La NATO (North Atlantic Treaty Organization - Organizzazione del Trattato Nord Atlantico) è un’alleanza politico-militare che comprende attualmente (maggio 2023) gli Stati Uniti, il Canada e 29 paesi europei. È stata istituita il 4 aprile 1949 con il relativo Trattato (detto anche «Patto Atlantico»), siglato a Washington durante una delle crisi più acute della Guerra fredda: il «blocco di Berlino» da parte dell’Unione Sovietica, durato dal 24 giugno 1948 all’11 maggio 1949. Da allora, e per oltre quarant’anni – fino al 1991 – la NATO è stata, sia pure in chiave difensiva, il braccio armato dell’«Occidente» contro l’URSS e il blocco sovietico, che il 14 maggio 1955 hanno a loro volta dato vita a una propria struttura di cooperazione militare: il Patto di Varsavia.
Con la caduta dei comunismi tra il 1989 e il 1991 e lo scioglimento formale dello stesso Patto di Varsavia il 1° luglio 1991 – avvenuto ancor prima della dissoluzione dell’URSS (25 dicembre 1991) – la NATO ha visto scomparire il suo tradizionale nemico. Ha dovuto quindi assumere una nuova fisionomia e darsi nuovi obiettivi strategici, adeguandoli di volta in volta alle mutevoli e poi turbolente trasformazioni delle relazioni internazionali, culminate da ultimo nella guerra russo-ucraina, iniziata il 24 febbraio 2022 e tuttora in corso.
Ripercorrere brevemente la sua storia più recente – dalla caduta dell’URSS a oggi – ci permette di leggere in controluce i profondi cambiamenti che hanno investito gli equilibri mondiali negli ultimi tre decenni e di gettare uno sguardo più generale sulla drammatica crisi che, da un anno a questa parte, bussa da est (e non solo da est) alle porte dell’Europa e dell’Occidente.
Conviene tuttavia partire dall’inizio, e cioè dalla istituzione stessa del Trattato Nord Atlantico, per illustrarne brevemente i principi ideali e organizzativi più generali.
L’Organizzazione del Trattato Nord Atlantico: principi e struttura
Il Patto Atlantico fu siglato il 4 aprile 1949 da 12 paesi: Stati Uniti, Canada, Regno Unito, Francia, Germania, Italia, Portogallo, Belgio, Paesi Bassi, Lussemburgo, Norvegia e Danimarca. Esso si compone di un breve Preambolo e di 14 articoli.
Sono essenzialmente tre – già fissati nel Preambolo – i principi su cui esso si fonda. Il primo, di carattere più generale, è la piena sintonia dell’Alleanza con gli scopi e i valori dello Statuto delle Nazioni Unite (ONU), e dunque la volontà di «vivere in pace con tutti i popoli e con tutti i governi». Il secondo – di carattere più esplicitamente valoriale – è quello di salvaguardare, nello spazio nordatlantico, «la libertà dei popoli, il loro comune retaggio e la loro civiltà», con un esplicito riferimento alla «democrazia», alle «libertà individuali», allo «Stato di diritto» (rule of law), al «benessere» e alla «stabilità». Il terzo – assai più operativo – riguarda la necessità di costruire un meccanismo di «difesa collettiva» (collective defence) a presidio «della pace e della sicurezza» nella regione del Nordatlantico.
Il primo principio è ribadito con forza nell’articolo 1, là dove si legge che le parti si sforzeranno di «comporre con mezzi pacifici qualsiasi controversia internazionale in cui potrebbero essere coinvolte» e si asterranno «nei loro rapporti internazionali dal ricorrere alla minaccia o all’uso della forza, assolutamente incompatibile con gli scopi delle Nazioni Unite». Il secondo principio è formulato nell’articolo 2, che fa riferimento al «rafforzamento delle libere istituzioni» delle parti contraenti e alla loro crescente cooperazione economica. Il terzo principio, a sua volta, è ulteriormente declinato e sviluppato negli articoli seguenti. In essi, infatti, si legge che le parti si presteranno reciproca assistenza per accrescere «la loro capacità individuale e collettiva di resistere a un attacco armato» (art. 3) e che «si consulteranno ogni volta che, nell’opinione di una di esse, l’integrità territoriale, l’indipendenza politica o la sicurezza di una delle parti sia minacciata» (art. 4).
