovietica. Tra Russia ed Europa. È soltanto con la proclamazione dell’indipendenza e poi con la dissoluzione dell’Urss, ad ogni modo, che i rapporti tra Ucraina e Russia cessarono di essere un «destino» e divennero invece un «problema». Ed è in questo quadro, che la prima cercò di controbilanciare la pesante influenza della seconda aprendosi a un nuovo corso di relazioni con l’Europa e con gli stessi Stati Uniti. Questo processo, tuttavia, fu tutt’altro che lineare. Agli inizi della storia post-sovietica dell’Ucraina, sotto la presidenza dell’ex leader comunista Leonid Kravchuk (1991-1994), esso fu pesantemente condizionato dagli enormi problemi posti dalla spartizione della flotta militare ex-sovietica in Crimea e dallo smantellamento degli arsenali nucleari ex-sovietici di stanza nel paese. Essi crearono gravi tensioni sia con la Russia sia con gli Stati Uniti, ma si risolsero poi, dopo diverse resistenze, durante la lunga presidenza – durata due mandati – di Leonid Kuchma (1994-2005): nel primo caso con una soluzione negoziata con la Russia, nel secondo caso con l’accettazione dei forti incentivi economici che il presidente statunitense Bill Clinton aveva offerto all’Ucraina in cambio del disarmo. La presidenza Kuchma mostrò in modo molto chiaro le contraddizioni, i vincoli e le oscillazioni dell’Ucraina post-sovietica. Una delle sue principali pre­occupazioni fu quella dello sviluppo economico del paese, che tuttavia non riuscì a decollare in maniera significativa nonostante gli aiuti provenienti dall’este­ro. Sul piano politico, Kuchma fece approvare nel 1996 una riforma costituzionale che, nel quadro di un sistema politico di tipo semipresidenziale, ampliò i poteri del presidente della repubblica a scapito di quelli del primo ministro e del parlamento, dando un’impronta autoritaria al proprio regime. Nello stesso tempo, per favorire il processo di distensione con la Russia e neutralizzare le tendenze separatiste della Crimea, egli concesse alla regione lo statuto di repubblica autonoma, pur rafforzando di fatto il controllo dei poteri centrali su di essa. Kuchma, ancora, favorì i rapporti con i paesi europei, con l’Ue e con la stessa Nato. Ma alla fine del suo secondo mandato, nel 2004, appoggiò la candidatura del filorusso Viktor Yanukovich alla presidenza della repubblica, contro il suo antagonista filoccidentale Viktor Yushenko. Le elezioni, celebrate in novembre, furono vinte da Yanukovich. Ma i loro risultati vennero contestati da Yushenko, che denunciò gravi brogli elettorali. Prese corpo allora un vasto movimento di scioperi e manifestazioni, la cosiddetta «rivoluzione arancione». Sotto la pressione della piazza le elezioni furono invalidate e poi ripetute in dicembre, e portarono alla presidenza della repubblica Yushenko (2005-2010), favorevole all’integra­zione dell’Ucraina nella Ue e nella Nato, che fece rilevanti progressi. Sull’onda della «rivoluzione arancione» i poteri e le prerogative del presidente furono riequilibrati rispetto a quelli del parlamento e del primo ministro. Durante il mandato di Yushenko, tuttavia, la situazione politica e soprattutto economica rimase precaria, generando una vasta insoddisfazione nel paese, sull’orlo della bancarotta anche per effetto della grande crisi economica mondiale partita nel 2007 dagli Stati Uniti, che ha aggravato una crisi industriale perdurante dalla fine dell’era sovietica. Il risultato fu che alle elezioni presidenziali del 2010 risultò vincitore il suo vecchio rivale filorusso Viktor Yanukovich. Furono le sue scelte politiche a porre le più immediate premesse dell’attuale crisi ucraina. Il presidente, infatti, annullando i più importanti risultati della «rivoluzione arancione», provvide innanzitutto a ristabilire le prerogative presidenziali dell’era Kuchma, imprimendo una decisa svolta autoritaria al suo regime. Egli, poi, a fronte anche delle profferte non troppo attraenti dell’Ue, rafforzò i legami con la Russia di Putin, manifestando un crescente interesse per il progetto della cosiddetta «Unione euroasiatica», vale a dire di uno spazio economico e politico comune costruito, sotto l’egemo­nia russa, sul modello dell’Ue e in alternativa ad essa. Nel contempo, Yanukovich diede un duro colpo ai rapporti del paese con l’occi­dente. Dapprima bloccando le trattative in corso sin dal 2002 per l’ingresso dell’Ucraina nella Nato. E poi annunciando di non voler più dare seguito ai negoziati per l’avvicinamento dell’Ucraina all’Ue. Fu quest’ulti­mo atto la causa più immediata della crisi che è poi esplosa nel paese.

