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Liberali o illiberali? Le democrazie alla prova del XXI secolo

C’è davvero un legame indissolubile tra democrazia e libertà? Francesco Tuccari espone le fragilità intrinseche delle “democrazie liberali” che devono difendersi dall’avvento di quelle “illiberali”.

leggi

La parola «democrazia» viene oggi impiegata abitualmente per definire – senza ulteriori aggettivi – quei regimi politici che si basano sul suffragio universale, sul principio e le pratiche della rappresentanza (i parlamenti), sul pluralismo dei partiti, sulla separazione dei poteri, sul rispetto di una costituzione sovraordinata alle leggi ordinarie, sulla difesa dei diritti e delle libertà dei cittadini, i quali sono chiamati a scegliere con il voto, attraverso libere elezioni periodiche, i propri legislatori e i propri governanti.

Per indicare questi regimi si usano spesso espressioni composite che ne accentuano gli elementi di volta in volta più rilevanti. Si parla allora – per citare solo le definizioni più diffuse – di democrazie «rappresentative», «pluralistiche», «competitive», «dei partiti», «costituzionali» e via enumerando. La formula senza dubbio più pregnante e di significato più generale, tuttavia, è quella di «democrazie liberali». Essa, infatti, sottolinea il legame stretto (ma in verità assai problematico) che tali regimi tentano di stabilire tra i principi della sovranità popolare e quelli della libertà individuale. Al tempo stesso richiama esplicitamente le due tradizioni storiche, politiche e culturali che, pure in forte tensione reciproca, hanno generato nel loro intreccio le moderne democrazie: la tradizione liberale e quella democratica.

Risalire alle radici di queste due tradizioni, seguirne sia pur brevemente gli sviluppi e sottolineare il carattere problematico del nesso tra democrazia e libertà ci permette di cogliere la natura costitutivamente ibrida delle «democrazie liberali» – o delle «democrazie» tout court – del nostro tempo. Ci consente poi di fissare alcuni rilevanti elementi di fragilità che esse manifestano soprattutto in epoche di crisi. Ci permette infine di comprendere il fascino discreto ma crescente che, proprio in tali epoche, possono esercitare – per riprendere una formula resa celebre dal giornalista e analista politico statunitense Fareed Zakaria e diventata presto di uso comune – le cosiddette «democrazie illiberali». Vale a dire, quelle democrazie che, in nome del popolo, finiscono per calpestare i diritti e le libertà dei singoli individui, spesso trasformandosi poi in brutali regimi autoritari che non hanno più nulla a che fare con la democrazia in qualsiasi senso intesa.

La tradizione democratica

Per oltre duemila anni – dal V-IV secolo a.C. sino alla metà del XIX secolo – il termine «democrazia» ha indicato nella sostanza il «governo del popolo», concepito di volta in volta come il governo della totalità dei cittadini oppure della parte maggioritaria e meno privilegiata di una data comunità socio-politica. A questo concetto originario di «democrazia» – che ha il suo principale (ma non esclusivo) archetipo nella complessa esperienza della democrazia ateniese del V-IV sec. a.C. e soprattutto nel suo «mito» – erano del tutto estranei i tre istituti essenziali che caratterizzano le democrazie moderne: la rappresentanza, la separazione dei poteri e le elezioni. La parola «democrazia» indicava cioè una forma di governo – contrapposta alla monarchia (il governo di un solo uomo) e all’oligarchia/aristocrazia (il governo di pochi o dei migliori) – in cui il popolo nel suo insieme (in realtà soltanto coloro che erano considerati a pieno titolo «cittadini») aveva la capacità e il pieno potere di deliberare direttamente in assemblea, senza la mediazione di «rappresentanti» eletti di qualsiasi tipo, assumendo al tempo stesso funzioni legislative, esecutive e persino giudiziarie. Pur fondato sul pilastro dell’autogoverno popolare, questo sistema prevedeva l’esistenza di specifiche «magistrature» dotate di poteri esecutivi. Tolte quelle più delicate (ad es. quelle militari), la maggior parte di esse era tuttavia attribuita – in virtù del principio dell’eguaglianza di tutti i «cittadini» – non attraverso le elezioni ma mediante il sorteggio e sempre per periodi di tempo molto brevi (di regola un anno). Ne derivava una continua «rotazione delle cariche», sottoposte a rigidi vincoli di mandato e di resoconto di fronte all’«assemblea popolare»: il vero cuore pulsante della democrazia nella sua forma originaria, in Grecia e in molte altre esperienze di «democrazia primitiva» e di «democrazia degli altri» (A. Sen). Tutte, senza eccezioni, democrazie di «piccola scala» e face to face, proprie cioè di comunità politiche di ridotte dimensioni sul modello della polis greca.