È di particolare importanza l’articolo 5, che definisce in quali condizioni possono e devono attivarsi concretamente i meccanismi della «difesa collettiva». Vale la pena citarlo per intero, perché è ad esso che la NATO ha fatto più volte riferimento nei suoi documenti – invocandolo per davvero una sola volta all’indomani degli attentati dell’11 settembre 2001 – e perché sono proprio quei meccanismi che potrebbero scattare qualora il conflitto russo-ucraino dovesse sfuggire di mano.
Le parti convengono che un attacco armato contro una o più di esse in Europa o nell’America settentrionale sarà considerato come un attacco diretto contro tutte le parti, e di conseguenza convengono che se un tale attacco si producesse, ciascuna di esse, nell’esercizio del diritto di legittima difesa, individuale o collettiva, riconosciuto dall’art. 51 dello Statuto delle Nazioni Unite, assisterà la parte o le parti così attaccate intraprendendo immediatamente, individualmente e di concerto con le altre parti, l'azione che giudicherà necessaria, ivi compreso l'uso della forza armata, per ristabilire e mantenere la sicurezza nella regione dell’Atlantico settentrionale. Ogni attacco armato di questo genere e tutte le misure prese in conseguenza di esso saranno immediatamente portate a conoscenza del Consiglio di Sicurezza [dell’ONU, nota dell’autore]. Queste misure termineranno allorché il Consiglio di Sicurezza avrà preso le misure necessarie per ristabilire e mantenere la pace e la sicurezza internazionali.
Dopo ulteriori specificazioni circa la natura e le fattispecie dei possibili attacchi armati ai paesi NATO (art. 6), la piena conformità del Trattato allo Statuto delle Nazioni Unite (art. 7) e l’impegno dei contraenti a non sottoscrivere con paesi terzi accordi in contraddizione con il Trattato stesso (art. 8), seguono altri due articoli importanti: l’art. 9, che istituisce un Consiglio, in cui saranno rappresentate tutte le parti «per esaminare le questioni relative all’applicazione del Trattato» e un Comitato di difesa per «raccomandare le misure da adottare per l’applicazione degli articoli 3 e 5»; e l’art. 10, esplicitamente dedicato alla possibilità di allargare lo spazio della difesa collettiva nordatlantica ad altri paesi europei. Anche questo articolo merita di essere citato per intero, perché chiama in causa la famigerata – e oggi tanto discussa – «espansione della NATO»:
Le parti possono, con accordo unanime, invitare ad aderire a questo Trattato ogni altro Stato europeo in grado di favorire lo sviluppo dei principi del presente Trattato e di contribuire alla sicurezza della regione dell’Atlantico settentrionale. Ogni Stato così invitato può divenire parte del Trattato depositando la propria richiesta di adesione (instrument of accession) presso il governo degli Stati Uniti d’America. Il governo degli Stati Uniti d’America informerà ciascuna delle parti del deposito di ogni richiesta di adesione.
Gli ultimi quattro articoli definiscono rispettivamente, e assai sinteticamente, le modalità di ratifica del Trattato da parte dei singoli paesi (art. 11); la possibilità di sottoporlo a revisione in relazione ai possibili mutamenti degli equilibri internazionali (art. 12); la possibilità di recesso dalla NATO, ma dopo almeno vent’anni dalla sua entrata in vigore (art. 13); e, ancora, il deposito delle copie autentiche del Trattato negli archivi del governo USA, che li dovrà trasmettere ai governi degli altri Stati firmatari (art. 14).
La NATO durante la Guerra fredda
Istituita nel contesto del grande confronto/scontro tra USA e URSS e i rispettivi blocchi, la NATO è in verità rimasta per tutta la durata della Guerra fredda (fino al 1991) uno strumento di mera deterrenza, resa ovviamente assai complicata dall’enorme proliferazione degli armamenti nucleari e convenzionali da entrambe le parti in competizione. In assenza di una minaccia concreta ai danni dello spazio nordatlantico, e in particolar modo dell’Europa occidentale, infatti, i meccanismi di «difesa collettiva» previsti dall’art. 5 non sono mai stati invocati né tanto meno attivati.