3. GLI SVILUPPI DELLA CRISI

Il punto di inizio della crisi (21 novembre 2013). La crisi che in questi ultimi mesi sta attraversan­do l’Ucraina ha dunque radici profonde. Essa, tuttavia, ha al tempo stesso un punto di inizio ben definito. La data decisiva è il 21 novembre 2013. È in quel giorno, infatti, che il presidente Yanukovich e il primo ministro My­kola Azarov, entrambi di orientamento filorusso, annunciarono di voler  interrompere le trattative per l’«associazio­ne» del paese all’Ue, proclamando nel contempo l’intenzione di rafforzare le relazioni economiche con la Russia di Putin. Sia pure tra mille difficoltà, quelle trattative erano state avviate ormai da diversi anni. Esse a­vrebbero dovuto condurre otto giorni più tardi, il 29 novembre, alla firma del­l’«accordo di associazione» tra Ucraina e Ue, premessa necessaria per una futura «adesione» della prima alla seconda. Fu l’interruzione di queste trattative, con tutto ciò che essa implicava, a suscitare lo sdegno popolare e a provocare l’inizio delle manifestazioni di piazza.

La prima ondata di manifestazioni (novembre-dicembre 2013). In risposta alle decisioni del governo, tra il 24 e il 25 novembre ebbero inizio le prime imponenti manifestazioni, soprattutto a Kiev, dove scesero in strada, pacificamente, circa 100.000 persone. Nei giorni successivi la situazione s’inasprì. Il 30 novembre si ebbero i primi scontri tra i manifestanti e le forze di polizia, che portarono all’arresto di 25 persone. Come piazza Tienanmen in Cina e piazza Tahrir in Egitto, piazza dell’Indipendenza – o più semplicemente Maidan, che in ucraino significa appunto «piazza» – divenne il luogo e il simbolo della rivolta, sotto gli occhi delle televisioni di tutto il mondo. «Euromaidan» – come si definì il movimento spontaneo appena costituitosi – iniziò allora a trasformarsi in qualcosa di più di un movimento favorevole a una maggiore integrazione con l’Europa. Esso iniziò ad assumere una più decisa valenza anti-regime, mutò almeno in parte la propria composizione con l’inclusione di elementi ultranazionalisti e di estrema destra, al tempo stesso antirussi e antieuropei, e si attrezzò per resistere al presidente Yanukovich. È in questo quadro che vanno collocate le grandi manifestazioni del 1° e dell’8 dicembre, cui parteciparono rispettivamente 300.000 e 800.000 persone e che portarono, su iniziativa della destra ultranazionalista rappresentata dal partito Svobo­da («Libertà»), all’occupazio­ne del Municipio di Kiev. A questi sviluppi Yanukovich – sostenuto da un numero non irrilevante di seguaci, che il 14 dicembre scesero in piazza a favore del governo – diede una duplice risposta. Da un lato, cercò di rassicurare il paese sul terreno della ripresa economica ottenendo, in due visite di Stato a Pechino (2 dicembre) e a Mosca (17 dicembre), importanti aiuti economici dalla Cina e dalla Russia i quali, tuttavia, non fecero altro che irrigidire ulteriormente gli oppositori. Dall’altro, non esitò a ricorrere al pugno di ferro, facendo arrestare decine e decine di manifestanti. Il brutale pestaggio di una giornalista impegnata nel movimento – Tetyana Chornovol – diede la misura della violenza di regime. La foto che ne ritraeva il volto tumefatto divenne uno dei simboli della protesta.