Dopo secoli di critiche spietate, di esperimenti per lo più marginali e di sostanziale oblio, a rimettere in onore questo modello originario di democrazia, pur con alcuni rilevanti aggiustamenti, fu Jean-Jacques Rousseau. Nel Contratto sociale (1762), infatti, egli ripropose in modo straordinariamente efficace il modello di una comunità politica di «liberi ed eguali», capace di autogovernarsi direttamente e senza mediazioni sulla base della «volontà generale» e in vista del «bene comune», criticando a fondo per un verso il principio della rappresentanza politica e per un altro verso il principio della separazione dei poteri. Nel suo schema, infatti, questi due principi limitavano drasticamente la sovranità popolare: il primo, consegnando di fatto il potere di fare le leggi a una ristretta cerchia di rappresentanti del popolo eletti in parlamento per lunghi periodi di tempo e privi di qualsiasi controllo da parte del demos; il secondo, dividendo artificialmente tra corpi differenti – il legislativo (il parlamento), l’esecutivo (il governo) e il giudiziario (la magistratura) – la sovranità stessa, di cui solo e soltanto il popolo doveva essere il depositario esclusivo.

La tradizione liberale e il «governo rappresentativo»

Mentre Rousseau elaborava queste riflessioni – che hanno continuato a ispirare in vario modo i paladini della democrazia radicale dall’epoca delle Rivoluzioni americana e francese sino a oggi (i giacobini, gli anarchici, i socialisti, i comunardi, i teorici dei Soviet e dei Consigli, il Sessantotto, fino alla «piattaforma Rousseau» del Movimento 5 Stelle e ad altri esperimenti consimili) – si stava ormai affermando e consolidando dapprima in Gran Bretagna, poi negli Stati Uniti e infine nel resto dell’Europa, una ben diversa forma di regime politico: il cosiddetto «governo rappresentativo». Si trattava di una forma di governo fondata sui tre pilastri della rappresentanza, della separazione dei poteri e della costituzione.

Secondo i grandi campioni della cultura liberale sette-ottocentesca – mi limito a citare, tra i molti, Montesquieu, Burke, Madison, Constant, Tocqueville, John Stuart Mill – la rappresentanza (criticata in radice da Rousseau) rispondeva a molteplici e vitali esigenze. Essa costituiva anzitutto l’unica soluzione realistica per governare Stati di medie o grandi dimensioni, in cui era diventato ormai tecnicamente impossibile radunare assemblee deliberanti di milioni di persone. A fronte di società complesse e tutt’altro che omogenee (come quelle di piccole dimensioni immaginate da Rousseau) si doveva poi rinunciare una volta per tutte alla pretesa che esistesse una metafisica «volontà generale» o un imprecisato «bene comune». Erano interessi particolari e confliggenti a dominare la vita sociale: proprio per questo motivo erano necessari i «parlamenti», agorà in miniatura concepite come luoghi istituzionali di discussione e deliberazione orientati alla composizione dei conflitti e alla formazione di una volontà politica comune frutto del compromesso tra le parti. All’interno di queste istituzioni i «rappresentanti del popolo» dovevano pertanto godere di un’autentica «libertà di mandato» (contro l’idea rousseauiana del «mandato imperativo»): i parlamentari non potevano cioè essere i semplici «portavoce», gli «avvocati» o gli «ambasciatori» di coloro che li avevano eletti, perché in questo caso non avrebbero avuto la libertà di movimento necessaria per stringere compromessi, pervenire a decisioni generali accettabili per tutti e quindi «rappresentare la nazione». In quanto luoghi esclusivi della deliberazione e della decisione politica, i parlamenti permettevano infine di liberare la gran parte dei cittadini dall’onere gravosissimo di governare, spendendo gran parte del loro tempo a occuparsi della cosa pubblica. Affidate alle cure di un ceto di persone eminenti (i notabili) o di professionisti della politica, le istituzioni rappresentative avrebbero reso gli individui «liberi» di dedicarsi al perseguimento dei propri interessi, alle necessità non trascurabili del proprio sostentamento e più in generale al godimento della propria indipendenza privata. In questo consisteva, secondo Constant, la «libertà dei moderni».