Nel frattempo, tuttavia, è andata modificandosi e articolandosi ulteriormente l’organizzazione e la stessa composizione della NATO. Da un lato, con la creazione di un Consiglio permanente dotato di poteri esecutivi tra il 1950 e il 1951, cui si sono affiancate nel corso del tempo ulteriori strutture sia politiche sia militari. Dall’altro lato, con l’ingresso di altri paesi nell’Organizzazione: nel 1952 la Grecia e la Turchia, nel 1955 la Germania Ovest (RFT, Repubblica federale tedesca), nel 1982 la Spagna e, infine, nel 1990 la ex Germania Est (RDT, Repubblica democratica tedesca), a seguito della riunificazione delle due Germanie avvenuta in quel medesimo anno. Si trattava, in quest’ultimo caso, di una prima espansione verso est della NATO, che acquisiva così tra i suoi membri un ex alleato sovietico precedentemente integrato nel Patto di Varsavia.
Cronologia delle adesioni alla NATO in Europa – crediti: Patrickneil, Wikimedia Commons
Di particolare interesse la posizione della Francia. Tra i paesi firmatari del Trattato nel 1949, nel 1966 – sotto de Gaulle – essa uscì dalla NATO con l’obiettivo di perseguire un’autonoma politica militare e di difesa, anche sul piano degli armamenti nucleari. Il suo ritorno nell’organizzazione avvenne oltre quarant’anni più tardi, nel 2009.
1949 | Belgio, Canada, Danimarca, Francia (uscita nel 1966 e rientrata nel 2009), Islanda, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Norvegia, Portogallo, Regno Unito, Stati Uniti |
1952 | Grecia e Turchia |
1955 | Repubblica Federale Tedesca (Germania Ovest) |
1982 | Spagna |
1999 | Cechia, Polonia, Ungheria |
2004 | Bulgaria, Estonia, Lettonia, Lituania, Romania, Slovacchia, Slovenia |
2009 | Albania, Croazia |
2017 | Montenegro |
2020 | Macedonia del Nord |
2023 | Finlandia |
Come già detto, tuttavia, è a partire dal 1991 – l’anno della crisi terminale dei regimi comunisti sovietici e dello scioglimento del Patto di Varsavia – che la NATO ha iniziato a trasformarsi in modo strutturale: nei suoi obiettivi di fondo, nella sua composizione (articolata anche in svariati «partenariati» con paesi non-NATO) e nella sua stessa proiezione all’esterno. Restituiscono in modo assai chiaro il senso di queste trasformazioni i cosiddetti Strategic Concepts.
Gli Strategic Concepts
Gli Strategic Concepts sono documenti pubblici e ufficiali nei quali la NATO – ovviamente dal suo punto di vista – ridefinisce in una prospettiva futura di medio termine (circa un decennio, salvo eccezioni) i propri obiettivi strategici, militari e di sicurezza in relazione alle sfide, alle minacce e alle opportunità che si prospettano di volta in volta nel contesto internazionale.
Durante la Guerra fredda, la NATO ha approvato quattro Strategic Concepts, tutti sostanzialmente incentrati sul principio della «difesa collettiva» contro una possibile minaccia o aggressione da parte sovietica: il primo nel 1950, poco dopo la sua istituzione; il secondo nel 1952, nel contesto della guerra di Corea (1950-1953); il terzo nel 1957, in relazione alla dottrina della cosiddetta «rappresaglia massiccia»; il quarto nel 1968, dopo l’uscita della Francia dall’Alleanza.
Dopo la Guerra fredda l’Organizzazione ha approvato altri quattro Strategic Concepts: nel 1991, nel 1999, nel 2010 e, da ultimo, nel 2022, pochi mesi dopo l’inizio della guerra russo-ucraina. Ad essi, dunque, faremo riferimento per fissare il senso e la direzione delle sue trasformazioni in un contesto internazionale diventato nel corso del tempo sempre più tumultuoso e instabile.
Dopo la Guerra fredda. Il primo Strategic Concept (1991)
Il primo Strategic Concept post-Guerra fredda risale al 7-8 novembre 1991: un anno cruciale per la politica internazionale, letteralmente sconvolta dalla crisi e poi dal crollo dei regimi comunisti e dell’URSS e dallo smantellamento del Patto di Varsavia. In esso viene prospettata – come si legge nel testo – una «revisione strategica fondamentale» rispetto agli anni precedenti.