La seconda ondata di manifestazioni (gennaio 2014). Di fronte al perdurare delle proteste, il governo impresse un’ulteriore svolta agli eventi. Il 16 gennaio, infatti, il parlamento ucraino approvò una serie di leggi che imponevano rigidi limiti al diritto di manifestare. Il risultato fu che le proteste crebbero di intensità. Tra il 22 e il 25 gennaio gli scontri provocarono i primi morti: quattro tra i manifestanti e uno tra le forze di polizia. Negli stessi giorni la rivolta si estese nella parte occidentale (e più filo-europea) del paese, dove molti edifici pubblici e governativi furono occupati dai dimostranti. In una situazione ormai quasi del tutto fuori controllo, le leggi contro il diritto di sciopero furono revocate il 28 gennaio. Lo stesso giorno Mykola Azarov, capo del governo, rassegnò le dimissioni. E poche ore dopo – il 29 gennaio – il parlamento propose una sorta di tregua ai manifestanti: l’amnistia per i dimostranti arrestati in cambio della fine delle proteste e delle occupazioni. Le opposizioni, tuttavia, rifiutarono ogni com­promes­so e la situazione generale rimase estremamente tesa.

La terza ondata di manifestazioni (febbraio 2014). Intorno alla metà di febbraio sembrarono aprirsi alcuni spiragli di distensione nel braccio di ferro tra il regime e i suoi oppositori. Il 14 febbraio, infatti, il governo rilasciò gli oltre 200 attivisti finiti in carcere a partire dal dicembre 2013. Sicché due giorni più tardi, il 16 febbraio, i dimostranti posero fine all’occupazione del Municipio di Kiev. Il 18 febbraio, tuttavia, gli scontri si riaccesero in modo drammatico per il rifiuto del parlamento di introdurre in costituzione, come richiesto dagli oppositori, una netta riduzione dei poteri del presidente. Maidan e il Municipio furono di nuovo invasi dai manifestanti. La reazione del governo e delle forze del­l’ordine, che giunsero a impiegare i cecchini nell’azione repressiva, fu questa volta estremamente brutale. Almeno 28 manifestanti persero la vita. Centinaia di attivisti ri­masero feriti negli scontri, molti in modo grave. Dopo il fallimento di una nuova tregua solo annunciata, le violenze raggiunsero il culmine il 20 febbraio. Circa un ottantina di attivisti furono uccisi. Svariate centinaia rimasero feriti. Nel frattempo, però, la tenuta del regime cominciò a vacillare. Diversi reparti di polizia cominciarono a solidarizzare con i manifestanti, in particolare nelle regioni occidentali del paese. E anche all’interno del partito del presidente Yanukovich – il Partito delle regioni – iniziarono a emergere forti dissensi. Contemporaneamente la rivolta trovò un nuovo simbolo «globale» nell’immagine della giovane infer­miera volontaria, Olesya Zhukovskaya, colpita alla gola da un proiettile, che pri­ma di accasciarsi a terra riuscì a inviare ai suoi followers un drammatico tweet: «muoio». La foto della Zhukovskaya, che poi sopravvisse alla grave ferita subita, fece immediatamente il giro del mondo, suscitando enorme indignazione nell’opinione pubblica internazionale.