Decisiva poi – per tutta la cultura liberale – era la separazione dei poteri. Se ben congegnata, solo essa poteva impedire che nelle mani di un sovrano o di un’assemblea parlamentare si concentrassero poteri eccessivi, tali da produrre forme di governo arbitrarie e dispotiche in grado di mettere a repentaglio o di rendere precaria la libertà degli individui. Intorno alla metà del Settecento per Montesquieu (Lo spirito delle leggi, 1748) – la separazione dei poteri era un antidoto contro l’onnipotenza e l’arbitrio delle monarchie assolute. Poco meno di un secolo dopo, negli anni Trenta e Quaranta dell’Ottocento, dopo l’esperienza folgorante della Rivoluzione francese, del giacobinismo e poi di Napoleone, le cose erano ormai cambiate in radice. Per Tocqueville (La democrazia in America, 1835-40) la separazione dei poteri doveva esercitare la medesima funzione anti-dispotica contro l’onnipotenza non dei sovrani o dei pochi ma delle maggioranze. E cioè contro i rischi tirannici e dispotici strutturalmente impliciti nella stessa democrazia e nel potere assoluto del demos. Era una lezione che doveva rimanere impressa nella storia del pensiero politico.

Nello stesso senso doveva agire, per i liberali, la «costituzione». Essa doveva configurarsi come una «legge fondamentale», sovraordinata alle leggi ordinarie prodotte di volta in volta dalle maggioranze parlamentari risultate vittoriose alle elezioni. A tal fine doveva essere al tempo stesso più o meno immodificabile («rigida» più che «flessibile»), se non attraverso procedure straordinarie di revisione che prevedevano un’amplissima misura di consenso, da verificarsi al limite tramite il ricorso al referendum. Le costituzioni, insomma, dovevano sì fissare diritti, strutture ed equilibri istituzionali, modi di esercizio del potere, ma anche porre un argine alle prerogative illimitate dei parlamenti e alla stessa volontà popolare cui essi davano di volta in volta espressione.

È sulla base di questi principi, tipici della cultura liberale, che sono andate di fatto modellandosi tra Sette e Ottocento le istituzioni politiche dei principali paesi del mondo euro-americano. Esse erano permeate da un ulteriore dispositivo che le rendeva definitivamente incompatibili con il modello democratico immaginato da Rousseau: il suffragio ristretto, vale a dire un diritto di voto rigorosamente limitato ai ceti possidenti, abbienti e colti. Solo tali ceti, secondo i liberali, potevano infatti garantire un esercizio saggio ed equilibrato del potere: potevano cioè impedire che si imponesse la forza bruta e travolgente del numero e delle classi povere e ignoranti e prevenire al contempo i rischi della demagogia, al cui fascino quelle medesime classi non sapevano a loro giudizio sottrarsi (come aveva mostrato in modo esemplare l’esperienza di Napoleone I e poi di Napoleone III). Al di là di queste considerazioni, che i liberali ottocenteschi svilupparono con grande abbondanza di argomenti, il cosiddetto «governo rappresentativo», dunque, «rappresentava» in realtà soltanto una frazione estremamente ridotta del «popolo».