I suoi assunti di partenza – ispirati a un prudente ma sostanziale ottimismo – erano essenzialmente tre. Il primo, decisivo, era che «la divisione politica dell’Europa all’origine del confronto militare dell’epoca della Guerra fredda era stata ormai superata». Il secondo era che gli sviluppi dell’integrazione europea (sanciti di lì a poco con il Trattato di Maastricht del 1992) stavano andando nella direzione di un rafforzamento dell’Alleanza atlantica nel suo complesso, il che era da valutarsi assai positivamente. Il terzo, infine, era che i progressi nel controllo reciproco degli armamenti nucleari e convenzionali sembravano promettere una nuova stagione di stabilità e di sicurezza per gli Alleati. Tutto questo – si legge nel testo – significava che era praticamente scomparsa «la «minaccia massiccia e potenzialmente immediata» che aveva segnato i primi quarant’anni della storia della NATO.
Venuta meno quella minaccia – continua tuttavia il documento – i rischi permanevano ancora, insidiosissimi, perché «di natura multiforme e multidirezionale» e dunque «difficili da prevedere e valutare». A quattro di essi veniva dedicata una particolare attenzione. Il primo proveniva dall’instabilità generale – economica, territoriale, etnica, nazionale, etc. – dei paesi ex comunisti dell’Europa centrale e orientale, che avrebbe potuto in qualche modo riverberarsi nello spazio europeo della NATO, suscitando tensioni e persino conflitti armati. Il secondo derivava dalla ancora enorme capacità militare dell’URSS, sia sul piano convenzionale sia su quello degli armamenti nucleari. Il terzo – lo aveva mostrato da poco la prima Guerra del Golfo (agosto 1990-febbraio 1991), cui la NATO diede un significativo contributo – discendeva dall’instabilità e dai conflitti nel Mediterraneo meridionale e in Medio Oriente, dove andavano proliferando tecnologie belliche e armi di distruzioni di massa potenzialmente assai pericolose per la sicurezza di alcuni Stati membri dell’Alleanza. Il quarto infine – di natura più ampia e globale – consisteva in una più generalizzata proliferazione di armi di distruzione di massa, nel terrorismo e nel pericolo di un’interruzione dei «flussi di risorse» vitali per l’Alleanza.
Un simile «contesto strategico» – si affermava in modo molto netto nel testo – rendeva tutt’altro che obsoleta l’esistenza della NATO. Confermava, anzi, la «validità duratura» del suo scopo e delle sue funzioni così come definite nel Trattato del 1949. Al tempo stesso, però, esso poneva le premesse per un approccio più ampio – non solo militare, ma anche politico – al problema della sicurezza e alle sue svariate dimensioni economiche, sociali, ambientali. Un approccio fondato sempre sul principio della «difesa collettiva», saldamente presidiata da un robusto arsenale di armi nucleari e convenzionali, ma orientato contemporaneamente al «dialogo» e alla «cooperazione» con tutti i paesi europei (anche non-NATO) e con la stessa Unione Sovietica e alla prevenzione e alla gestione delle crisi internazionali che avrebbero potuto in qualche modo minacciare gli Stati membri dell’Alleanza.
Lo Strategic Concept prevedeva una riduzione delle dimensioni complessive delle forze militari alleate, bilanciata però da una loro maggiore flessibilità e mobilità, tale da rendere possibili reazioni rapide ed eventualmente – se necessario – un significativo potenziamento della capacità bellica dell’Alleanza. L’essenziale – precisa il documento – era che le forze militari della NATO avessero una «capacità credibile» di agire in pace, nelle crisi e in guerra. A tale scopo andavano rafforzate le strutture militari integrate e le forze multinazionali, l’intelligence, le capacità logistiche, le esercitazioni comuni. Nella stessa direzione andava il mantenimento – sia pure ridotto all’indispensabile – delle forze nucleari (anche in Europa), il cui scopo doveva essere «politico», finalizzato cioè alla deterrenza: a dimostrare che un’aggressione di qualsiasi tipo non sarebbe stata «un’opzione razionale».