La caduta di Yanukovich (fine febbraio 2014). Gli scontri del 20 febbraio segnarono un punto di non ritorno per il regime di Yanukovich. Il 21 febbraio il presidente fu costretto a firmare un accordo con le opposizioni al fine di arrestare le violenze ormai dilaganti a Kiev e in varie parti del paese. Esso prevedeva la formazione immediata di un governo di unità nazionale, elezioni anticipate del nuovo presidente della repubblica e la riforma – troppo a lungo differita – della costituzione. Il giorno successivo la situazione precipitò ulteriormente. Il parlamento, infatti, votò l’impeachment nei confronti di Yanukovich, fissò le elezioni presidenziali al 25 maggio e ordinò la scarcerazione immediata di una delle principali figure dell’opposizione al regime, Yulia Tymoshenko, tra i leader della «Rivoluzione arancione» del 2004, in prigione sin dal 2011 con l’accusa di corruzione e abuso di ufficio. Yanukovich fuggì allora da Kiev, gridando al colpo di stato, mentre i manifestanti assumevano il controllo della capitale e della residenza presidenziale. L’ex-presidente, accusato formalmente di «omicidio di massa» e sottoposto a un ordine di cattura e alla prospettiva di essere processato dalla corte internazionale dell’Aja, è ancora latitante. Secondo alcune fonti, si sarebbe dapprima rifugiato nelle regioni orientali del paese o in Crimea. Oggi è al sicuro in territorio russo, da dove continua a denunciare – senza però un netto appoggio di Putin – l’illegittimità della sua destituzione.

Da Kiev alla Crimea. Gli ulteriori sviluppi della crisi (fine febbraio-inizio marzo 2014). La caduta e la fuga di Yanukovich impressero una nuova e assai preoccupante svolta alla crisi ucraina. Mentre infatti a Kiev, in una situazione di perdurante confusione, si insediava un governo provvisorio presieduto da Arseniy Yatsenyuk, con la presidenza ad interim di Oleksandr Turcinov, l’epicentro della crisi si spostò bruscamente nelle regioni orientali del paese, e in particolare in Crimea, dove la popolazione è per due terzi russa ed è di stanza la flotta militare russa del Mar Nero. In questa regione i filorussi diedero inizio, negli ultimi giorni di febbraio, a rumorose manifestazioni contro la nuova dirigenza «fascista» ucraina, paventando lo spettro della secessione da Kiev e invocando l’intervento di Mosca. Si ebbero anche i primi scontri e le prime violenze tra i filorussi e le minoranze favorevoli al nuovo corso post-Yanukovich. Il 27 febbraio, a Simferopoli, capitale della repubblica autonoma di Crimea, la sede del parlamento regionale fu occupata dai manifestanti, forse con il sostegno di militari russi, la cui presenza nella regione andò crescendo. Anche gli aeroporti della regione furono bloccati. Contemporaneamente, dopo alcune iniziali dichiarazioni di tono distensivo, la Russia, anche per ragioni di consenso interno, iniziò ad alzare la voce. Dapprima minacciando di congelare (e poi congelando di fatto) i prestiti appena concessi al paese e di rincarare il prezzo del gas. Poi avviando una massiccia esercitazione militare ai confini orientali dell’Ucraina. Infine minacciando l’invio di un proprio contingente militare in Ucraina, approvato all’unanimità, su richiesta di Putin, dal Consiglio della Federazione russa il 1° marzo. Con questo annuncio, a cui ad oggi (9 marzo) non è stato dato ancora seguito almeno in maniera aperta, la crisi interna ucraina ha assunto definitivamente una pericolosa dimensione internazionale, suscitando grande allarme non soltanto nel paese, ma anche a Bruxelles e a Washington.