Dal «governo rappresentativo» alle «democrazie liberali»

È proprio dal venir meno di quest’ultimo dispositivo – il suffragio ristretto – che sono sorte, tra Otto e Novecento, le moderne «democrazie rappresentative» o «liberali». Il motore di questa trasformazione è stata la progressiva estensione del diritto di voto alle classi meno agiate fino all’affermazione del suffragio universale maschile e femminile. Si è trattato di un processo lunghissimo che, tolte poche eccezioni, è andato compiendosi soltanto nel Novecento per effetto delle lotte sociali e politiche delle classi meno privilegiate (oltre che delle donne) e delle organizzazioni politiche e sindacali che le rappresentavano. Attraverso questo processo ha finito per prendere forma uno strano ibrido che non assomigliava più all’originario modello liberale (pensato per una società con salde gerarchie sociali e politiche e nettamente divisa tra governanti e governati) e tanto meno all’originario modello democratico (pensato invece per dare il potere direttamente al popolo in una società tendenzialmente egualitaria). Non a caso, i liberali più conseguenti continuarono a lungo a criticare con molti argomenti il «diritto elettorale delle masse», sostenendo tra l’altro che esso avrebbe fatto scadere di gran lunga la qualità della classe politica selezionata dal voto popolare e dato luogo a forme più o meno esplicite di «tirannide della maggioranza», in un trionfo generalizzato della demagogia. Sull’altro versante, i democratici più conseguenti continuarono invece a scagliarsi soprattutto contro i meccanismi della rappresentanza, vedendo in essi una forma di neutralizzazione del vero potere popolare, che non aveva modo di esprimersi direttamente, come pure era successo – ma per un periodo brevissimo – nella Comune di Parigi (1871). Per un certo tempo, insomma, il concetto stesso di «democrazia liberale» o «rappresentativa» – che oggi ci sembra semplicemente un pleonasmo – apparve a molti come una contraddizione in termini, un ossimoro.

L’innesto del principio democratico del suffragio universale sul vecchio corpo liberale dei sistemi rappresentativi produsse in ogni caso imponenti trasformazioni. Venne meno l’era del potere dei «notabili», i già citati ceti abbienti e colti. Sorsero grandi e potenti partiti di massa per organizzare e plasmare il consenso popolare. La politica divenne – come scrisse Weber – una vera e propria «professione» a tempo pieno affidata a professionals. Si affermarono un po’ dappertutto dinamiche cesaristico-plebiscitarie, particolarmente adatte alla conquista del consenso delle masse. E soprattutto i parlamenti cessarono di essere realmente il luogo della formazione della volontà politica, che si spostò nelle segreterie dei partiti, nella ristretta cerchia dei loro dirigenti e dei loro leader.

In alcuni casi l’esperimento funzionò fin dal principio, in particolar modo in quei paesi con più salde tradizioni di governo rappresentativo come la Gran Bretagna e gli Stati Uniti. Altrove invece – così soprattutto in Italia e poi in Germania – non funzionò affatto, aprendo la strada alla tragica esperienza dei regimi fascisti e nazisti: regimi – si noti – che godevano di un’ampia base di consenso popolare e che al tempo stesso travolsero le istituzioni rappresentative e soppressero ogni libertà, concentrando ogni potere nelle mani di un leader in rapporto diretto con le masse, in grado proprio per questo, «in nome del popolo», di mettere a tacere parlamenti, partiti e ogni forma di opposizione. In grado, cioè, di governare in modo autoritario e illiberale.