Questo, dunque, il documento che avrebbe dovuto orientare le strategie della NATO negli anni Novanta. Gli sviluppi tumultuosi della politica internazionale, tuttavia, dovevano imporre un significativo cambio di rotta, che è ben rispecchiato nello Strategic Concept del 1999.
Il secondo Strategic Concept (1999)
Il secondo Strategic Concept post-Guerra fredda fu approvato al vertice di Washington della NATO il 24 aprile 1999, poco più di un mese dopo l’ingresso di Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca nell’Alleanza. Si trattava di una prima e assai significativa espansione verso est dopo l’ingresso nel 1990 della ex Germania Orientale.
Soldati statunitensi controllano l'ordine a Vitina durante una protesta il 9 gennaio 2000. Spc. Sean A. Terry, U.S. Army (Wikimedia Commons)
Gli anni trascorsi dal primo Strategic Concept erano stati assai meno promettenti e pacifici di quanto si era immaginato. È sufficiente citare, tra gli altri, il drammatico conflitto nella ex Jugoslavia, nel cuore stesso dell’Europa, che aveva sconvolto e devastato i Balcani in una guerra tra le più violente degli ultimi tre decenni. In quel conflitto – si deve aggiungere – la NATO aveva esercitato un ruolo importante con le sue prime e più rilevanti missioni, dapprima in Bosnia nel 1995 e poi in Kosovo nel 1999, entrambe autorizzate dalle Nazioni Unite e orientate al peacekeeping e poi alla cosiddetta responsibility to protect. Al tempo stesso, aveva cominciato a farsi robustamente sentire il terrorismo internazionale di matrice islamica, con gli attentati al World Trade Center a New York (1993) e alle ambasciate USA in Kenya e Tanzania (1998). Il clima internazionale, insomma, si stava surriscaldando.
È su questo sfondo che va letto lo Strategic Concept del 1999. In esso era anzitutto ribadito il «valore duraturo» della NATO in un mondo di «cambiamenti imprevedibili», carico di nuove opportunità per la pace e al tempo stesso di nuovi rischi. Tra i suoi compiti principali il documento indicava quelli già fissati nel 1991: garantire la sicurezza nell’area nord-atlantica, servire come forum transatlantico di consultazione, dissuadere i nemici e difendere gli Alleati (deterrence and defence) da qualsiasi minaccia di aggressione. Esso vi aggiungeva tuttavia – in modo assai esplicito – due ulteriori impegni, entrambi finalizzati a rafforzare la sicurezza e la stabilità della regione euro-atlantica. Da un lato, la prevenzione, la gestione e la risposta alle crisi internazionali (come in Bosnia e Kosovo), in accordo con le Nazioni Unite ma fuori dagli schemi dell’art. 5 del Trattato del 1949. Dall’altro, la promozione di partenariati politici e anche militari con paesi non-NATO, nel solco già tracciato dai principi del «dialogo» e della «cooperazione» dello Strategic Concept del 1991. Il tutto, rafforzando al tempo stesso i rapporti con l’UE e l’OSCE (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa), il disarmo nucleare e il controllo delle armi NBC (nucleari, biologiche e chimiche).
I rischi individuati dal documento erano assai più complessi di quelli fissati nel 1991. Accanto a quelli rappresentati dalla perdurante esistenza di potenti armamenti nucleari fuori dallo spazio NATO, essi discendevano da molteplici fattori: in primo luogo, dalla «possibilità di crisi regionali alla periferia dell’Alleanza», scatenate da difficoltà sociali ed economiche, da rivalità etniche e religiose, da dispute territoriali, dalla violazione sulla larga scala dei diritti umani e dal «fallimento» degli Stati; in secondo luogo, dalla proliferazione di armi NBC e dal loro commercio illecito a favore di attori statali e non statali; in terzo luogo dalla «diffusione globale della tecnologia», che si traduceva in capacità militari sempre più sofisticate e in «operazioni informatiche» che avrebbero potuto mettere in pericolo le infrastrutture dell’Alleanza, sempre più dipendente dai «sistemi informativi»; e, infine, dal terrorismo, da atti di sabotaggio, dalla pirateria, dalla criminalità organizzata e, ancora, «dal movimento incontrollato di un gran numero di persone» (spesso conseguenza di conflitti armati): un movimento tale da generare problemi di insicurezza e di stabilità.