4. LE PROSPETTIVE DELLA CRISI
Gli scenari. È estremamente difficile immaginare, almeno per il momento, quali potranno essere gli esiti della crisi che abbiamo descritto nei suoi sviluppi più recenti e nelle sue cause di medio e lungo periodo. Il quadro è ancora estremamente fluido e in continua evoluzione. E non è affatto chiaro se la crisi verrà risolta con l’uso della forza oppure per via diplomatica e se essa produrrà o meno la spaccatura del paese.
Lo scenario diplomatico. L’obiettivo cui puntano con ogni evidenza le cancellerie europee, gli Stati Uniti e la nuova classe dirigente che sembra per ora aver trionfato a Kiev e nelle regioni occidentali del paese, è che l’Ucraina riesca a mantenere la propria unità e la propria indipendenza senza ulteriori violenze su larga scala, trovando un equilibrio tra le regioni occidentali e quelle orientali. Per una soluzione di questo genere, tuttavia, si dovrebbero fornire garanzie molto forti per un verso alle minoranze russe dell’Ucraina orientale e della Crimea e soprattutto alla Russia di Putin. Garanzie, s’intende, che al momento è davvero molto difficile anche solo immaginare. Al tempo stesso, si dovrebbero neutralizzare le frange più estremiste che sia a Kiev sia in Crimea puntano a drammatizzare una situazione già estremamente tesa.

Altri scenari. Le lezioni del passato: Cecoslovacchia, Jugoslavia, Georgia. Se questa prima soluzione diplomatica non dovesse realizzarsi, la crisi potrebbe dar luogo a esiti che si sono già visti, in passato, in altre crisi in qualche modo simili dello spazio in senso lato «post-sovietico». Essa potrebbe ad esempio portare a una soluzione di tipo «cecoslovacco», vale a dire a una separazione consensuale e pacifica tra le due parti – occidentale e orientale – del paese, com’è avvenuto con successo nel gennaio 1993 in Cecoslovacchia e come potrebbe forse avvenire dopo l’ormai imminente referendum sulla secessione della Crimea, che è stato fissato dal parlamento regionale di Simferopoli al prossimo 16 marzo. La crisi, però, potrebbe anche precipitare, magari proprio dopo quel referendum, nel baratro di una guerra civile su vasta scala. Si materializzerebbe, in tal modo, uno scenario di tipo «jugoslavo», in qualche modo paragonabile al dramma che ha sconvolto la ex Jugoslavia per 10 anni a partire dal 1991. Si tratterebbe di uno scenario rovinoso, complicato dalla vicinanza del gigante russo, che proietterebbe immediatamente la crisi sul piano internazionale, con conseguenze imprevedibili. Senza giungere alla spaccatura del paese – che non sembra essere nelle intenzioni di nessuno dei grandi attori internazionali coinvolti – la crisi potrebbe preludere, ancora, a uno scenario di tipo «georgiano». È cioè possibile – e le analogie sino ad ora non sono poche – che accada in Ucraina quanto è già accaduto in Georgia nel 2008. Anche quel paese, infatti, nella sua storia post-sovietica si è trovato in bilico tra oriente e occidente, ha avuto nel 2004 la sua «rivoluzione colorata» (la «rivoluzione rosa») e ha dovuto confrontarsi, mentre si allontanava da Mosca, con la minaccia secessionista dell’Ab­khazia e dell’Os­sezia del sud che si erano proclamate indipendenti con il sostegno di Mosca. La crisi georgiana si risolse nel 2008 con l’intervento militare russo nelle due regioni secessioniste e con l’invasione del paese che giunse a minacciare la capitale Tbilisi. La fase più acuta della crisi, tuttavia, si risolse allora rapidamente con il riconoscimento da parte della Russia dell’indipendenza delle due regioni, con la completa rottura delle relazioni diplomatiche con Tbilisi e con un lento ritiro delle truppe occupanti, senza che tuttavia si accendesse nel paese una guerra civile di grandi proporzioni.

Quale futuro per l’Ucraina? Tutti questi scenari sono, sia pure in varia misura, possibili. Le grandi crisi internazionali – e la crisi ucraina è diventata ormai tale – possono tuttavia avere sviluppi imprevedibili. Data la grande debolezza del paese, prossimo alla bancarotta e guidato da una classe politica debole e soggetta a ricatti di ogni tipo, molto dipenderà dalle politiche (e dall’intransigenza o dalla moderazione) che nei prossimi mesi riusciranno a mettere in campo i grandi attori internazionali, in primo luogo la Russia, gli Stati Uniti, l’Unione europea e l’Onu.
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