L’epoca d’oro delle democrazie liberali

Per molti aspetti fu proprio la sonora lezione della «democrazia totalitaria» a ridare vigore e legittimità, dopo la catastrofe della Seconda guerra mondiale, al modello della «democrazia liberale», basata per un verso sui meccanismi del suffragio universale e sul pluralismo partitico e per un altro verso sui tradizionali istituti della rappresentanza, della separazione dei poteri e del costituzionalismo. Si modificarono le teorie stesse della democrazia. Essa non poteva più essere intesa, alla lettera, come «governo del popolo» orientato all’astrazione priva di ogni fondamento del «bene comune». Ci si doveva accontentare di una definizione meno grandiosa e altisonante e intenderla più semplicemente come un «metodo» per conferire il «potere di decidere» a quelle forze – leader, partiti, etc. – che in una competizione plurale, libera e periodica riuscivano a ottenere il consenso maggioritario del popolo (Schumpeter, Capitalismo, socialismo democrazia, 1942). Elezioni e pluralismo: era questa – come si andò ripetendo a lungo nella cultura politica mainstream della seconda metà del Novecento – l’essenza stessa della «democrazia liberale» e l’unico modo per tenere assieme, almeno in qualche misura, il principio democratico del consenso popolare e quello liberale della difesa dei diritti e delle libertà degli individui.

Questo modello funzionò per diversi decenni, in particolare nei «Trenta gloriosi», gli anni che vanno dalla fine del secondo conflitto mondiale fino agli anni Settanta. Il suo successo, tuttavia, fu profondamente condizionato dal fatto che le democrazie liberali andarono aprendosi sempre di più ai temi dei diritti sociali e del welfare, promettendo e garantendo a tutti un certo grado di benessere. In tal modo esse costruirono attorno a sé un consenso davvero generale, il cosiddetto «compromesso socialdemocratico».

La crisi delle democrazie liberali e la tentazione della democrazia illiberale

Poi, però, le cose iniziarono a cambiare nuovamente. L’offensiva del cosiddetto capitalismo neoliberale, il progressivo smantellamento dello Stato sociale, il ritorno delle retoriche «mercatiste» posero fine a quel compromesso fin dai tempi della premiership della Thatcher in Gran Bretagna (1979-1990) e della presidenza Reagan negli Stati Uniti (1981-1989).

Nel contempo, insieme al modello della fabbrica fordista e dei tradizionali rapporti di classe tipici delle società avanzate, vennero meno le grandi narrazioni ideologiche del Novecento, in particolare per effetto del definitivo esaurimento del grandioso ma fallimentare esperimento del socialismo realizzato, che tra il 1989 e il 1991 portò alla disintegrazione della cosiddetta «patria dei lavoratori», l’Unione sovietica. L’avvento e poi il pieno dispiegarsi della «globalizzazione» fecero il resto. I luoghi naturali della democrazia liberale, i grandi Stati nazionali, cominciarono a perdere quote crescenti della propria sovranità – e cioè del proprio potere di decidere in ultima istanza – in un mondo sempre più interdipendente. Messi in ginocchio dalle logiche globali dei mercati, resi ogni giorno più impotenti da potentissime istituzioni sovranazionali tecno-burocratiche (Banca mondiale, Fondo monetario internazionale, la stessa Ue in Europa, etc.) capaci di dettare loro regole e comportamenti, sempre più vincolati dall’oggettiva interdipendenza del pianeta su molteplici piani (clima, migrazioni, sviluppo tecnologico, governo dell’economia, pandemie, etc.), essi hanno in gran parte cessato di poter «decidere» alcunché. Forse – ma sul punto il dibattito è ancora molto acceso – essi sono diventati obsoleti come è accaduto un tempo per la polis antica, in un orizzonte che è ormai di scala planetaria.