In questo quadro complesso, lo Strategic Concept ribadiva la necessità di mantenere un’adeguata capacità militare e di impiegarla non soltanto per scopi di difesa, ma anche – come già detto – per prevenire e gestire crisi ed emergenze umanitarie con operazioni e missioni che, pur concordate con le Nazioni Unite, «non rientravano nell’art. 5»: una formula che ricorre più volte nel testo. Prevedeva altresì forme rafforzate di partenariato con tutti i paesi europei, con la Federazione russa, con l’Ucraina e con i paesi del Mediterraneo. E apriva l’Alleanza all’ingresso di nuovi paesi europei e democratici, com’era da poco avvenuto con Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca.
Poco più di due anni dopo l’approvazione di questo documento – a partire dall’11 settembre 2001 – la situazione internazionale doveva tuttavia ulteriormente inasprirsi e complicarsi, ben oltre quanto previsto nel 1999. Da qui il nuovo Strategic Concept del 2010.
Il terzo Strategic Concept (2010)
Il terzo Strategic Concept post-Guerra fredda della Nato fu approvato a Lisbona il 19 novembre 2010. A quella data si era già avuta la più massiccia espansione a est dell’Alleanza con l’ingresso, nel 2004, di Bulgaria, Estonia, Lettonia, Lituania, Romania, Slovacchia, Slovenia e, nel 2009, di Albania e Croazia. Era poi successo di tutto.
L'attentato dell'11 settembre 2001 a New York. (Wikimedia Commons)
Tra i fatti più rilevanti mi limito a citare gli spettacolari attentati al World Trade Center di New York e al Pentagono (11 settembre 2001), in seguito ai quali gli USA avevano invocato per la prima volta l’art. 5 del Trattato; l’inizio della guerra e dell’occupazione dell’Afghanistan (2001-2021) e poi dell’Iraq (2003-2011), dove la NATO giocò un ruolo non secondario con le proprie missioni di peacekeeping e di addestramento delle truppe locali; l’offensiva del terrorismo islamista in Europa (e nel resto del mondo), con gli attentati di Madrid (2004) e di Londra (2005); la Grande Recessione (dal 2007). Come se non bastasse, la Federazione russa, guidata da Putin, aveva cominciato a mostrare le sue aggressive ambizioni, dapprima con la violentissima guerra russo-cecena del 1999-2009 e poi entrando in conflitto con la Georgia (2008). Erano poi imminenti (a partire dal dicembre 2010) le «primavere arabe», cui sarebbero seguiti severissimi «inverni» di violenze e guerre civili, soprattutto in Siria e in Libia. La Cina, nel frattempo, continuava a crescere. Essa non viene citata nel documento del 2010, ma lo sarà poi – e assai ampiamente – in quello del 2022.
In questo quadro, lo Strategic Concept ribadiva nella sostanza quanto era già stato fissato poco più di un decennio prima: il legame transatlantico finalizzato alla difesa collettiva; la volontà di prevenire e gestire crisi, emergenze umanitarie e conflitti; l’orientamento a costruire e rafforzare i partenariati con i paesi non-NATO e ad aprire le porte all’ingresso nell’Alleanza di altri Stati europei e democratici; l’impegno a promuovere lo smantellamento degli arsenali nucleari, fermo restando che «finché ci saranno armi nucleari nel mondo, la NATO sarebbe rimasta un’alleanza nucleare».
L’ambiente strategico, tuttavia, era andato facendosi più insidioso. Era cresciuta, in molte regioni del pianeta, la «minaccia convenzionale»; proliferavano armi nucleari e altre armi di distruzione di massa; il terrorismo minacciava direttamente la sicurezza dei cittadini dei paesi alleati; la tecnologia rendeva ancor più acute queste minacce; cresceva il numero degli attacchi informatici; si prospettavano rischi di prima grandezza per quanto riguarda il commercio internazionale e soprattutto la sicurezza energetica; la guerra elettronica e l’accesso allo spazio sembravano avere ormai aperto nuovi campi di battaglia; e, così, i cambiamenti climatici, la scarsità dell’acqua e l’aumento del fabbisogno energetico.