Come che sia, la crisi della sovranità statuale si è tradotta immediatamente in una crisi profonda della «democrazia liberale», vale dire dell’unica forma di democrazia realizzata che conosciamo da oltre un secolo. Lo attesta una letteratura ormai alluvionale sulla «crisi», il «tramonto», addirittura la «morte» della democrazia. Una letteratura che, oltre alle trasformazioni che ho già richiamato, insiste anche sulla crisi dei partiti (i pilastri delle democrazie liberali) e sull’impatto tellurico che hanno esercitato sulla politica nuove forme comunicative e di formazione del consenso quali la televisione prima e oggi la Rete e i social media. Con una formula assai efficace il politologo britannico Colin Crouch ha coniato il concetto di «postdemocrazia»: una forma politica in cui rimangono esteriormente in piedi gli istituti propri delle tradizionali democrazie liberali. Al di là delle apparenze, tuttavia, sono altre e tutt’altro che democratiche le forze che governano il mondo: grandi imprese transnazionali, la finanza, le agenzie di rating, le tecno-burocrazie globali.

Come abbiamo già sottolineato in altri articoli di questa sezione, la reazione a questa crisi delle democrazie – che è una crisi di efficacia e al tempo stesso di legittimità – è duplice. Da un lato, emerge sempre più potente la tentazione di un governo tecnocratico delle società, l’idea del potere dei competenti, di coloro che sanno, di nuove élite epistocratiche (legittimate cioè dalla conoscenza e dall’expertise) in grado di affrontare la complessità e i problemi dei nostri tempi, di fatto «de-democratizzando le democrazie». Dall’altro lato, cresce la tentazione opposta di «democratizzare la democrazia». Di restituire cioè in modo sostanziale lo scettro al vero «principe» e cioè al popolo, riscoprendo e implementando forme più intense e immediate di partecipazione dal basso alla formazione della volontà politica, ben oltre i tradizionali limiti fissati dai meccanismi prudenti delle democrazie liberali. È la ricetta populista di una (presunta) democrazia «a realtà aumentata», che si può realizzare o attraverso forme immediate di democrazia diretta e partecipativa oppure – ed è la soluzione più semplice ma più funesta – attraverso il rapporto diretto tra le masse e il leader che pretende di interpretarne con la sua persona le volontà più recondite, riproducendo in questo modo lo spettro, temutissimo dai liberali, del potere concentrato e dispotico, sia pure in nome del popolo.

Entrambe le soluzioni – la tecnocratica e la populista – lasciano estremamente perplessi. La prima rappresenta una sfida diretta alla democrazia tout-court. La seconda rischia a sua volta di far saltare il delicato meccanismo che ha permesso di tenere insieme il principio della sovranità popolare e il bene supremo della libertà degli individui. Rischia cioè di dare consistenza a nuove «democrazia illiberali» che blandiscono con successo il protagonismo popolare anche a costo di travolgere le istituzioni che in ultima analisi garantiscono la libertà: la rappresentanza, la separazione dei poteri, i principi costituzionali.

Come ridare vigore alle «democrazie liberali» in un mondo in tumultuosa trasformazione: è questo il grande e per ora irrisolto problema politico del nostro tempo.

Crediti immagini:
Home page: Jean-Jacques Rousseau ritratto da Maurice Quentin de La Tour intorno al 1750-1753 (Wikipedia)
Banner: Elezione del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel 2015 a Montecitorio. Crediti: Quirinale.it/Wikipedia

Gambetta proclama la Repubblica

Gambetta proclama la Repubblica (Crediti: Wikipedia)

Il frontespizio de Il contratto sociale di Jean Jacques Rousseau (Crediti: Wikipedia)

Tocqueville ritratto da Théodore Chassériau

Tocqueville ritratto da Théodore Chassériau (Crediti: Wikipedia)

Margareth Thatcher e Ronald Reagan

Margareth Thatcher e Ronald Reagan nel 1986 a Camp David (Crediti: Wikipedia)

Copertina del libro L'Esprit des Lois in un'edizione del 1749

Copertina del libro L'Esprit des Lois in un'edizione del 1749 (Crediti: Wikipedia)

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