Come muoversi in uno scenario del genere? Ancora una volta – ribadiva il documento - con deterrenza (in particolar modo nucleare) e difesa; con l’intervento in aree di crisi anche lontane dallo spazio NATO, vale a dire fuori dai meccanismi dell’art. 5; con il controllo degli armamenti e, naturalmente, con il dialogo e la cooperazione. Vale a dire, con gli strumenti del partenariato: con le Nazioni Unite e con l’UE; con la Federazione Russa, per la quale – si legge nel testo - «la NATO non rappresenta una minaccia»; con l’Ucraina e la Georgia; con i paesi della sponda sud del Mediterraneo. Solo a queste condizioni, e a patto di riformarsi continuamente, la NATO avrebbe potuto essere «un’alleanza per il XXI secolo». Un’alleanza orientata ai valori della libertà, della democrazia, dello Stato di diritto e dei diritti umani.
Anche questo scenario, tuttavia, doveva essere superato. Dapprima per le gravi turbolenze che hanno segnato il secondo decennio del XXI secolo ma poi soprattutto con lo scoppio della guerra russo-ucraina il 24 febbraio 2022: una guerra tuttora in corso.
Il quarto Strategic Concept (2022)
Il quarto Strategic Concept è stato approvato dagli alleati a Madrid il 29 giugno 2022, quattro mesi dopo l’inizio della guerra russo-ucraina. A quell’epoca erano entrati a far parte dell’Alleanza anche il Montenegro (2017) e la Macedonia del Nord (2020), a cui si sarebbe poi aggiunta da ultimo – durante la «guerra di Putin» – la Finlandia (2023). A breve, con ogni probabilità, sarà la volta della Svezia.
Bombardamento russo su Kiev. Fonte: Ministero degli Interni del Governo Ucraino – mvs.gov.ua. Wikimedia Commons
Prima di quella guerra erano accadute molte altre cose, tra le quali meritano di essere almeno ricordate le drammatiche guerre civili in Siria e in Libia (a partire dal 2011), dove di nuovo la NATO svolse importanti operazioni; l’emersione, a partire dal 2014, dello Stato islamico (ISIS); l’occupazione della Crimea da parte della Federazione Russa (2014); un’intensa ondata di attentati terroristici in Europa, e in particolare in Francia (2015); la tragica «crisi dei rifugiati» (2015), soprattutto siriani in fuga dalla guerra civile; l’acuirsi delle tensioni (anche sul piano nucleare) tra gli Stati Uniti da un lato e l’Iran e la Corea del Nord dall’altro; e, ancora, la sfida posta dalla potenza emergente della Cina e dalla sua proiezione in primo luogo economica in tutto il pianeta.
In questo nuovo contesto, lo Strategic Concept del 2022 ritornava ai toni della Guerra fredda. Esso criticava aspramente la guerra di aggressione della Federazione russa contro l’Ucraina, si schierava per una «Ucraina forte e indipendente» quale prerequisito essenziale per la sicurezza dell’area euro-atlantica e presentava la NATO come il «baluardo dell’ordine internazionale basato sulle regole» e come il presidio della libertà e della democrazia. Il documento insisteva anche sulla minaccia persistente del terrorismo. Tornavano dunque in primo piano i principi della deterrenza e della difesa, con un accento più forte sul carattere «nucleare» dell’Alleanza. Ma permanevano i principi della prevenzione e della gestione delle crisi e della cosiddetta «sicurezza cooperativa» (i partenariati).
È di particolare rilievo il modo con cui lo Strategic Concept fotografava il nuovo «ambiente strategico», senza escludere «la possibilità di un attacco contro la sovranità e l’integrità territoriale degli alleati». In questa istantanea, infatti, i «nemici» sono più d’uno: non soltanto la Russia, ma più in generale «gli attori autoritari», che «sfidano i nostri interessi, i nostri valori e il nostro stile di vita democratico». La Russia, dunque, ma anche e soprattutto la Cina, e in subordine l’Iran e la Corea del Nord.
Questi attori, si legge in uno dei passaggi più inquietanti del testo:
«Stanno investendo in sofisticate capacità convenzionali, nucleari e missilistiche, con scarsa trasparenza o rispetto delle norme e degli impegni internazionali. I concorrenti strategici mettono alla prova la nostra resilienza e cercano di sfruttare l'apertura, l'interconnessione e la digitalizzazione delle nostre nazioni. Interferiscono nei nostri processi e nelle nostre istituzioni democratiche e prendono di mira la sicurezza dei nostri cittadini attraverso tattiche ibride, sia direttamente che tramite proxy. Conducono attività malevole nel cyberspazio e nello spazio, promuovono campagne di disinformazione, strumentalizzano le migrazioni, manipolano le forniture energetiche e ricorrono alla coercizione economica. Questi attori sono anche in prima linea nello sforzo deliberato di minare le norme e le istituzioni multilaterali e di promuovere modelli di governance autoritari».
Certo, recita il documento, con la guerra contro l’Ucraina era la Federazione Russa la «minaccia più significativa e diretta alla sicurezza degli alleati e alla pace e stabilità nell’area euro-atlantica». Essa, dunque, non poteva più essere considerata un partner dell’Alleanza, anche se era importante mantenere aperti canali di comunicazione. Il pericolo, tuttavia, veniva anche e forse soprattutto dalla Repubblica popolare cinese, che, a partire dal settore strategico dell’Indo-Pacifico e di Taiwan, stava cercando di sovvertire l’ordine internazionale basato sulle regole a tutti livelli, compreso spazio e cyberspazio. Non è un caso – si legge nel testo – che i due attori stessero rafforzando la loro partnership strategica. È vero, dunque, che perdurava la minaccia del terrorismo. Ed è vero che la fragilità e l’instabilità dell’Africa e del Medioriente costituivano pericoli di prima grandezza. La sfida fondamentale, tuttavia, proveniva ormai dai paesi autoritari e dalla loro scommessa più o meno esplicita di sovvertire l’ordine internazionale liberale. È dunque contro di essi e sempre in un orizzonte di difesa collettiva – conclude il documento – che dovrà muoversi l’Alleanza nel secondo decennio del XXI secolo. Con tutti i mezzi possibili.
Una nota conclusiva
Gli Strategic Concept sono documenti importanti. È bene specificare, tuttavia, ciò che dovrebbe essere ovvio. E cioè che essi sono espressione, anche con una certa enfasi retorica, del particolare punto di vista della NATO – vale a dire dell’«Occidente» – sulla politica mondiale, i suoi equilibri, le sue dinamiche. Un punto di vista spesso e da più parti aspramente contestato.
In questo campo, altre «narrazioni» sono possibili e sono state effettivamente elaborate, in primo luogo da quegli «attori autoritari» che per l’Alleanza rappresentano oggi la principale minaccia da cui difendersi. Dalla loro prospettiva, sarebbe esattamente la NATO, Stati Uniti in testa, a minacciare, a provocare, ad «abbaiare» ai suoi confini orientali dopo un’imperialistica «espansione» verso est che non l’ha ancora saziata. Il tutto, per intimidire, anche con lo spauracchio della guerra nucleare, coloro che hanno il coraggio di reclamare a viso scoperto e una volta per tutte la fine di un’egemonia americana che avrebbe ormai fatto il suo tempo: un’egemonia consunta e obsoleta così come lo sarebbero anche le democrazie liberali dell’Occidente, giunto al suo crepuscolo.
Ora, è effettivamente possibile – e diversi studiosi lo sostengono – che la parabola dell’egemonia occidentale stia volgendo al termine. E di certo non si può negare che le potenze euroatlantiche si siano macchiate nel corso della loro lunga storia (anche recente) di molte e gravi colpe. Per il resto però, almeno a parere di chi scrive, è davvero difficile credere a queste contro-narrazioni sostenute dai despoti del XXI secolo con dichiarazioni incendiarie, una propaganda martellante e una vera e propria montagna di fake news. Storici assai autorevoli e competenti – mi limito a citare Andrea Graziosi e il suo libro L’Ucraina e Putin (Laterza 2022) – le hanno smontate a dovere pezzo per pezzo.
Resta comunque il fatto che gli Strategic Concepts restituiscono almeno l’autorappresentazione che la NATO – e con essa le potenze occidentali – hanno voluto rendere pubblica al mondo intero. Per lo meno in questo senso, vale la pena di leggerli con attenzione.
Crediti immagine banner: Foto di gruppo dei capi di Stato e di governo dei 31 Paesi della NATO, in occasione del meeting speciale tenutosi il 24 marzo 2022, per discutere in merito all’invasione russa dell’Ucraina - The White House (crediti)